Ok, questo non è il post che avrei voluto fare, perché nonostante mi fossi impegnato a farlo su un blog qui vicino poi alla fine non ce l’ho fatta, e quindi questo è un rimpiazzo, scritto di getto, e comunque connesso all’argomento che avrei dovuto trattare ma non tratto.
O qualcosa del genere.
Sì, è stato quel tipo di giornata.
Da dove cominciare?
Ma sì, dal 1971, e da un libro dei Monthy Python in cui si parlava di un gioco chiamato Drabble (ovvia parodia dello Scrabble, il nostro Scarabeo) nel quali il primo che scrive un romanzo vince.
Per comodità, si era deciso che cento parole erano sufficienti alla classificazione di “romanzo”, che mica avevano tempo da perdere.
Da quest’idea storta dei Python, degli sciroccati di Birmingham (che una mia cara amica, oh, così tanti anni or sono, definì coloritamente “l’ascella dell’universo”) inventarono il drabble, che stando a Wikipedia…
è un’opera di narrativa estremamente breve, di esattamente cento parole, non necessariamente includendo il titolo. Lo scopo del drabble è la brevità, per mettere alla prova l’abilità dell’autore di esprimere idee interessanti e significative in uno spazio estremamente confinato.
Wow!
Ho già detto in passato come io sia convinto che la forma breve sia la palestra di kung fu di chi scrive.
Con questo non voglio dire che chi scrive (o legge) racconti sia moralmente o intellettualmente superiore a chi scrive (o legge) romanzi.
Dico semplicemente che il genere di abilità che si debbono affinare per scrivere un racconto sono abilità diverse da quelle utili per la narrativa lunga.
E, anche, che il racconto non perdona – tre paragrafi brutti in un buon romanzo di 300 pagine sono una cosa che probabilmente neanche notiamo, tre paragrafi meno che perfetti in una storia di venti pagine sono come uno stridere assordante che cortocircuita l’intera narrazione.
Perciò, allenarsi sulla forma breve aiuta a sviluppare un certo tipo di disciplina.
E quindi, mi piace il drabble.
Ma questa non è tutta la storia – perché quando io scoprii il drabble Wikipedia non esisteva (sì, vi fu un tempo in cui Wikipedia non esisteva), e quindi io scoprii il drabble sulla base di una formula, una ricetta, leggermente diversa.
Ma che in fondo mi piace di più.
Il drabble, mi spiegarono, è
una breve biografia di un personaggio immaginario, scritta esattamente in cento parole (non una di più, non una di meno), più al massimo una decina di parole per il titolo.
(L’enfasi è mia)
E quindi noi*, quando eravamo giovani ed innamorati (o pensavamo di esserlo), invece di scriverci poesie, che poi le scrive chiunque, facevamo un gioco.
Cercavamo una foto, una foto qualsiasi, e poi ci scrivevamo un drabble.
Una biografia in 100 parole, di un personaggio immaginario ritratto nella foto.
Per giocare**.
E non ho detto poesia solo per sfottere gli pseudoromantici che si struggono leggendo Bodlér (immagino non si scriva così, è un francese), ma perché quando si scrive un drabble, quando si deve star rinchiusi in quella gabbia da cento parole, il linguaggio si trova quasi suo malgrado costretto ad assumere un ritmo, una metrica, una struttura, per cui diventa una sorta di poesia in prosa.
Anche se forse in inglese viene meglio.
Il drabble è un esercizio utile, e un eccellente strumento per creare e delineare personaggi senza quella noiosa lista di diecimila domande che viene spesso proposta qua e là.
Provare per credere.
Si fa più o meno così…
Claudia e le sue sigarette
Claudia cominciò a fumare il sei aprile del 1986, attorno alle due del pomeriggio. Aveva ventiquattro anni, e non aveva mai fumato: acquistò un pacchetto di Camel e un accendino Bic e da quel momento non smise più. Per poter fumare sul lavoro, lasciò anche il posto come insegnante d’asilo, e si fece assumere come barista in un pub. Suo padre, strenuo oppositore del vizio, era morto il cinque di aprile 1986, per un cancro al polmone. Era un modo come un altro per elaborare il lutto, si disse Claudia. E da quel momento ebbe una vita ragionevolmente felice.
Così, improvvisato al volo, immagine beccata su google.
Il drabble soddisfa anche, io credo, la distinzione fra romanzo e racconto proposta da Samuel R. Delany – un romanzo è una narrativa nella quale seguiamo un personaggio attraverso le sue vicende, idealmente dalla nascita alla morte; un racconto è una narrativa breve che, concentrandosi sul momento di svolta della vita del protagonista, ne definisce i conflitti e ne riassume e giustifica l’esistenza.
Bello liscio.
Un giorno metterò insieme una collezione di drabble.
La intitolerò 50 Ragazze Immaginarie.
E voglio che si metta agli atti che invidio profondamente i giapponesi, che i drabble possono distribuirli agevolmente via Twitter, o SMS.
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* e a chi si riferisca quel noi è una cosa che sappiamo noi e riguarda solo noi. Grazie.
** e a mio parere questo batte con una mano legata dietro la schiena l’uscire con un quasi laureato in economia e commercio con una grossa automobile e il livello di conversazione di un branzino. Ma son scelte personali, naturalmente. Certo, mia cara, non sono stato poi io a pentirmi.
(non badate a queste poche righe, è roba privata).
19 luglio 2012 alle 2:11 AM
Quindi Le Citta’ Invisibili sarebbero una raccolta di drabble?
19 luglio 2012 alle 9:03 AM
un altro esperimento interessante via twitter, e un ottimo esercizio col limite dei 140, è quello di @micronarrativa (anche su http://micronarrativa.com/). alla fine sempre di gabbi e limiti si tratta. comunque sei impietoso.
19 luglio 2012 alle 9:14 AM
era sagittario, vero?
19 luglio 2012 alle 10:22 AM
Mi hai ricordato un concorso fatto da Scheletri, dove si partecipa con racconti di sole 300 parole. Una volta vi partecipai… sfida davvero notevole!
19 luglio 2012 alle 10:30 AM
Ma c’è una tolleranza sul numero di parole? “Anthropology” di Dan Rhodes contiene solo racconti di drabble+1 parole!
19 luglio 2012 alle 10:43 AM
@Salomon
Esistono delle varianti.
Ad esempio Wikipedia mi rivela che vanno forte le antologie di racconti di 55 parole (che son proprio pochine).
Altrove mi lasciano fino a 15 parole per il titolo.
Alla fine credo che il punto sia definire la propria ricetta ed attenersi strettamente ad essa.
@Jonnie
Non lo so.
Non mi occupo di astrologia.
@Enrico
Anche.
19 luglio 2012 alle 5:22 PM
Mamma mia. Per un logorroico anche con le parole scritte come me, non è una sfida, è scalare l’everest…
19 luglio 2012 alle 7:33 PM
E’ bellissimooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!
21 luglio 2012 alle 2:11 AM
Domanda stupida: qual è la differenza fra i drabble giapponesi e i nostri?
21 luglio 2012 alle 10:22 AM
Il giapponese usa gli ideogrammi, quindi ogni parola è un carattere.
Nei 140 caratteri di un tweet ci sta largo un drabble.
(lo stesso vale, ovviamente, per il cinese)