strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Un magnete per l’avidità

To Space-Age man, every mystery is a greed-magnet.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Pare che dall’inizio dell’anno prossimo saranno disponibili commercialmente i primi software “efficienti” per la scrittura di narrativa.
Non nel senso di cose come Scrivener, che se si adatta al vostro approccio alla scrittura, vi permette di organizzare il vostro manoscritto. No, dei programmi che, usando il machine learning, potrenno campionare in tempi rapidissimi un intero corpus di testi e poi produrre, a partire da alcuni “semi”, un racconto o un romanzo.

AI per la narrativa – l’equivalente di ciò che Midjourney è per la grafica.
Li avete visti, in giro, ne sono certo, tutti quei post sui social con delle immagini un po’ legnose di gente con troppe dita, e sotto scritto, “Conan il Barbaro diretto da Wes Anderson”.

Che valanga di risate, eh?
Certo, dopo la sedicesima volta diventa un po’ noioso, ma il futuro è così brillante che devo mettermi gli occhiali da sole.

Quando, nelle settimane passate, un editore di prima fascia come la Tor ha messo una immagine AI-generated su una copertina, c’è stata una levata di scudi generale nel mondo della grafica e nel campo degli autori.
I problemi sono due.
Il primo, il più ovvio, è che ovviamente usando una AI per generare una copertina, non si paga un artista. E le persone che si guadagnano da vivere disegnando, sono comprensibilmente preoccupate, nel vedere una contrazione possibile del loro mercato.
Il secondo problema è dato da come una AI tipo Midjourney opera – sulla base delle parole chiave esegue una ricerca in rete per immagini taggate in quella maniera, le campiona, e le utilizza per sintetizzare un certo numero di nuove immagini. Questo significa che i lavori di chiunque abbia una galleria online del proprio lavoro come illustratore sono preda libera, in barba al copyright. Ancora una volta, chi si guadagna da vivere con la propria arte viene penalizzato.

È per questo che a me quasto eterno carosello di “Titanic diretto da F.W. Murnau”, “Flash Gordon diretto da Zack Snyder” e compagnia danzante dà abbastanza fastidio.
Non solo perché, onestamente, chissenefrega di come sarebbe King Kong diretto da Kubrik o Casablanca diretto da John Waters. Ma soprattutto perché è l’altra faccia del machine learning.
Se da una parte è necessario educare le macchine a campionare e sintetizzare sempre meglio le fonti – ed è ciò che coloro che creano e condividono quelle immagini stanno facendo – dall’altra è anche necessario educare il pubblico ad accettare l’AI art come la più gran figata dai tempi delle caverne di Altamira.

Ora, programmi che generano testi a partire da un seme di concetti, nomi e situazioni, esistono già – due anni or sono ho partecipato alla presentazione online di uno di questi software, sviluppato per produrre pornografia.
Perché pornografia?
Perché nel settore dell’autopubblicazione, è la categoria che paga di più, ed è un genere di narrativa che utilizza delle formule elementari, ripetitive e molto rigide (no, non è un doppiosenso), per un pubblico facilmente fidelizzabile e decisamente di bocca buona (ancora una volta, non un doppiosenso).
E quindi ecco un software nel quale io posso settare una manciata di parametri, e ricavarne un file con un testo del numero di pagine richieste, che necessita solo un’editata.
Poi ci metto il mio nome, e lo vendo.
Bello liscio.

Ciò che mi colpì in particolare di quella presentazione, fu il tono con cui la persona che aveva prfogrammato questo software descriveva la propria creazione.
Il concetto reiterato di continuo in quelle due ore era

Pensate a quanti soldi potrete fare, senza bisogno di saper scrivere.

Perché l’idea non era solo quella di presentare il software, naturalmente, ma anche di venderlo.
Un fisso per il programma principale, e un abbonamento annuale per gli upgrade.

Non c’era nulla, in quella presentazione, che facesse riferimento alla possibilità, francamente straordinaria, di avere una macchina che crea storie.
L’unico segno di passione mostrato dalla persona che aveva creato quella macchina era la passione per i soldi.
L’unica considerazione per i lettori era in funzione di quanti quattrini avrebbero pagato.

La frase con cui si apre questo post è presa da Le Argentee Teste d’Uovo, di Fritz Leiber – un romanzo satirico su un futuro in cui la narrativa viene creata dai “mulini”, a partire da input inseriti dagli “autori”, il cui lavoro principale è apparire bene in fotografia e fare cose per comparire negli articoli dei giornali.

Nel 1962, Fritz Leiber vide che l’avidità avrebbe prevalso.
Perché ai vecchi tempi, nella fantascienza, l’idea era che le macchine in futuro si sarebbero sobbarcate tutti i lavori noiosi, lasciando gli esseri umani liberi di dedicarsi all’arte, alla filosofia.

A just machine to make big decisions
Programmed by fellows with compassion and vision
We’ll be clean when their work is done
We’ll be eternally free, yes, and eternally young, ooh

Donald Fagen, I.G.Y., 1982

E invece no.
Che si fotta la filosofia, hanno detto alcuni.
Possiamo vendere l’arte fatta dalle macchine, e non dobbiamo pagarle.
È tutto profitto.
I lavori noiosi possono farli quei disgraziati là fuori, pagati il meno possibile.
E che ringrazino di avere un lavoro.
Se lavoreranno abbastanza duro potranno avere qualche spicciolo per comperare l’arte fatta a costo zero dalle macchine, che noi venderemo loro.
Si fottano la compassione e la visione – noi vogliamo i quattrini!

Leiber lo aveva previsto.

È accaduto, molti anni or sono, con i software di traduzione.
Oh, ve lo garantisco – provare a tradurre un romanzo con Google Translate darà dei risultati fra il grottesco ed il ridicolo, ma la sola comparsa sul mercato del vecchio, orribile Italian Assistant, negli anni ’90, fece crollare le tariffe dei traduttori.
Ora sta succedendo ai grafici.
Presto toccherà agli scrittori.

C’è stata una levata di scudi, si diceva, riguardo all’uso di AI art per le copertine della Tor.
Autori di successo come John Scalzi e Kaitlin R. Kiernan hanno dato disposizioni che i loro lavori non vengano mai pubblicati con illustrazioni generate da macchine.
Hanno il potere contrattuale per farlo.
Ma presto si potrà aggirare il problema pubblicando romanzi composti da macchine a partire da un campione di testi preesistenti. E le macchine non protesteranno per le copertine.

Le AI di scrittura seguirenno le regole del manuale alla lettera, per la gioia dei guru – che non potranno più tenere corsi di scrittura, certo, ma probabilmente si metteranno a vendere software, o corsi di programmazione e machine learning, perché gli eredi di P.T. Barnum cascano sempre in piedi.

E i sostenitori dell’idea che il successo di un testo dipenda dall’editor, e non dall’autore, saranno finalmente vendicati – perché l’unico lavoro disponibile per gli esseri umani, per un po’ almeno, sarà quello di ripulire e infondere un minimo di vita in testi fatti a macchina.
Ma se le regole sono chiare, anche l’editing può essere svolto da un software, per il solo costo dell’energia elettrica necessaria ad alimentare i processori.

È luddismo, il mio?
No.
Le intelligenze artificiali possono fare grandi cose – nella diagnosatica, sia in ambito medico che in ambito ingegneristico. Nella ricerca. Nella risposta alle crisi ambientali che diverranno sempre più frequenti nel nostro futuro prossimo.
Le AI possono fare moltissimo per migliorare la condizione umana.
Ma qui non è di migliorare la condizione umana, che stiamo parlando.
Qui parliamo del solito vecchio problema di cui parlava la buonanima di Harlan Ellison in quel vecchio video che io riposto spesso – pagare l’artista, pagare lo scrittore.

E, per contro, l’idea di massimizzare i profitti pagando il meno possibile il lavoro altrui.

Le macchine non eguaglieranno mai l’immaginazione e la creatività umana, si potrebbe obiettare.
Vero.
O per lo meno probabile, per qualche anno ancora.
Ma siamo interessati, davvero interessati, all’immaginazione, alla creatività ed all’originalità dell’essere umano?
Voglio dire, avete visto queste immagini fighissime di come sarebbe Yojimbo se l’avesse diretto Sergio Leone, o I Sette Samurai se l’avesse diretto John Sturgess?
Pensate che storia, avere la possibilità di leggere un nuovo romanzo proprio come quelli di Stephen King, uno nuovo, ogni anno, per l’eternità, anche dopo che il vecchio imbecille sarà morto e sepolto.
Meglio degli originali.

E quei palloni gonfiati che per anni si sono dati delle arie ed hanno fatto soldi standosene seduti a scrivere e a disegnare dovranno ffinalmente trovarsi un lavoro vero.
Così imparano.

Humans aren’t as you idealized them, Blanda. Humans are dream-killers. They took the bubbles out of soapsuds, Blanda, and called it detergent. They took the moonlight out of romance and called it sex.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Dal punto di vista di una persona che invidia profondamente chi è capace a disegnare, che ama leggere, e che si guadagna da vivere scrivendo storie e facendo traduzioni, il panorama è desolante.
Il consiglio che si sente ripetere nei forum delle associazioni professionali di scrittori è di fare cassa e prepararsi a un lungo inverno.

Lo so, è una visione molto pessimistica di ciò che ci aspetta.
Ma a volte è necessario guardare alle meraviglie del progresso con una sana dose di diffidenza, e sperare che queste visioni oscure di avidità rampante e creatività umiliata siano delle self-preventing prophecies.


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Perché non me ne sono andato da Twitter (come se a qualcuno importasse qualcosa)

Stephen Jay Gould e Richard Dawkins – che erano spesso ai ferri corti in ambito scientifico, ma si rispettavano a livello umano e intellettuale – crearono, una trentina di anni or sono, un protocollo per gestire i dibattiti pubblici con i creazionisti.
Il protocollo Dawkins-Gould dice più o meno

Rifiutate il confronto, perché servirebbe solo a dare dignità alle opinioni di persone le cui opinioni non hanno dignità.

Nel corso degli anni ho usato spesso un approccio di questo genere.
Io, potendo, me ne vado.
Inutile stare a discutere con persone che mi disprezzano, e che non hanno comunque interesse a instaurare una discussione costruttiva.

È stata una lunga e continua ritirata.
E mentre da una parte potevo osservare che i creazionisti continuavano ad avere una piattaforma, e ad andare a braccetto con tutta una serie di altri fenomeni da baraccone come terrapiattisti e complottari assortiti, tutti a reclamare la dignità delle loro opinioni in barba a tutti quelli che li hanno ignorati, dall’altra ho visto le comunità dalle quali mi ero allontanato per cercare di conservare la mia (ipotetica) integrità deragliare lentamente ma decisamente.
Non starò qui a fare un elenco.

Il che ci porta a Twitter.
Che, come forse avrete sentito, è stato acquistato da Elon Musk, che ha proceduto, in capo a pochi giorni, a licenziare 7500 dipendenti, a ripristinare l’account sospeso del 45° presidente degli USA, e a fare la figura del pezzente mettendosi a mercanteggiare con Stephen King per farsi pagare la certificazione dei profili degli utenti.
E tanto altro.
È di oggi la notizia che forse riuscirà a farsi fare causa anche da Milo Manara.

Le azioni di Musk hanno innescato una diaspora degli utenti di Twitter verso altre piattaforme – Hive, Mastodon, Counter Social… altri hanno ripristinato i loro vecchi account di Tumblr, o apero forum su Goodreads. Altri ancora si stanno preparando a chiudere tutto e tornare a postare sui loro vecchi blog.
Le diverse piattaforme hanno visto un picco di abbonamenti nell’ordine dei 100.000 nuovi utenti al giorno, nello scorso weekend.

Ed ha un senso – col rischio che il servizio venga sospeso, o deragliato, è ragionevole crearsi una via d’uscita.
Un piano B.
Una scialuppa di salvataggio.

Però…

Mi è capitato negli anni passati di vedere Twitter descritto come “una fogna”.
Il luogo dove i Social Justice Warriors spingono la loro agenda woke.
Il posto dove la lobby gay sta distruggendo Dungeons & Dragons.

Ora, in tanti anni su Twitter – a parte l’accusa di fare gatekeeping “come tutti voi stronzi europei” quando ho fatto presente che quella che fanno a Chicago non è pizza… beh, a parte quello, non ho mai avuto problemi.


Mi sono tenuto in contatto con amici e conoscenti, con editori ed editor e agenti.
Ho conosciuto persone, ho fatto chiacchiere interessanti.

Non un salotto, forse, ma certo non una fogna.
Ma come diceva Ike Asimov, chi pensa di trovarsi in una giungla, sentirà i suoni della giungla anche in Central Park.

Ma il fatto è che Twitter è anche stato, finora, uno strumento potente per dare voce a un sacco di persone.
Il genere di persone che quelli che usano termini come “Social Justice Warrior” o “woke” o “lobby gay” o “nazifemministe” vorrebbero molto volentieri veder sparire.

Non sto dicendo che le azioni di Elon Musk siano studiatamente mirate a generare la diaspora alla quale stiamo assistendo.
Ma è certo che ci sono elementi, che da sempre cercano di monopolizzare ogni possibile spazio sociale per zittire ogni altra voce, che vedono nell’attuale situazione una opportunità.
Non importa quindi, se sia un bug o ujna feature – di sicuro l’attuale dioaspora sta lasciando il campo apersone chenon hanno mai esitato ad usare qualunque strumento per metytere atacere le opinioni altrui, al contempo invocando la libertà di espressione.

Ed è per questo, che non me ne sono ancora andato da Twitter.
Perché è vero, forse un modo per segnalare la propria indignazione è quello di voltare le spalle e andarsene.
L’ho fatto spesso, come dicevo, ed ora posso contemplare le macerie di tante cose che un tempo mi piacevano.
Non ha funzionato al meglio.
Per cui no, in questo caso voglio provare a vedere cosa succede se si smette di ritirarsi e cedere il terreno a quelli che ci disprezzano, e che della nostra (ipotetica) integrità non sanno cosa farsene, se non riderne coi loro amici, e trovare un modo per approfittarne.

Se proprio ci si dovrà arrendere, a questo giro lo faremo dopo aver provato a resistere.
Cosa potrebbe mai andare storto?


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Cose che succedono

Stanno succedendo delle cose.
Il programma Artemis ha compiuto il primo passo per riportarci sulla Luna.
L’uomo che voleva fondare una colonia su Marte e portarci la gente a credito, poi facendosi ripagare in lavoro da loro e dai loro discendenti mentre intanto gli vendeva l’ossigeno, si sta dimostrando incapace di gestire una piattaforma social.
Io ho firmato il contratto per un nuovo romanzo – da consegnare all’editore ai primi di Marzo.
E ieri, per diversi motivi, ho vissuto l’avventura di prendere la corriera da Castelnuovo Belbo a Nizza Monferrato – un’esperienza che è garantita per sorprendere e terrificare ad ogni occasione.

In questo caso, la sorpresa è stata che la corriera non ferma più alla stazione di Nizza, ma in po’ più in là – circa un chilometro e mezzo più in là – che vuol dire dieci minuti, visti il trafico e i semafori.
Due signore trafelate protestano con il conducente – rischiano di perdere la coincidenza col treno che le porterà ad Asti.
“Non fermiamo più in stazione,” dice lui.
“Ma vi siete sempre fermati in stazione!”
“Da questa settimana non ci fermiamo più in stazione.”
“Ma nessuno ce lo ha detto!”
Il tono del conducente si fa irritato. “Signora, se lei non telefona per informarsi, io non so cosa farci.”

Ascoltare le conversazioni altrui sui mezzi pubblici è un vizio di chi scrive.
Si sentono frasi curiose che potrebbero darci delle idee per delel storie.
Si sente il ritmo del parlato quotidiano delle persone a piede libero per il mondo.

Per cui io sono qui sulla corriera, e in teoria sto leggendo un pezzo di Douglas Rushkoff su un progetto in cui alcuni milionari americano vogliono ritirarsi in una comunità protetta per sopravvivere all'”Evento” (che sarebbe la cessazione della nostra civiltà per via del collasso climatico) e ipotizzano di utilizzare collari esplosivi per garantire la lealtà dei mercenari armati che dovranno difenderli dai poveracci affamati (che, senza offesa, saremmo voi ed io).

Ma invece di leggere, eccomi qui che ascolto la gente che parla attorno a me.

E sento questa cosa.
C’è un tizio, vedere, che sta spiegando ad un altro che tutta questa faccenda del cambiamento climatico è chiaramente una cospirazione per infinocchiarci e venderci dei condizionatori.
Perché, sostiene il tipo (che sta seduto alle mie spalle e io non vedo – ma devo usarmi violenza per non voltarmi e guardarlo in faccia) … perché, sostiene il tipo, se fosse vero che l’ambiente è al collasso e che rischiamo di morire tutti malissimo, “i ricchi”, sapendolo, farebbero qualcosa per evitarlo, per salvare se stessi, e così salvando anche noi.

Poi il pullman non si ferma alla stazione.
C’è un momento di panico, poi le due signore vanno a parlare al conducente.

Io butto un occhio alla pagina.
Collari esplosivi per garantire che le guardie armate non si ribellino.
Omae, “i ricchi” ci stanno facendo qualcosa.
Collari esplosivi, o forse robot armati a pattugliare il perimetro.


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Senza la passione saremmo perduti

Credo di avervelo già raccontato – una ventina di anni or sono, quando ero un misero laureato che campava facendo corsi post-laurea a contratto, all’uscita da un congresso nazionale un collega che aveva due cattedre mi chiese se “questa cosa della statistica” io la facessi “sul serio.”
Perché lui aveva dei dati da analizzare.
“Troppi dati”, disse. Ma non intendeva pagare qualcuno che gli facesse le analisi.
Gli dissi che si poteva fare, e poi si pubblicavano i risultati a firme congiunte.
Ne fu molto deluso.
“Pensavo che lo facessi per passione.”
E non se ne fece nulla.

La regola empirica, a questo punto è – se cominciano a parlarvi di passione, è perché non vi vogliono pagare.
Ma come, maledetto straccione, ti offro la possibilità di fare ciò che ti piace, e vuoi anche essere pagato?

Oggi, un servizio a cui sono abbonato via internet, mi offre gratis (aha!) un pacchetto di risorse fotografiche dedicate alla Passion Economy.
Un paio di quelle immagini le sto usando in questo post – mi pare una cosa sufficientemente post-ironica.
ma cosa diamine è, la Passion Economy?

Una rapida ricerca via Google mi offre questa definizione

La Passion Economy è un’economia costruita attorno a “creatori con uno scopo”: persone fortemente motivate ad avviare un marchio, un’attività o una comunità, di solito su piattaforme digitali, attorno a una passione condivisa. Oggi, c’è una continua richiesta di tre cose che l’economia della passione fornisce: competenza, esperienze e relazioni.

O, per metterla giù in maniera molto più sbrigativa, trasformare i propri hobby in un lavoro.

Il termine è stato coniato, o popolarizzato, da un giornalista americano che si chiama Adam Davidson che, stando ad un articolo che ci narra le sue imprese

cercava la strada in mattoni gialli che potesse collegare [il suo percorso artistico] al successo commerciale

Immagino quella fosse la sua passione – e così ci scrisse un libro, ed ora siamo tutti fregati.

Ora non fraintendiamoci – io ho studiato paleontologia e geologia perché quelle erano le materie che mi piacevano, quello era il lavoro che pensavo mi sarebbe piaciuto fare. La mia passione, se volete.
Una delle mie passioni (ci torneremo).
Ed indubbiamente, considerando che da sei anni a questa parte pago i conti scrivendo, sono certamente una di quelle persone che hanno trasformato la loro passione, il loro hobby, in un lavoro che paga.
Poco e male, ma paga.
In entrambe le mie “carriere” principali, la passione è stata una componente fondamentale.
Ma anche in altri casi – ho insegnato perché mi piaceva insegnare.
Mi piaceva documentarmi, imparare le tecniche di comunicazione dai manuali e metterle in pratica, interagire con gli studenti, comunicare ad altri ciò che sapevo, ciò che avevo visto ed imparato.
Di tutti i lavori che ho in curriculum probabilmente solo quello come spaventapasseri non era motivato da una qualche forma di passione – se escludiamo la passione per i libri che il magro stipendio da spaventapasseri mi permise di acquistare.
Ah, e la vendita di auto usate.
Ho conosciuto una sola persona che avesse una vera passione per la vendita di auto usate, ma quella è una storia per un altro giorno.

E, a voler essere completamente onesti, forse è meglio fare soldi con qualcosa che ci piace davvero, piuttosto che guidare un’auto per Uber o consegnare pizze in bicicletta.
Passion Economy vs Gig Economy.
Ma chissà, ci sono persone a cui piace andare in bici, e persone a cui piace guidare.

Ma allora perché, a fronte di tutte queste considerazioni, l’idea di Passion Economy continua a darmi i brividi?

In parte, certamente, per ciò che mi hanno insegnato le mie esperienze personali – quando cominciano a sbandierare la passione, ti vogliono fregare.
Ci piace molto ciò che scrivi e vorremmo tanto pubblicarlo e venderlo, ma non saremmo mai così volgari da voler insultare la tua passione ed offrirti dei soldi.

In parte è per lo stesso motivo per cui il concetto di “azienda come famiglia” continua a darmi i brividi.
Perché sono segnali di come un aspetto della nostra esistenza – lavorare per vivere – stia cercando di infiltrarsi in ogni altro momento della nostra vita – fino aportarci a vivere per lavorare.
Non è sano, come non si sta dimostrando sana questa idea di trasformare ogni individuo in un’azienda, in competizione con tutte le altre.

Davidson si scorda di dirci, nei suoi lavori, che la Passion Economy alla fine i soldi li fa fare ad altri – ad Amazon che vende i nostri ebook autopubblicati, a Youtube che vende lapubblicità prima durante e dopo i nostri video, a Spotify che distribuisce inostri podcast, ad Etsy che vende le sciarpe che abbiamo fatto lavorando a maglia.
E non è una cosa nuova – da sempre gli editori fanno soldi sul lavoro degli autori; i “soldi veri”, nella Hollywood dell’epoca d’oro, li facevano gli studios che possedevano catene di cinema in cui distribuire le loro produzioni.
Oggi le cose sono cambiate. Chissà, forse i soldi li fanno le piattaforme digitali come Netflix.

Ciò che Davidson si scorda di dirci, insomma, è che la Passion Economy, fondata sulla passione e sulla creatività individuale, è solo un ingranaggio della Distribution Economy, fondata sul controllo di mezzi distributivi, che è poi sempre la solita Business As Usual Economy, dai tempi dei fenici.
Tu fai qualcosa, io lo vendo. Sono solo cambiati i dettagli e, forse, le percentuali.

Io forse sono fortunato.
Ho sempre avuto “troppi interessi”, e quindi diventa facile trasformarne uno in un lavoro, cercando di nonperdere il piacere di farlo, mentre si conservano gli altri interessi come ancora di salvezza, come spazio in cui rifugiarsi due ore al giorno per sfuggire alla competizione, all’ostilità, all’orrore del mio dio, se non scrivo la banca si prende la casa!

Ma non è una situazione sana, quella che ci viene presentata.

Ce lo aveva detto Ray Davies, nel 1986.
Ma noi non stavamo ascoltando.

Ah, dimenticavo – ci sono quei dati ancora da analizzare, se qualcuno fosse interessato.
Ma bisogna avere passione, e non sperare in un compenso o un riconoscimento.


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Né artificiale, né intelligenza

Questo è un post un po’ confuso, che andrà un po’ di qua e un po’ di là prima di arrivare, spero, ad una conclusione coerente. È anche uno di quei post in cui uno che si paga (a malapena) i conti scrivendo parlerà di pagarsi i conti scrivendo (a malapena).

Ed è anche possibile che contenga link commerciali, perché sapete come vanno queste cose.

Per cui siete stati avvisati, e potete anche staccare qui se la cosa non vi interessa.

Qualche giorno addietro ho ascoltato una bella intervista a Peter F. Hamilton, il popolare scrittore inglese che è schedato come “il più venduto autore di fantascienza in lingua inglese.” Ora, Hamilton può piacere o meno – io personalmente trovo che abbia delle idee spettacolari ma sia decisamente troppo prolisso; e resta il fatto che Great North Road, con le sue quasi mille pagine, sia un romanzo fantastico. E a quanto pare ci piacciono anche gli stessi libri, per cui provo un istintivo moto di simpatia nei suoi confronti.
Ma che piaccia o meno, si diceva, Peter F. Hamilton ha una infilata lunga un braccio di best-seller, ed emerge dalle interviste come una persona estremamente piacevole, coi piedi saldamente per terra, che ammette candidamente che scrivere è l’unico lavoro che sappia fare, e che quando i suoi libri non venderanno più, sarà davvero in difficoltà.
L’unica cosa che lo tranquillizza, dice ridendo, è che è molto improbabile che una intelligenza artificiale gli porti via il lavoro, checché ne dicano gli entusiasti.

Ed ora, io ho letto l’eccellente You Look Like a Thing and I Love You, il saggio di Janelle Shane, una ricercatrice che ha speso un sacco di tempo a cercare di addestrare una AI per farle generare delle battute “toc toc… chi è?”, dei “dad jokes” e delle frasi per rimorchiare. I risultati – divertentissimi, ed il libro è assolutamente impagabile (e in questi giorni Amazon vi lascia l’ebook a tre euro e mezzo) – mi portano a concordare con Hamilton: è abbastanza improbabile che un computer mi porti via il lavoro in tempi brevi.
Un problema in meno.

Però, però, però…

Durante il lockdown, nel 2021, mi arriva un invito per un seminario di scrittura tenuto da una popolare autrice americana di narrativa erotica. E io mi dico, perché no?
Come spesso capita in questi “seminari gratuiti”, lo scopo non era quello di insegnare alcunché, ma di vendere qualcosa – di solito si tratta di corsi o manuali, ma in questo caso era qualcosa di completamente diverso: un software per generare prime stesure di narrativa erotica.
Si inseriscono il numero, il genere e i nomi dei personaggi, si selezionano alcune opzioni, si stabilisce un word-count, e poi si p reme un bottone … e voil°, la prima stesura viene prodota in formato rtf., pronta per essere editata – ed è ovviamente necessario editarla masicciamente, ma hey, la prima stesura non è più un problema. Offerta speciale per i partecipanti al corso, quattrocento dollari per la licenza d’uso del software di base – gli aggiornamenti si pagano extra.

Non è intelligenza artificiale, ma è qualcosa che va ad intaccare, se vogliamo, una certa visione della scrittura – che si ipotizza sia frutto di un mix di logica, emozione e “ispirazione” (qualunque cosa sia), e qui invece si riduce ad un database e ad un modello di query.
A rendere tutto quanto ancora più spiacevole è l’autrice che sta cercando di vendermi il software, e che per un’ora, incessantemente, non fa che parlare di soldi – quanti soldi si fanno con l’erotica, quanti soldi possiamo fare all’anno, al mese, alla settimana, quanti soldi si possono fare sfornando una novella sconcia ogni sette giorni, quante belle cose luccicanti ci si può comperare con tutti quei soldi…

E io mi dico, OK, è americana, loro mangiano pane e realismo capitalista, cosa ci vogliamo fare.
Oerché è chiaro che chi scrive per vivere ai quattrini ci pensa, eccome, ma che diamine, un minimo di eleganza…

Poi però mi capitano due cose, nel giro di 24 ore – proprio mentre sto ascoltando una bella intervista a Claire North, che ha vinto il World Fantasy Award e che dice, sostanzialmente, che scrivere è meraviglioso e per fortuna ora le hanno acquistato i diritti per fare un film da un suo romanzo, perché per quel che ne sa, la sua carriera potrebbe finire domani – quando si scrive per vivere, non ci sono certezze.

Le due cose che mi succedono sono un articolo su una rivista online e un annuncio pubblicitario via Facebook.

L’articolo parla del mercato dei romanzi a base di sesso e licantropi – non fate quella faccia, hanno a quanto pare un certo successo – che stanno diventando oggetto di una sorta di gig economy – una quantità di piattaforme (a cominciare dal nostro amico Amazon) sfornano a cottimo decine e decine di titoli in questo ed altri generi, per un pubblico che macina pagine su pagine.
E gli autori, a seconda della piattaforma e del successo, possono fare dai 300 agli 800 dollari per ciasdcun titolo.
Non è una cosa limitata ovviamente a sesso e licantropi – e molti autoprodotti possono dichiarare cifre del genere, o anche più basse.
Ma ciò che è interessante è il meccanismo, questa sorta di produzione a cottimo, che sa più delle vecchie workhouse di dickensiana memoria che non di redazione di rivista pulp. È una catena di montaggio.
Per soddisfare la richiesta dobbiamo sfornare un certo numero di pagine all’ora, e quindi possiamo pagare qualcuno per “generare contenuti.”

La seconda cosa che mi capita sott’occhio è invece una pubblicità che Facebook è assolutamente convinto mi interesserà – si tratta di un corso di scrittura, destinato a giovani dai 18 ai 30 anni (ah, mister Zuckerberg, lo prendo come un complimento), equiparato a una laurea triennale: diecimila euro l’anno di iscrizione, più vitto alloggio e spese in una grande città, perché i corsi sono tutti in sede, e tutti in presenza. Ma l’iscrizione al corso ci garantisce fino al 20% di sconto per la permanenza in residence.
E qui il mio cervello surriscaldato comincia a macinare numeri – trentamila euro di iscrizione, più per lo meno altrettanto per vivere per quei tre anni. Sessantamila euro. Come minimo.
Ora, è estremamente improbabile che un esordiente riesca a scucire più di 5000 euro di anticipo sul suo primo romanzo nel nostro paese, ed all’estero è quasi impensabile che l’anticipo per un primo romanzo superi i 10.000 dollari. Di solito parliamo di cifre molto molto più basse.
In altre parole, a fronte di un investimento di sessantamila euro, ci toccherà vendere non meno di sei, più probabilmente una quindicina di romanzi.

E lo so, ora mi direte sì, ma una laurea in astrofisica costa uguale e quando mai l’ammortizzi lavorando…

Ma non stiamo parlando di astrofisica – stiamo parlando di scrittura.
On writing, di Stephen King, vi costa meno di otto euro in ebook, in italiano, più il tempo necessario per leggerlo, e magari trenta euro di classici di vostra scelta da leggere perché se non leggete non potrete mai scrivere. E OK, io personalmente non considero il testo di King questo grande manuale di scrittura su cui tutti piangono commossi, ma ne abbiamo parlato in eterno – non esiste un manuale che vada bene per tutti. Io per esempio preferisco Monkeys with Typewriters, di Scarlett Thomas, ma a ciascuino il suo.
Basta stare alla larga dallo Strunk & White, e va tutto bene.
E ammettiamolo, con sessantamila euro, di manuali di scrittura ce ne compriamo un container.

Senza contare, naturalmente, che ci sono fior di corsi online – da quelli a costo decisamente modesto ma eccellenti di Holly Lisle, a quelli assolutamente gratuiti di Brandon Sanderson pubblicati su Youtube.
Certo, bisogna conoscere l’inglese. Ma un corso di inglese costa molto meno di sessantamila euro – e molto meno di un corso di scrittura in italiano. E conoscere l’inglese è molto più utile che conoscere lo show don’t tell e l’infodump.

Ma al di là di queste considerazioni pratiche, ciò che mi colpisce in questo uno/due, articolo più pubblicità, è che se è vero che per ora l’intelligenza artificiale non minaccia leprofessioni creative e la scrittura in particolare, è anche vero che vediamo sempre più di frequente delinearsi due ambiti in cui “l’ambiente della scrittura” si sta dividendo – da una parte gli scrittori a cottimo, che per vivere al minimo della sussistenza devono sfornare due romanzi al mese, scrivendo con formule così ben definite che possiamo programmare un database per generare trame, e quelli per i quali la scrittura è essenzialmente un giocattolo per ricchi – trentamila euro di corso, e tre anni in residence.
Ed è particolarmente orribile, per me, che i primi vengano considerati scribacchini ed i secondi possano fregiarsi di titoli altisonanti e parlare di arte, di ispirazione, di muse e altre divinità improbabili dei quali sarebbero i prediletti. Premi, interviste, salotti, rubriche su riviste a bassa tiratura, e poi l’oblio.

Ciò che mi preoccupa, e che preoccupa molti altri, è la scomparsa, anche nel mondo della scrittura, della classe media, del semplice artigianato, della professione contrapposta al lavoro a cottimo o al lifestyle per il gusto del lifestyle – quegli scrittori che con due romanzi l’anno si mantengono dignitosamente, e che quando postano sul loro blog le belle recensioni del loro ultimor omanzo si sentono dire “però non è vera letteratura.”
Questo, e non le AI, è ciò che mi fa temere per il mio futuro professionale.


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Esistenza condizionale

Se, per reiterare una metafora usata qualche giorno addietro, Facebook è la ferrovia e questo blog è una città fantasma, allora il treno non passa più di qui, ma io continuo a ricevere il bollettino del dopolavoro ferroviario. E continuo perciò ad avere il piacere talvolta piuttosto dubbio di scoprire novità straordinarie attraverso la piattaforma di mister Zuckerburger.

Stamani, ricevo la notizia entusiastica che il fantasy italiano, contrariamente a ciò che si dice, esiste.
Con buonapace, immagino, dei compianti Giuseppe Pederiali e Gianluigi Zuddas, per citare due nomi illustri e poco battuti e non finire a scomodare il solito Calvino.
E chi, davvero, ha mai messo in dubbio l’esistenza del fantasy italiano?

La notizia dell’esistenza del fantasy italiano mi lascia una strana sensazione – perché sotto all’etichetta “fantasy” (che io considero in termini abbastanza ampi) va a cascare gran parte di ciò che scrivo ed ho scritto negli ultimi vent’anni – in effetti ho un romanzo fantasy con tanto di elfi ed orchi in uscita a luglio – e stando ai miei documenti di identità ed all’Agenzia delle Entrate, io sono italiano; magari non sono particolarmente orgoglioso di esserlo, in certi giorni, ma all’Agenzia delle Entrate non si può restare indifferenti.

E tuttavia la mia esistenza viene messa in dubbio, ed in effetti rimane sospesa nel limbo anche dopo la scoperta che sì, Virginia, il fantasy italiano esiste.

Chi è quindi che certifica l’esistenza non solo del genere, ma dei singoli autori che vi appartengono?

Ora, l’Italia è per sua natura il paese degli albi professionali e delle gilde.
È necessaria una tessera, per essere riconosciuti?
Per esistere?
Perché qualcuno si accorga di noi?
Ed io effettivamente sono membro di due associazioni professionali di scrittori del fantastico – una inglese ed una americana.
Significa quindi che sono un autore fantasy anglosassone?

È certamente vero che la maggior parte del mio lavoro classificabile come fantasy non esce nel nostro paese e nella nostra lingua – e non perché io non ci abbia provato, badate bene; però il romanzo a cui accennavo qui sopra uscirà in inglese (e poi forse in francese e spagnolo).

Per essere frantasy italiano, il fantasy deve necessariamente essere scritto in italiano?

O è forse una questione formale – e le pagine devono essere farcite di sarchiaponi e di “Santa Polenta!” anziché di orsi-gufi e “Madre di Iluvatar!” per certificare l’origine del materiale?

Devo necessariamente citare il Tasso e l’Ariosto?
Se per disgrazia la mia fonte di ispirazione è l’Odissea divento automaticamente un autore di fantasy greco?
Non è un discorso ipotetico: ho un’amica italianissima che scrive storie di spadaccini confuciani e mistici taoisti.
Questo fa di lei un’autrice fantasy cinese?
Forse sarebbe il caso di avvertirla.

Qualcuno a questo punto dirà che ciò che viene pubblicato sul bollettino del dopolavoro ferroviario vale quanto la carta sulla quale è stampato, e non merita particolare considerazione.
Facebook esiste per vendere delle idee, è una macchina per la propaganda e in quanto tale non ha alcuna relazione con la verità.
Ma quali idee vengono veicolate, quale immagine della realtà si cerca di spingere … queste sono questioni importanti.

Perché si tratta di uno stato di esistenza condizionale – se sul bollettino del dopolavori ferroviario dicono che non ci siete, voi non ci siete … per lo meno per chi viaggia su quel treno.
E TUTTI viaggiano su quel treno, e arrivano solo dove quel treno li porta.
Molti scelgono le proprie destinazioni sulla base di ciò che viene stampato sul bollettino del dopolavoro ferroviario.
C’è chi dà via biglietti, ed abbonamenti, e tessere.
E se passa il controllore e voi non avete il biglietto, vi faranno scendere alla prima stazione.


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Un altro arcobaleno

Dove andremo a finire con questa storia del gender, eh?
È quello che mi ha chiesto un contatto (straordinariamente sporadico) su facebook, pochi minuti dopo che ho aggiornato la copertina del mio profilo, stamani.
Perché sì, uguali diritti per tutti e tutto quanto, ma non si potrebbe fare a meno di portare avanti questa faccenda in maniera così visibile?

Che ovviamente è il punto dell’intera faccenda.
Ma in effetti diventa anche meglio di così, perché “la bandiera arcobaleno” che ho messo sul mio profilo ed ha risvegliato il “sì, ma allora…” del mio “contatto sporadico” … beh, non è una bandiera, e non è un arcobaleno.
È questo…

Non c’è il verde, vedete?
Arcobaleno = rays of young girls blessed in virginity = red orange yellow green blue indigo violet.
Rosso, Arancio, Giallo, Verde, Blu, Indaco e Violetto.
E lo sappiamo che nessuno ha proprio chiara l’idea di cosa sia l’indaco, e che Newton ce lo mise perché sette colori gli suonava “più mistico” e quindi meglio di sei.

E potremmo discutere per qualche minuto sul fatto che ci siano questi “contatti sporadici”, appostati al largo dei nostri profili Facebook come U-boot al largo di Gibilterra, in attesa di veder passare la nostra nave per silurarla, ma quello lo lasciamo magari per un’altra volta.

Come lasciamo per un’altra volta il fatto che, con la piega che sta prendendo il nostro paese, forse “esporsi”, come dicono questi “contatti sporadici”, potrebbe avere delle conseguenze spiacevoli, in futuro.
Che sia sui diritti di chi ha inclinazioni diverse dalle nostre, o anche su problemi diversi.
Ma anche di questo parleremo un’altra volta.

Ciò che è interessante invece è che questo qui sopra non è un arcobaleno, e non ha nulla a che vedere col Pride Month. Aumentiamo il livello dei dati, e vediamo se così diventa più chiaro.

Già.
L’andamento delle temperature anno per anno, nel nostro paese, negli ultimi 120 anni.

E trovo sommamente curioso che ci siano persone che quotidianamente, proprio su Facebook, postano status su quanto odiano l’estate, e nessuno di costoro pare aver ancora notato che le estati non sono più quelle di una volta.
E gli inverni nemmeno.

Non è per quello che serve Facebook, si dirà.
Facebook serve per attirare l’attenzione e sembrare interessanti.
Parlare della crisi climatica è noioso.

Il grafico qui sopra arriva da un sito dell’Università di Reading, chiamato #ShowYourStripes.
È disponibile anche il grafico dell’andamento globale.
Non è bello neanche quello.

Ne abbiamo parlato in passato.
La nostra civiltà si sta suicidando, e si sta suicidando per continuare a garantire i profitti di una ristretta cerchia di persone. E non parrebbe un problema così complicato – perché si riduce al classico “o la borsa o la vita”.

Ma a quanto pare stiamo scegliendo la borsa.
Sempre e comunque.
Perché la vita, ci illudiamo, e sempre quella degli altri.

Ma forse non è vero.
Forse quelle strisce colorate sono qualcosa che si sono inventati gli scienziati malvagi per ingannarci!
O forse è vero ma non è colpa nostra, è un andamento naturale, e tutto tornerà normale dopo che saremo morti male.
O magari è vero, ma non ci possiamo fare nulla, e sprecheremmo solo dei soldi senza alcun risultato.

Che sono alibi mechini, che si riducono alla fine al semplice “perché dovrei sbattermi?”

Ed è interessante, perché è come la storia di una persona che prova un dolore sordo e continuo al fianco, per giorni, settimane, mesi.
E va dal medico, ed il medico gli fa una serie di visite ed esami, e gli dice, “mi dispiace, sei messo male, devi cambiare stile di vita, dare un taglio a sigarette, alcoolici, carni rosse e bevande gassate, e magari metterti a fare delle lunghe passeggiate.”
Ed il tipo si dice “cosa ne sa il medico? Perché dovrei fidarmi? E se poi non cambia nulla?”
E se ne torna a casa, domandandosi a cosa sia dovuto quel dolore al fianco.
Magari dando un’occhiata su Facebook troverà una risposta che gli piaccia.

Avendo osservato la campagna di disinformazione che dai primissimi anni ’80 venne messa in campo per delegittimare le posizioni dei ricercatori sulla crisi climatica, mi domando se la nostra attuale relazione conflittuale coi fatti, e con le opinioni dei tecnici, non derivi da lì.
I terrapiattisti, gli antivaccinisti, i complottari assortiti, i respiriani, i difensori della civiltà dagli orrori del gender, i “contatti sporadici”… tutti figli di una martellante campagna stampa voluta da un cartello di aziende per non dover modificare il proprio modello imprenditoriale.

E volete ridere?
Poi hanno cambiato il loro modello imprenditoriale.


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Un uomo solo al comando

Il mio amico Giuseppe dice che Zappalà non esiste. Se provate a fare un giro su Google, troverete un certo numero di articoli che indagano sul mistero sollevato da un articolo comparso su La Stampa riguardo a un giovane ex-commercialista che, chiusa l’attività causa COVID, ora vive felice e guadagna dai due ai quattromila euro al mese, netti, facendo il rider. Troverete molte versioni, molte gradazioni di realtà.

Il mio amico Giuseppe dice che Zappalà non esiste, ma quello, naturalmente, è irrilevante. Perché qui non stiamo parlando di realtà, ma di un certo tipo di retorica.
Ed è questo tipo di retorica che mi interessa.

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