Questo post è ispirato a quello pubblicato ieri dal mio vicino di cella, Alessandro Girola, sul suo blog.
Andate a leggerlo, per cortesia.
Fatto?
Bene, Alex ci ha elencato e circostanziato i motivi per cui lui non pubblica in inglese.
Si tratta di una scelta ragionata e rispettabilissima, fondata su una valutazione onesta dei pro e dei contro.
E io mi dico – perché non elencare e circostanziare i motivi per cui io pubblico in inglese?
Così, tanto per amor di discussione.
Un elenco (parziale, credo) dei motivi per cui pubblico in inglese e credo che in futuro pubblicherò sempre più spesso se non esclusivamente in inglese, credo debbano includere:
- i numeri – il bacino di utenza della lingua inglese è di un paio di ordini di grandezza superiore al bacino di utenza dell’italiano. Scrivere in inglese mi permette – almeno sulla carta – di raggiungere un pubblico molto più vasto.
- un mercato più segmentato – è possibile mirare i propri libri ad un mercato specifico, noto e ben definito. Conoscendo i dettagli del mio segmento di mercato di riferimento, io posso spingere promozionalmente i miei ebook sword & sorcery con gli appassionati di S&S, senza dispersione. Al contempo, posso lavorare su mercati contigui (gli appassionati di orrore lovecraftiano, nel caso di A&A). Se è vero che raramente i miei titoli compaiono nella classifica di Amazon.com, è anche vero che quando succede, non sono sulla stessa pagina col dyno-porn e il paranormal romance.
Già solo questo è già una liberazione.
Ed è solo ed esclusivamente questione di un algoritmo. -
il rispetto – per il pubblico di lingua inglese io sono uno scrittore. Non uno scrittore emergente, non un aspirante scrittore, non un pidocchioso autoprodotto, non un blogger che si diletta di scrittura, non l’amico o il nemico di questo o di quello. Io sono uno scrittore, e vengo valutato sulla base di ciò che scrivo, non della maglietta che porto.
-
il rapporto soddisfazione/impegno…
Quest’ultimo è un punto che credo valga la pena discutere con un minimo di dettaglio.
Io non ho quello che Alex nel suo post segnala come il suo (e non solo suo) principale problema – non ho bisogno di un traduttore.
Questo non perché io sia in qualche modo miracolato – si tratta di quelli che Joan Jett chiamava glorious results of a misspent youth.
ho sempre studiato inglese a scuola. Ho vissuto e lavorato in Gran Bretagna. Il mio percorso universitario mi ha obbligato ad imparare l’inglese. E non solo: leggo in inglese da quasi 35 anni – e negli ultimi quindici ho letto quasi esclusivamente in inglese.
Ho un certificato di profieciency – TOEFL ottenuto una dozzina d’anni fa con un punteggio decisamente lusinghiero.
Ho insegnato inglese agli italiani e italiano agli stranieri passando per la lingua inglese.
Imparare a scrivere in inglese non è stata una decisione presa a tavolino.
Il primo giorno del primo anno del liceo, la mia insegnante mi disse con un sorrisetto di superiorità che io non solo non sapevo l’inglese (arrivavo dalle medie con la media del 7), ma che non l’avrei mai imparato, che non ero evidentemente portato per le lingue, e che potevo anche mettermi l’anima in pace.
Sbagliava1.
Prepararsi a scrivere in inglese ha significato aprire Karavansara, per obbligarmi a scrivere ogni giorno in una lingua diversa dalla mia, per prendere confidenza, velocità, per essere più articolato, per arricchire il vocabolario. E sì, anche per farmi conoscere, per crearmi una piattaforma alternativa a strategie evolutive2.
Poter scrivere direttamente in inglese è un vantaggio che non ha prezzo – o meglio, lo ha… un buon traduttore vuole dai 10 ai 20 euro a pagina per tradurre dall’italiano all’inglese.
Ci sono naturalmente dei lati negativi.
In inglese sono sensibilmente più lento che in italiano – non arrivo a 5000 parole al giorno, mentre in italiano posso anche sforare le 10000.
E dipendo comunque da qualcuno che mi faccia l’editing – perché l’eccesso di sicurezza uccide.
E chi mi fa l’editing deve essere maledettamente in gamba – e io sono fortunato, perché lo è.
L’editing è un costo – che poi sia un costo in termini monetari, o in termini di tempo, di servizi scambiati, non ha importanza.
Posso scrivere e pubblicare un Orrore della Valle Belbo in un weekend – per una storia di Aculeo & Amunet della stessa lunghezza ci vogliono non meno di due settimane.
Quindi, pur non dovendo passare per un traduttore, scrivere in inglese è un impegno maggiore che scrivere in italiano.
Il punto è che questo impegno deve essere controbilanciato – sul piano economico, certo, ma anche sul piano personale.
E se posso onestamente dire che ho guadagnato di più con i miei lavori in inglese di quanto io non abbia guadagnato coi miei lavori in italiano, le soddisfazioni sul piano morale sono, se possibile, ancora superiori, e ancora più importanti.
Poi sì – fare promozione è più difficile…
Ma lo è davvero?
Le prime storie di Aculeo & Amunet vennero recensite, pochi giorni dopo la loro uscita, da una rivista online canadese.
Quelle recensioni vendettero delle copie.
Lo stesso è capitato per The Ministry of Thunder, che è stato variamente recensito – anche da una blogzine tedesca.
E condividendo le mie uscite – dovrei farlo in maniera più estesa e convinta – su gruppi di appassionati di genere su facebook (ad esempio), la notizia viene di solito condivisa e amplificata – e ho delle vendite.
Ai miei rari eventi online il pubblico anglofono partecipa numeroso, e compra (o scarica materiale offerto gratis, o comunque interagisce).
Sul mercato di lingua inglese ho una pur minima ma dignitosa visibilità, e non ho antifan3.
Insomma – le difficoltà, oggettive e quantificabili, sono curiosamente compensate da una maggior apertura del pubblico.
Io sono naturalmente alle primissime armi – ho una manciata di racconti, un romanzo uscito ed uno in uscita, un terzo in lavorazione, un po’ di storie brevi di prossima pubblicazione in antologie diverse.
Sto ancora combattendo per riuscire a pubblicare su una rivista – ma semplicemente perché è un mercato (per il momento) troppo veloce.
Se la porta del mercato anglofono è aperta, io mi sono appena pulito le scarpe sullo zerbino.
E tuttavia ogni ora spesa a lavorare su un progetto in inglese mi riserva, sul piano strettamente umano, dieci volte le soddisfazioni che ricavo dal mercato italiano.
Questo, a parità di incassi.
Se poi ci guadagno anche di più…
E a questo punto la domanda potrebbe essere – perché fare qualcosa che ci rende infelici?
Resta perciò da fare una precisazione doverosa – io non posso che provare gratitudine e riconoscenza per tutti i miei lettori in italiano, che sono l’unico motivo per cui ancora di tanto in tanto pubblico qualcosa nella mia lingua.
Si scrive per il piacere di raccontare storie, magari per pagarsi le bollette (sarebbe bello) ma certamente anche per il feedback positivo – che si esprime non con recensioni e commenti (che peraltro sono graditissimi) ma semplicemente con l’affetto, il rispetto, la simpatia.
Io ho ricevuto in questi anni affetto, rispetto e simpatia da decine e decine di lettori per i miei lavori in italiano, e non vorrei che ciò che ho scritto qui sopra desse loro l’impressione di essere stati dimenticati o di non essere apprezzati.
I miei lettori in italiano sono il solo ed unico motivo per cui continuo a pubblicare qualcosa in italiano.
E quindi grazie di cuore.
- di solito dirmi che non posso fare qualcosa che sono perfettamente consapevole di poter fare, serve solo a farmi impegnare di più per dimostrare che il mio interlocutore sbaglia. ↩
- e proprio questa settimana Karavansara ha finalmente superato il volume di visite giornaliere di strategie evolutive, con il grosso delle visite provenienti da paesi diversi dall’Italia – ci sono voluti tre anni, ma lo considero un segno positivo. ↩
- concetto curioso ma utile – ne parliamo domani. ↩
23 giugno 2015 alle 11:12 AM
Accostarsi a un’altra lingua è sempre stata una disgrazia per un italiano, troppo spesso motivata semplicemente dalla pigrizia.
Come dici bene tu, ci vuole tempo, fatica e impegno costante, e dubito che siano molti gli scrittori disposti a questo.
23 giugno 2015 alle 12:14 PM
Io in effetti non so se mi ci metterei dovendo partire da più o meno zero – sto rispolverando per altri motivi il mio spagnolo, ma da qui a scrivere o tradurre in quella lingua, la strada è lunghissima.
23 giugno 2015 alle 12:38 PM
Partire da zero è impensabile se si vuole ottenere un buon prodotto.
Ma anche partire con una buona preparazione non garantisce il risultato.
Io, per esempio, sono di madrelingua tedesca, conosco l’inglese dall’età di sei anni (ne ho 38) e l’ho insegnato per tre anni in una scuola professionale, ma non sono assolutamente in grado di scrivere in quelle lingue senza applicarmi profondamente.
23 giugno 2015 alle 5:04 PM
Ma d’altra parte l’impegno per scrivere bene è un fattore che non dipende dalla lingua – poi forse sono in tanti a pensare che conoscendo l’italiano scrivere in italiano sia facile… ma poi i risultati si vedono 😀
23 giugno 2015 alle 5:13 PM
Sono assolutamente d’accordo 🙂
Sia pur vero che solo chi oserà
varcare quei confini che, di carta,
stringon da presso, potrà disvelare
quello che domina oltre Atene e Sparta.
Chi, ti chiedo, saprà poi ritornare
al luogo che dà vita all’arte alta?
Colui che si disperde nel cercare
è destinato a non più mai parlare.
Un albero che scorda le radici
potrà per poco viver di gran vaglia
ma presto morirà, secco e spezzato.
Tenete bene a mente, cari amici,
chi guarda spesso indietro non si sbaglia
perché il futuro è incerto come il fato.
23 giugno 2015 alle 11:23 AM
Bellissimo post. Mi dà l’occasione di farti una domanda che mi frulla in testa da un po’.
Mi sembra che la tua narrativa in inglese sia pubblicata sempre in digitale (quella a cui ho accesso io, almeno).
Ci sono anche altri canali per un autore italiano che scriva in inglese?
23 giugno 2015 alle 12:13 PM
Il mio romanzo The Ministry of Thunder è anche disponibile in cartaceo 🙂
E nessuno impedisce ad un autopubblicato di uscire anche col cartaceo – è un maggiore impegno sul piano organizzativo (ebook e cartaceo sono impaginati in maniera diversa, bisogna ridisegnare la copertina ecc.), ma è fattibilissimo.
Si può usare CreateSpace passando per Amazon, o appoggiarsi a un servizio stampa on demand – che però comporta il pagamento anticipato delle copie stampate e il magazzino, per l’autore.
Due dei miei ebook divulgativi, in effetti, sono stati anche fatti in cartaceo per le presentazioni col pubblico – e ne ho ancora un paio di casse qui da qualche parte 🙂
23 giugno 2015 alle 12:36 PM
Chiarissimo!
Non conoscevo CreateSpace, grazie della soffiata 😁
8 ottobre 2018 alle 6:35 PM
Guarda considerami uno dei tuoi lettori italiani di recente acquisizione e continua pure a scrivere in italiano, grazie.
8 ottobre 2018 alle 8:22 PM
🙂
Grazie.
Credo che le uscite in Italiano diminuiranno ma non si spegneranno del tutto.