Avevo detto che avrei fatto un paio di post sul lato tecnico del fare dei podcast, ed eccoci qui. Probabilmente non ve ne importa nulla, ma chissà.
Cominciamo con le basi – dicesi podcast…
an episodic series of digital audio or video files which a user can download and listen to. It is often available for subscription, so that new episodes are automatically downloaded via web syndication to the user’s own local computer, mobile application, or portable media player.
In altre parole, è un file audio (di solito) agganciato a un feed RSS (come quello che usate per seguire un blog). Chi si abbona al feed, riceve i nuovi file mano a mano che escono.
Stando all’indispensabile Podcasting for Dummies, di Tee Morris, ciò che serve per creare un podcast si riassume in
. Un microfono
. Un software di registrazione
. Una scheda sonora
Il problema, però, vedete, è che il libro di Morris è del 2006. I primi podcast videro la luce nel 2004, e all’epoca il libro era decisamente all’avanguardia – ma oggi pare di leggere un incunabolo medievale1.
Oggi come oggi gli articoli su come avviare un podcast aggiungono alla lista di Morris anche un paio di cuffie, una unità di preamplificazione con connessione USB alla scheda audio del PC, e possibilmente un software di produzione sonora come Adobe Audition.
Veniamo a questo punto al mio equipaggiamento.
La filosofia di fondo: era mia intenzione mettere insieme un sistema a basso costo ma con delle buone prestazioni. L’idea era registrare il miglior podcast possibile, e se avesse avuto un qualche successo, avrei poi potuto upgradare il sistema secondo le necessità.
Quindi, pochi strumenti affidabili e poco costosi.
Avevo già un PC relativamente valido (non serve una macchina stratosferica), con una scheda sonora dignitose e un sistema che gira con Linux/Ubuntu2. E un paiodi cuffie (che però di solito non uso).
Bello liscio.
Quanto al resto…
Microfono. Il microfono è uno degli elementi critici del podcast, su questo tutti concordano.
Dopo aver fatto un po’ di ricerca, ho trovato il miglior rapporto qualità/prezzo in un’affare che si chiama SF-920. Si tratta di un microfono condensatore “mass produced” a basso costo.
È certamente uno dei microfoni più brutti sul mercato, ma ha una notevole pulizia di suono, un buon range, e costa meno di quindici euro.
Chiaro, non ci farò mai un live al Budokan, ma per registrare una voce, va più che bene.
Ha inoltre il vantaggio di avere un controllo del volume incorporato – il che è bene, visto che non uso il preamp.
Il preamp infatti (sulla base della documentazione che ho letto) è molto utile se si fanno podcast a più voci, e quindi si agganciano più microfoni. Io lavoro da solo, e quindi il SF-920 è più che OK.
Filtro pop. È quel disco che si vede nei filmati musicali, piazzato fra la bocca del cantante e il microfono, e serve per evitare che si generi un suono (il “pop!” appunto) dovuto all’emissione esplosiva di fiato quando si parla. Il mio è autocostruito con un anello per il ricamo, un paio di calze da donna e una gruccia di fil di ferro. Momenti eroici del podcasting nazionale.
Aggiungo al mio kit di registrazione un artefatto di un’epoca più civile, un registratore digitale SONY ICD-PX333. Si tratta di un registratore/dittafono tascabile molto affidabile, con una comoda uscita USB e che permette persino qualche rudimentale forma di editing dei file direttamente sul registratore. Si tratta probabilmente del pezzo di equipaggiamenbto più costoso che io utilizzi. Ne riparleremo.
Software, ora.
Audacity. Registratore multitraccia digitale, gratuito, gira su Linux, è relativamente facile da usare, permette di registrare da microfono e di ripulire, grazie a tutta una serie di filtri presettati, il file per ottenere la miglior riproduzione possibile.
Ardour. Si tratta di una workstation digitale completa, che permette di registrare, editare e mixare anche cose abbastanza complesse. L’interfaccia è più complicata rispetto ad Audacity, ma le prestazioni sono molto più elevate. Come ho detto non farò mai un live al Budokan, ma se lo facessi, con questo lo potrei mixare e produrre. Ardour è perciò particoalrmente utile per montaggiun po’ complessi.
Skype e Skype Call Recorder. Per eventuali interviste o podcast a due a distanza, è comodo avere non solo uno strumento per parlarsi gratis, ma anche il necessario per registrare la conversazione.
Sempre alla voce software segno anche un paio di librerie di suoni e brani musicali open source/Creative Commons, che possono essere utrilizzati per punteggiare il podcast, o in apertura e chiusura. È importante che siano open source o CC, perchè Mamma SIAE attende in agguato.
Secondo Mamma SIAE, infatti, un podcast, per poter essere classificato come amatoriale, non deve superare la durata di un’ora, e a questo punto, qualora contenga fino al 25% di musica (non più di 15 brani, oltretutto sporcati parlandoci sopra), deve pagare 100 euro l’anno di licenza, più IVA, ovvero 122 euro. Se la musica supera il 25% della durata del podcast la cifra da pagare diventa 450 euro l’anno.
E tutto questo, ammesso che il podcast non faccia più di 1000 download. Se i download sono 1001, costa di più, perché non è più amatoriale – e a questo punto si pagano 130 euro al mese, più il 2-5% degli incassi.
Perciò, musica open source e Creative Commons, e pregare di non avere successo.
Serve poi un servzio di hosting per i file – e qui siamo alla varietà assoluta: si va da Internet Archive, che è gratuito ma ha prestazioni abbastanza bassine (sono server sovraccarichi di lavoro) o MixCloud – che però ha delle regole abbastanza strette sui contenuti e la formattazione, e dei limiti di durata – fino a piattaforme dedicate che costano circa una decina di dollari al mese, a salire.
Quello dell’hosting è forse il principale costo critico dell’intera faccenda – ma come si è detto sopra, Mamma SIAE vigila affinché la purezza della nostra trasmissione non venga macchiata da volgari guadagni: si possono accettare delle donazioni, presumo, ma non far pagare un biglietto d’ingresso, o scattano i 130 euro al mese.
Comunque – hardware, software, hosting, la cosa è fatta.
Possiamo cominciare: servono un titolo, un tema, un programma di uscite e uno script per ciascuna puntata, a meno che non si voglia andare a braccio (sconsigliato).
E poi ci si butta.
Ma qui entra in gioco uno degli elementi più critici dell’intera faccenda: l’acustica del posto in cui si registra. Perché non importa quanto sia valido il microfono, potente il registratore e accessoriata la consolle di mixaggio, se la stanza in cui ci troviamo ha un riverbero fastidioso, siamo fregati.
Per questo motivo si passa alla sperimentazione selvaggia.
Strani luoghi, strani accrocchi.
Una delle più popolari (e pagate) podcaster d’America registra i propri podcast seduta nell’armadio. Altri registrano da sotto ad una coperta o un piumino. Altri ancora si sono costruiti piccole scatole in cui infilare la testa e il microfono.
Io sono relativamente fortunato: registrando in una stanza con le pareti coperte di libri, più che eco o riverbero, ho il problema opposto.
Anche registrare a letto, sotto le coperte, rende bene (peccato per i cigolii del materasso), ma niente, davvero niente batte l’acustica della cabina della Panda – la FIAT ha creato un’auto tutto sommato mediocre, ma una meravigliosa sala di registrazione mobile. Ecco dove serve il SONY tascabile3.
E questo è più o meno quanto.
Certo, c’è tutta la faccenda dello scripting, ci sono i dettagli di registrazione e produzione… ma non so quanto possano interessare.
In generale, la mia peraltro limitatissima esperienza mi ha portato a considerare il podcasting un’attività divertente, ma laboriosa. Ma sono persino riuscito a passar sopra all’odiosissimo suono della mia voce, per cui sì, dai, proviamo…
- proprio nel documentare questo post ho scoperto che il libro è stato aggiornato e ne è uscita una nuova versione pochi mesi fa. Questa è DAVVERO una grande notizia. ↩
- si potrebbe usare Ubuntu Studio, ma davvero sarebbe eccessivo a questo livello. ↩
- il prossimo acquisto in programma è un microfono da bavero per il SONY. ↩
17 novembre 2017 alle 3:47 AM
Ottimo post, in particolare apprezzo la menzione del modello di microfono che nelle mie ricerche di un modello economico ma decente ho sempre trovato recensioni contrastanti, ma avendo ascoltato (e apprezzato) il podcast di Karavansara so che questo microfono riesce a fare il suo dovere!
17 novembre 2017 alle 12:03 PM
Io ho batuto un bel po’ di recensioni prioma di decidermi – e su Youtube ho trovato dei £”test su strada” che permettevano di sentire la qualità del suono.
17 novembre 2017 alle 7:51 AM
Fichissimo questo post, mi piacciono molto i “making of” e soprattutto trovo interessante la questione podcast… La costruzione del filtro pop artigianale è mitica! 😀
Infine, te lo dico da autore che la SIAE “dovrebbe” tutelare, ma che alla suddetta associazione a delinquere non è iscritto: se trovi un escamotage, usalo. che ne so, a 999 download togli il file dalla rete e poi fai un nuovo upload per azzerare il conto… Insomma, inventati qualcosa. La SIAE vive per spillare soldi a ufo, è poco più che un racket legalizzato. Lotta dura senza paura, ché non tutelano una mazza e si fanno pagare come se fossero la tua unica salvezza in un mare di pescecani… Quando in realtà sono lo squalo tigre.
17 novembre 2017 alle 12:04 PM
Io trovo il motto della SIAE particolarmente ironico.
17 novembre 2017 alle 12:08 PM
Ti dirò, secondo me anche loro. 🤣
17 novembre 2017 alle 9:32 AM
Ma una foto col filtro pop montato? 🙂 sono curiosa
17 novembre 2017 alle 12:04 PM
Ci si prova.
17 novembre 2017 alle 10:57 AM
Tutto molto interessante, anche se le pretese della SIAE mi hanno scioccato!
Un mondo senza SIAE sarebbe più bello, per quella cosa chiamata libertà di espressione.
17 novembre 2017 alle 12:05 PM
Infatti in tutto il resto dell’universo Mamma SIAE non esiste. È una cosa per noi, solo per noi.
17 novembre 2017 alle 1:01 PM
la siae mi ha fatto la multa perché ad una festa privata del MIO compleanno ho suonato con il MIO gruppo dei pezzi di NOSTRA produzione ma che malauguratamente contenevano una citazione di un brano famoso… devo aggiungere altro?
Ma se ospiti il podcast in un server straniero (come probabilmente sarà) devi sottostare comunque alle sue regole?
17 novembre 2017 alle 1:53 PM
Certo – perché il podcast sarebe comunque prodotto in Italia da un cittadino italiano. Per sfuggire a Mamma SIAE devi andare fisicamente oltre confine.
Forse.
17 novembre 2017 alle 1:51 PM
Non sono un podcaster, e mai lo sarò, ma trovo interessante il post. Ho un passato inglorioso da “home studio” ma non darò consigli che potrebbero risultare fuori contesto, visto che i tuoi obiettivi sono molto precisi.
Il microfono a condensatore è alimentato a batterie? Perchè da quel che vedo ha alimentazione e pre-amp tutto integrato (e qui il mio passato di home-recorder si rigira nella tomba 😉
Comunque le batterie e la soluzione integrato saranno comode se volessi registrare nella Panda.
Ho visto che molti podcaster, e radio, usano in realtà microfoni dinamici (come il parecchio costoso Shure SM7B) che producono comunque un buon suono ma sono meno sensibili dei condensatori ai disturbi esterni.
Per l’ambiente, non mi preoccuperei troppo, una stanza piena di libri è già buona.
In ogni caso, non posso altro che assecondare quello che scrivi (fra le righe) sulla SIAE, che che è stato scritto in altri commenti. Nessun creativo che conosco ha mai speso una parola buona su di loro, e penso che non mi capiterà mai di sentirla.
Ma capisco giusto che in Italia è impossibile produrre un podcast senza pagare almeno 130 euro all’anno? Oppure un podcast privo di musica sarebbe esente?
17 novembre 2017 alle 1:56 PM
Il podcast privo di musica è esente, così come il podcast che usi solo musica open.
Ma non deve fare più di 1000 download a episodio.
Discorso microfono: no, è alimentato via cavo.
E sì, un mic dinamico sarebbe preferibile, ma il prezzo è proibitivo, al momento.
Se ipodcast diventassero una cosa che funziona, potrei pensare a un upgrade dello “studio”, magari chiedendo donazioni ai miei 999 ascoltatori (e non uno di più).
Ma per il momento funziona bene così.
17 novembre 2017 alle 10:34 PM
Scusa ma non capisco: io registro la mia voce, magari ci metto su un po’ di musica in pubblico dominio o copyleft, distribuisco il MIO file a titolo gratuito e devo pagare la SIAE? Ma a che pro se in questo caso non deve tutelare il diritto d’autore di nessuno? Non il mio, dato che distribuisco la mia opera gratuitamente, ma nemmeno quello di terzi visto che le musiche sono liberamente utilizzabili. Davvero, non capisco.
Inoltre, avevo letto qualche anno fa che l’Unione Europea aveva condannato l’Italia proprio per il monopolio assegnato in via esclusiva alla SIAE sulla gestione dei diritti d’autore, che è palesemente contro la libera concorrenza. È andato a finire tutto a tarallucci e vino?
17 novembre 2017 alle 11:12 PM
Ah, io credo che il principio sia che non devi capire, devi pagare.
L’idea è che devi pagare per ottenere una “licenza da poidcaster” qualora il tuo podcast sia professionale e non amatoriale. Come stabiliamo se è professionale: da quante copie vengono scaricate.
Che è un principio sciocco, ovviamente.
A questo pnto, visto che ne fai un lavoro (perché hai più di mille utenti), devi pagare la licenza e una percentuale sugli incassi, perché se ne fai un lavoro naturalmente ti fai pagare.
D’altra parte, siamo nel paese in cui per mettere dischi a una festa, oltre apagare la SIAE, devi anche avere la licenza da DJ.
La UE continua a martellarci, ma nessuno apparentemente ha voglia di abolirla, la SIAE…
17 novembre 2017 alle 11:13 PM
In realtà (mi spiega ora mio fratello che faceva il DJ) la paghi perché difende il tuo diritto d’autore, che ti piaccia o meno.
18 novembre 2017 alle 8:36 AM
Anche se non mi interessa essere tutelato? Pazzia pura! Che poi il diritto d’autore è già tutelato dalla legge dal preciso momento in cui crei qualcosa. Vabbé… ma in pratica, se uno molto italiamente (che poi è in molti casi solo una forma di autodifesa) se ne sbattesse allegramente della SIAE? Che possibilità reali ci sono che, prese le migliori contromisure che la tecnologia ci consente (server straniero, pseudonimi, ecc.), ti possano beccare? In fondo è solo un altro carrozzone pubblico, probabilmente pieno di imboscati, raccomandati e gente con voglia di lavorare prossima allo zero. Insomma uno stipendificio pubblico.
Così solo per accademia, non ho nessuna intenzione di fare podcast o roba simile.
18 novembre 2017 alle 1:32 PM
Ai tempi, fra disc jockey, era pratica comune denunciare alla siae la concorrenza.
Ovviamente questo nel mondo del blogging e del podcasting, dove siamo tutti amici fraterni, non succederebbe mai, vero?
18 novembre 2017 alle 2:37 PM
Ah ah ah ah… È vero! La tecnologia niente può contro le faide da trogloditi 🙂