Sto leggendo due libri, in questi giorni, uno durante la pausa del pranzo ed uno durante la cena. Mio fratello sta seguendo una studentessa cinese alla quale sta facendo tutoring per la programmazione in Android (meraviglie del telelavoro), e quindi viviamo con fusi orari diversi. Se devo mangiare da solo, posso per lo meno godere della compagnia di un buon libro.

A pranzo sto leggendo Monkeys with Typewriters, gli appunti del corso sul romanzo tenuto da Scarlett Thomas all’Università del Kent. Mi piacciono i libri della Thomas, ed il suo “manuale di scrittura” si sta rivelando estremamente interessante. Le radici universitarie si vedono, non è la solita zuppa a base di show don’t tell e POV – ci sono tutti gli argomenti fondamentali, ma trattati in maniera diversa dal solito.
Ottimo.
Curiosamente ho ripensato alla Thomas qualche giorno addietro (prima, in effetti, di acquistare con un buono il suo manuale), quando mi sono trovato a discutere con alcuni contatti oltremanica della recente reazione che si sta sviluppando contro i cosiddetti manuali di self-help. Quelle cose del tipo Come Farsi degli Amici e Influenzare la Gente, ma anche i corsi di lingue su CD, le diete e i manuali per riordinare la casa e la guida alla lettura dei tarocchi. Ricade tutto, merceologicamente parlando, nel calderone del self-help.

Ne Il Nostro Tragico Universo, di Scarlett Thomas, la protagonista, una scrittrice spiantata, si inventa un lavoro: leggere un manuale di self-help la settimana, provare a metterne in pratica i consigli, e poi scriverci un articolo tagliente e post-ironico da vendere al suo editore.
I risultati sono piuttosto divertenti, per un romanzo che non è quello che sembra – ed è stato scritto volutamente per mettere alla prova la validità dei principi che la Thomas illustra nel suo manuale di scrittura (che è, mi rendo conto, a modo suo un manuale di self-help).
È davvero così terribile, per tornare a bomba, questa faccenda del self-help? L’argomento è estremamente complicato, e il mio timore è che si finisca a fare una zuppa velenosa.
È certamente vero che il modello dei manuali di self-improvement “all’americana” può essere molto deleterio – l’idea che basti la forza di volontà per superare qualsiasi scoglio, dall’essere stati piantati dalla fidanzata al rimettersi in forma, dal correre la maratona allo sconfiggere la sclerosi multipla, è una sonora idiozia. La volontà è importante ma ci sono fattori sui quali non abbiamo il controllo, e che di solito questi manuali non prendono in considerazione.
L’idea d’altra parte che cercare di migliorarsi sia sbagliato oltre che una fonte di stress è altrettanto stupido – ma è certamente molto attraente, come ipotesi, per una generazione che da decenni si sente ripetere che la mediocrità è un diritto e che saperne di più – non importa su quale argomento – è il marchio degli arroganti.

Il che mi porta al libro che sto leggendo la sera a tavola, e che si intitola The 4-hours Chef, e l’ha scritto Tim Ferriss (ADDENDUM: mi segnalano che esiste anche in italiano). Per chi se lo fosse perso, Ferriss è uno dei guru del self-improvement. Il suo The 4-hours Workweek è un bestseller, è uscito anche in italiano, ed è in effetti pieno di ottime idee la gran parte delle quali qui da noi non funzionano (perché, ricordiamocelo, “in Italia è diverso”) e di un certo classico atteggiamento yankee, una underdog story. Il libro di cucina è interessante, perché Ferriss si propone di usare la cucina come esempio per proporre un modello di apprendimento applicabile a qualunque campo. Ed è questo, che mi interessa, più che il sistema per usare un ferro da stiro per cucinare. Ferriss tratta il cucinare come un’arte marziale, e cerca di estendere i principi dell’arte marziale a qualunque forma di istruzione o auto-istruzione.
Come dicevo, interessante.
Sarà per me una fonte di stress e di infelicità, la lettura di questo curioso manuale di cucina? Sta alimentando la convinzione, falsa e infondata, che le persone possano migliorare? Mette in pericolo la mia identità, condannandomi a un futuro di incertezza, negandomi la possibilità di mettere radici?
Perché questi sono i rischi stando a coloro che scrivono libri controi libri di self-help (ma in che categoria finirà, un libro di anti-self-help?)
Io ho sempre creduto che dai libri si possa imparare qualsiasi cosa. Mi riservo di credere che non sia una buona idea cercare di imparare a curarsi da sé da una malattia terminale, credo che i corsi di ipnosi per rimorchiare siano una truffa, e ritengo dannosa, come dicevo, l’enfasi sulla volontà che ci permette di superare ogni ostacolo.
Ma imparare il francese?
O a cucinare uno spezzatino decente?
Imparare a fare fotografie o a disegnare o a ballare il tango?
E perché non la storia dell’arte bizantina o programmare in Ruby?
Credo che qualunque interesse, sviluppato anche a partire da un manuale di seconda mano acquistato sulle bancarelle, sia preferibile all’essere delle capre convinte che l’ignoranza sia un segno di indipendenza intellettuale, convinte che il poco, pochissimo che conosciamo sia tutto ciò che vale la pena di conoscere.
24 marzo 2019 alle 12:15 PM
Questione interessante, ignoravo che in USA fosse in atto una reazione allergica, forse per dosaggio eccessivo. Dove posso trovare info a tal proposito?
24 marzo 2019 alle 1:25 PM
L’autore di riferimento è uno psicologo che si chiama Svend Brinkmann. È uscito un suo volume anche qui da noi, da Cortina.
Se fai una ricerca su Youtube trovi delle sue presentazioni in cui spiega le sue posizioni, che non è che mi abbiano convinto tantissimo, proprio perché mescola livelli diversi.
24 marzo 2019 alle 1:25 PM
E concordo, probabilmente la causa a monte della reazione è proprio che si è esagerato nella direzione opposta.
25 marzo 2019 alle 11:55 AM
Ammetto con una certa qual dose di vergogna di aver letto uno sconsiderato numero di manuali di self help negli ultimi anni. Alcuni erano interessanti, altri meno. Finora esiste un’unico autore che si è rivelato in grado di suggerirmi un modello veramente utile e te lo segnalo in quanto, per qualche ragione, sono assolutamente convinta che sarebbe significativo anche per te: si chiama Barbara Sher, e consiglierei entrambi i libri che ho letto (Refuse to choose e I could do Anything).
Tim Ferris mi ha sempre fatto repulsione, per via dell’atteggiamento iniziale: sembrano libri costruiti a tavolino per dire alla gente quello che laggente vuole sentirsi dire. Ma ora mi stai facendo venire curiosità anche per lui.
25 marzo 2019 alle 1:58 PM
C’è certamente una componente studiata neilavoridi Ferriss, e più che altro mi lascia sempre un po’ con l’impressione di quello che ha appena scoperto l’acqua calda e lo deve annunciare al mondo.
Ma uno dei lati positivi è che non siamo obbligati a sposare le tesi degli autori che leggiamo, e tantomeno il loro attreggiamento generale.
25 marzo 2019 alle 6:06 PM
Riaprendo il libro di Ferris, che lessi anni fa, vi trovo delle annotazioni a matita, che vergai durante la lettura. Mi domandavo come sbarcare il lunario, in quel periodo, in modo più piacevole. Scrissi: fare il ghost-writer. Sono americanate, ma non sempre inefficaci.
25 marzo 2019 alle 7:23 PM
Ora sappiamo chi è il responsabile 🙂