Parlavo di Mary Sue, l’altra sera, al corso di worldbuilding.
Per chi se lo fosse perso, Mary Sue è un termine tipico del lessico della letteratura di genere.
Dice Wikipedia…
Mary Sue, a volte abbreviato in Sue, è un termine peggiorativo adoperato per descrivere un personaggio immaginario, in genere femminile (per i personaggi maschili solitamente si adopera Gary Stu o Marty Stu), che si attiene alla maggior parte dei cliché letterari più comuni, ritratto con un’idealizzazione eccessiva, privo di difetti considerevoli e soprattutto che ha la funzione di realizzare e autocompiacere i desideri dell’autore.
La prima volta che andai a sbattere su questa definizione fu a metà degli anni ottanta.
Per colpa di Jo Clayton. Io ho sempre voluto bene a Jo Clayton.
Jo Clayton esordì nel 1977, all’età di 38 anni, con un romanzo intitolato Diadem from the Stars, pubblicato da DAW.
Sei o sette anni dopo io trovai una copia di quel libro sugli scaffali della Libreria Sevagram, a Torino. Ero alla fine del liceo, e leggevo un sacco – avevo cominciato a leggere in inglese da qualche anno, e avevo una sorta di fetish per i libricini della DAW con la costola gialla e il francobollo in copertina.
Diadem from the Stars aveva la costola gialla e il francobollo, ed una copertina di Michael Whelan con una bella donna dall’aria misteriosa in compagnia di un gattone dall’aria minacciosa. Era, negli anni ‘70, una combinazione abbastanza normale per DAW, ma non sarei certo stato io a lamentarmi.
Era il primo volume di una serie di sei o sette (sarebbero diventati nove nel 1986) ma la cosa non mi spaventava.
La storia: cresciuta sul pianeta Jaydugar, Aleytys è la figlia di una “strega” venuta da un altro mondo. La sua vita è abbastanza orribile, ma un giorno una sfera di fuoco cade dal cielo, e all’interno c’è una specie di corona.
Nel prologo abbiamo scoperto che il diadema è un artefatto alieno, rubato su commissione.
Il diadema è una sorta di impianto neurale. Amplifica i poteri mentali di chi lo indossa, e se serve prende il controllo del corpo dell’ospite per perseguire i propri fini. Non è possibile toglierselo una volta indossato.
E c’è un sacco di gente (inclusa gente con un sacco di zampe e un esoscheletro), desiderosa di mettere le mani sul diadema, che ora siede sulla testa di Aleytys.
Che fugge.
Per fortuna.
Perché nel momento in cui non le rimane spazio per fuggire, allora deve combattere.
E ora può.
Diadem venne paragonato all’epoca ai lavori di Tanith Lee, e il paragone non è esattamente corretto, ma ci sta. Come la Lee, la Clayton è abilissima nel caratterizzare i propri protagonisti, e ha alle spalle un worldbuilding colossale. Scrive in maniera leggera ma non qualunque, la sua prosa è facile da leggere ma al contempo ricca. A differenza della Lee, la Clayton scrive un ciclo di pura space opera venata di fantasy, nel quale la magia è solo una scienza molto avanzata. In questo, non sbaglia chi ha descritto la serie di Diadem come un incrocio fra Andre Norton e i romanzi della serie Dumarest. Ma anche il più lusighiero paragone con Vance non è affatto fuori posto.
“Naturalmente” (le virgolette sono d’obbligo) Aleytys è una Mary Sue, mi fece notare un amico all’epoca – una donna maltrattata e oppressa, abusata sessualmente (sì, c’è anche quello), che improvvisamente diventa ipercompetente e kick-ass. Scritta da una donna. Andiamo, è un evidente caso di proiezione e wish fulfillment.
Se una donna scrive un personaggio femminile ipercompetente, è ovviamente una Mary Sue, e per di più femminista.
L’amico che mi fece quelle osservazioni – si era al primo anno di università – si tenne la mia copia di Diadem from the Stars. Si tenne anche altri volumi.
E sbagliava.
Non solo perché stava esprimendo opinioni impresentabili, ma perché aveva letto il libro con un filtro che gli aveva impedito di scendere oltre la superficie, di andare oltre la tipa misterosa con la pantera in copertina.
È vero, Aleytys improvvisamente diventa una macchina da guerra. Si ritrova in fuga, braccata da tutti coloro che vogliono mettere le mani sulla tecnologia del diadema. Si ritrova in fuga con un bambino piccolo a rimorchio – che non era proprio un’idea standard, nel 1977.
I cliché vengono serviti su un piatto d’argento dalla Clayton solo per essere sovvertiti. Sembra quasi – quasi – che l’autrice si sia messa alla macchina per scrivere con l’idea molto ben definita di prendere il concetto di Mary Sue e annientarlo, pur giocando secondo le sue regole.
Jo Clayton morì nel febbraio del 1998, per le conseguenze di un mieloma, un cancro alle ossa che le era stato diagnosticato due anni prima. Continuò a scrivere fino alla fine, e produsse dei libri che oggi paiono dimenticatoi da tutti, ma che vale la pena di recuperare.
L’altra sera, dopo aver parlato di Mary Sue al corso di worldbuilding, ho provato una fitta di nostalgia per i romanzi di Jo Clayton, e ho fatto un giro su Amazon.
La Open Road Media li ha ristampati, in formato digitale e con copertine orribilmente qualsiasi – e due giorni fa ha portato il prezzo di copertina da 5.95 a 9.59 euro – il che vuol dire che per acquistare l’intera serie di nove romanzi in digitale bisogna scucire 100 euro. È una follia.
Per lo stesso prezzo, è anche disponibile la trilogia di Skeen, il lavoro di Jo Clayton che mi fece definitivamente appassionare al lavoro dell’autrice californiana. Ancora una donna ipercompetente e straordinariamente viva sulla pagina.
Ancora un “ovvio” caso di Mary Sue.
Certo, come no.
Ma di quello parleremo casomai un’altra volta.
21 marzo 2018 alle 9:15 PM
Diciamolo: non è la competenza a rendere fiacco un personaggio in una storia eroica, e nemmeno l’essere speciali. Il problema è quando un personaggio è “troppo” di tutto… ma anche quando è “niente” e la sfanga sempre per botte di fortuna e coincidenze. O per tanti altri motivi.
Forse, al tuo amico non piacevano le storie con protagonisti dei personaggi femminili; personalmente, adoro qualsiasi personaggio, se è ben scritto, interessante e magari simpatico! 😛
22 marzo 2018 alle 1:27 PM
Diciamo che l’accusa di femminismo era un segnale abbastanza chiaro di quale fosse il problema 😛
22 marzo 2018 alle 8:06 AM
Mi interessa molto questo discorso sul giudicare in una certa maniera certi personaggi femminili scritti da donne, spero che ci tornerai presto su. Dato che il tuo amico aveva dato un giudizio superficiale su questa Mary Su, potresti fare un esempio complementare maschile? Ovvero: un Marty Stu solo all’apparenza, ma che viene visto per quello che è (qualcosa di più).
22 marzo 2018 alle 1:29 PM
Ci penserò su … al momento mi viene in mente un po’ poco… salvo forse Nathan Brazil.
Ne parleremo.
22 marzo 2018 alle 9:28 AM
Senza aver letto il libro, che mi ha incuriosito, dico solo che (per come hai presentato le cose) se quel personaggio è una Mary Sue, lo è anche Gully Foyle di “Destinazione Stelle”… giusto per trovare un altro paragone lusinghiero! 🙂
22 marzo 2018 alle 1:30 PM
Sì, alla fine chiunque può essere bollato come Mary Sue se lo giri nel verso giusto. O sbagliato.