strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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26 buone idee

Post rapido e indolore, molto domenicale.
Per segnalare un ebook gratuito che potete scaricare da un sito piuttosto interessante.

Il sito è 8fold – il sito di una azienda che si occupa di lifestyle design, una azienda che si prefigge di cambiare il mondo del lavoro attraverso (tra le altre cose) lo yoga.
Il cervello dietro al progetto – che è molto meno strambo di quanto non sembri – è Sinead MacManus, imprenditrice atipica e visionaria.
Il mio genere di persona.
Leggere il suo blog è stato un gran divertimento, ed è stato ancora una volta come incontrare uno spirito affine.
Considerate il seguente stralcio della sua biografia…

i believe that:
life is short.
doing the right work is great.
doing the wrong work is pointless and soul-destroying.
we don’t need more ‘stuff’ in the world.
we don’t need to complicate our lives or work more.
we should think and plan less and do more.
and, sometimes we need to unplug and go do something else.

Grande!

Comunque, in cambio del nostro indirizzo email, Sinead ci lascia scaricare un bel pdf di trenta pagine che compensa la sottigliezza con la densità di idee e suggerimenti che contiene.
È fatto così…

26 e rotte idee per avviare una attività.
Che è poi una buona strategia.
Libri da leggere, app per il vostro smartphone, blog e siti web da visitare.
Interessante ed intelligente – credo che ruberò l’idea per un paio di cose che piazzerò sul blog in futuro.

Per intanto, vi invito a scaricare l’agile volumetto.

Di lavoro, gratificazione personale e approcci atipici al guadagnarsi da vivere, parleremo ancora.
Fino alla noia.


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Lavorare gratis

Brutta cosa parlare di soldi durante le ferie.freelance-777790.jpg
Però capita.
Il giovane – e oseremmo dire ingenuo, se non avesse avuto in fondo una buona idea – Charlie Hoehn ha pubblicato un e-book attraverso SlideShare, che varrebbe per lo meno la pena di leggere e di discutere.
La tesi di Charlie è riassumibile come segue:

  • l’università non prepara al mondo del lavoro
  • il mondo del lavoro valuta l’esperienza più dei pezzi di carta
  • i neo-laureati si vedono offrire lavori non qualificanti per una miseria
  • allora tanto vale lavorare gratis con un occhio al curriculum

La tesi è meno barbina di quanto non si possa immaginare.
E se in effetti l’ipotesi di lavorare gratis come stile di vita è improponibile, il mantenersi aperti a lavori bassamente o per nulla retribuiti al fine di costruire un curriculum valido non è poi così male.

L’idea è quella di cominciare a lavorare gratis per costruirsi un credito presso aziende che, favorevolmente impressionate dalla nostra performance, ci tengano presenti per futuri lavori retribuiti.
Per cominciare, vogliamo solo il credito di aver fatto il lavoro.
Una menzione ufficiale, una lettera, un modulo compilato.

È chiaro a questo punto che ciò che noi offriamo all’azienda dovrà essere quanto più unico e individuale possibile – in modo da azzerare la concorrenza.
A questo livello, il nostro approccio è il classico “la prima dose è gratis” che ha fatto la fortuna di molti imprenditori indipendenti.
Se ci dovessimo limitare ad offrire qualcosa di ampiamente disponibile sul mercato (penso alle traduzioni dall’inglsese, ambito lavorativo ormai devastato dall’afflusso di dilettanti pronti a lavorare gratis), sarebbe facile per il nostro interlocutore-azienda rivolgersi a qualcun’altro nel momento in cui le nostre tariffe dovessero crescere al di sopra dello zero.
E che il curriculum, il credito e la fiducia si dannino.

Esiste davvero la possibilità che il progetto di Charlie si risolva in qualcosa di più di una boutade?
Io credo di sì.
Non ovunque e non per tutti, ma per certe occupazioni strettamente connesse alla creatività ed all’ingegno, potrebbe essere uno strumento in più nella cassetta degli attrezzi.
Poco adatto forse ad un ultraquarantenne – che il suo portafoglio di clienti e contatti dovrebbe già averlo (pure restando interessato ad ampliarlo) – ma da tener presente per i neolaureati e laureandi.
In fondo, è come uno stage in azienda, con il vantaggio che l’azienda ce la cerchiamo noi.
E costa dannatamente di meno di un master.

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Futurama – il futuro del 1940

19070.jpgStavo surfando il web, ieri, in cerca di informazioni su Futurama, il disco del 1975 dei Be Bop Deluxe, quando sono inciampato su qualcosa di completamente diverso.
O forse no.
A dimostrazione del fatto che spesso non arriviamo dove volevamo andare, ma dove c’era bisogno che fossimo.
E trovo così la minuscola paginetta di Wikipedia sul Futurama, lo stand della General Motors alla Fiera Mondiale di New York del 1940.
Dal quale il disco dei Be Bop Deluxe prende il titolo, naturalmente.
E soggetto di un documentario di 23 minuti prodotto proprio nel 1940, proprio dalla General Motors.
Che si può avere, gratis, attraverso lInternet Archive.

Per chi se lo fosse perso, l’Internet Archive è una colossale collezione di materialii mediatici copyright-free, messi a disposizione dei curiosi, dei surfisti, e di chiunque abbia intenzione di utilizzarli, elaborandoli e remixandoli, per creare qualcosa di nuovo.
Fra i contenuti messi a disposizione dall’Internet Archive c’è il materiale dei Prelinger Archives, una raccolta di 60.000 contenuti media effimeri (pubblicità, trailer di film, documentari ad uso interno di scuole o aziende…).
E fra i materiali della Prelinger ci sono anche i 23 minuti di To New Horizons – documentario sul Futurama, condensato visivo della mostra.
Qui ve ne beccate un pezzetto in streaming…

Things-to-come-poster.jpgConfessione di un vecchio appassionato di fantascienza: ho sempre trovato Things to Come (Nel 2000 Guerra o Pace), film del 1938 su sceneggiatura di H.G. Wells, al contempo esilarante e inquietante.
Esilarante per la sua visione a precipizio di un futuro profondissimo nel quale l’umanità andrà avanti, raggiungendo vette inimmaginabili.
Inquietante per la sua visione a precipizio di un futuro profondissimo nel quale l’umanità non avrà altra scelta che andare avanti, raggiungendo comunque, in un modo o nell’altro, vette inimmaginabili, con un supremo disinteresse per desideri e diritti del singolo.
To New Horizons mi fa lo stesso effetto, con in più il problema che Norman Bel Geddes, designer del Futurama e l’uomo maggiormente responsabile per l’immagine del futuro fra gli anni ’30 e ’60, riesce a rendere molto credibili le visioni del lontano 1960 proposte ai visitatori della mostra di New York, mentre la sponsorizzazione da parte di un’industria automobilistica si fa sentire pesantemente – molto pesantemente, per un abitante del 21° secolo.
Se l’autostrada è una classica (e trita) metafora del progresso, non lo è mai stata tanto quanto in questi 23 minuti di delirio futuristico.
L’idea di fattorie con gli alberi da frutto ciascuno individualmente incapsulato in una teca di cristallo, rese più ricche ed efficienti dai doni dell’ingegneria e della chimica, le megalopoli vastissime, senza marciapiedi a livello stradale, con quartieri separati per attività commerciali, abitative e di intrattenimento, le allegre industrie con le ciminiere sbuffanti circondate dalle villette unifamiliari degli operai…
Oggi stiamo andando nella direzione opposta, perché del poco che abbiamo sperimentato, del futuro di Futurama, molto è andato a male.
Vivere sotto le ciminiere porta malattie incurabili eproblemi respiratori.
I quartieri dedicati solo all’attività impiegatizia diventano di notte deserti attraversati da gang di malviventi, predatori per i pochi malcapitati scesi alla fermata sbagliata del tram.
E gli autogiro non hanno rimpiazzato le automobili nel traffico urbano.
Non ci sono i dirigibili.

Quanto all’ausilio della chimica all’agricoltura, nel 1962, proprio in quegli anni ’60 immaginati come una versione più lounge dei Jetsons, il libro Primavera Silenziosa di Rachel Carson avrebbe dimostrato ineluttabilmente che esisteva un orrido rovescio della medaglia.

Ma c’è un pensiero che tarda ad arrivare, guardando To New Horizons, e che quando arriva lascia un senso di vuoto nello spettatore.
Il Futurama, con la sua visione del futuro idilliaco e perfettamente regolamentato, è del 1940.
In Europa si sta già combattendo.
La macchina Nazista è già all’opera.
E entro un anno, l’Impero giapponese darà un molto poco idilliaco segnale di sveglia agli Stati Uniti.
Ma di tutto ciò, nella visione di Bel Geddes e della General Motor, non compare nulla.
Il futuro è così brillante, che si rimane abbaglianti, e si perdono i dettagli del presente.

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L’Avventura é l’Avventura

https://i0.wp.com/www.island-air.ca/Images/Lane_Wallace.jpgHo scoperto Lane Wallace di recente, leggendo la sua rubrica sulle pagine (elettroniche) dell’Atlantic.
Lane Wallace cura la rubrica The Uncommon Navigator, e mi piace il suo modo di scrivere, mi interessano gli argomenti di cui scrive.
Lane Wallace scrive di avventura, e ne ha il pieno titolo – abbandonata una carriera come “quadro” in un’azienda americana, vent’anni or sono la Wallace si lasciò la propria esistenza alle spalle e si reinventò come pilota d’aereo e scrittrice d’avventura. Ha viaggiato in lungo e in largo, ha vissuto avventure più o meno raccomandabili, è tornata per raccontarci come è andata. Ha scritto libri, editato riviste, tenuto corsi.
Recentemente, ha avviato un sito web, No Map, No Guide, No Limit (TM), attorno al quale sta cercando di raccogliere una comunità che condivida il suo stesso interesse per l’avventura e per ciò che possiamo riconoscere come il motore dell’avventura – l’incertezza.

Ed ora, occupandomi io di statistica, l’incertezza è esattamente ciò che studio e misuro, e vendo.
Da qui il mio apprezzamento per l’autrice, per il suo sito, e per il bel libro che si può scaricare gratuitamente dal sito medesimo.https://i0.wp.com/nomapnoguidenolimits.com/blog/wp-content/uploads/2009/02/e-book_cover-thumb.jpg
Intitolato Surviving Uncertainty: Taking a Hero’s Journey, l’e-book (molto tradizionale nella sua impaginazione) si propone di illustrare, attraverso aneddoti della vita dell’autrice, come l’incertezza sia in fondo la madre delle opportunità, ed il motore dell’avventura.
E poiché l’incertezza è cosa di tutti i giorni, anche l’avventura è un fatto quotidiano – che può cambiarci la vita, ma che non necessita di giungle, serpi velenifere, indigeni infuriati o fughe precipitose.

Ed è curioso, in fondo, come una piccola percentuale della popolazione occidentale sia disposta a bruciare quantità stravaganti di denaro per garantirsi ciò che il resto della popolazione fa di tutto per sfuggire.
Certo, il plutocrate che paga per la vacanza-avventura tutto compreso pensa a Indiana Jones, non a sei mesi di cassa integrazione con tre bambini da mandare a scuola.
E soprattutto cerca una apparenza di avventura – una avventura con un esito determinato (zero incertezza) e in un ambiente controllato (zero incertezza).
E così si limita a bruciare risorse, incrementare l’infelicità complessiva e accrescere il proprio ennui.
L’avventura vera – quella che può cominciare con una gomma a terra nel quartiere sbagliato – è invece portatrice di cambiamento.
E di opportunità.
Questa è la tesi di Lane Wallace.
Una tesi che mi trovo a condividere, e che scopro confermata da tutta la mia esperienza di studio e – che diavolo – di vita.
Il vecchio, burroughsiano “Non sono ancora morto” di John Carter contiene una verità troppo facilmente dimenticata.

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Difendiamoci dal Demenziale Terrestre

Serie televisive di una stupidità colossale.
Talk show ridicoli in cui teste parlanti discutono dei meriti relativi delle serie televisive di cui sopra.
Partite di calcio in tutte le salse.
Talk show sulle partite di calcio.
Servizi di approfondimento su calciatori e relative fidanzate.
Musica pessima.
I soliti dannati documentari coi leoni del Serengheti.
Templari antartici dell’Opus Dei contro vampiri Maya venuti dallo spazio.
Politici infoiati e giornalisti incazzati.

Ed ora, con l’aggiunta del decoder, quattordici diversi tipi di effetto neve (ma questo naturalmente è un problema mio).

Tocca trovare una soluzione.

Ho già segnalato in passato  Miro, Big Think, e TED.
Fonti eccellenti per una TV alternativa.

Oggi segnalo invece WebSerials.com, sito web e canale di YouTube, fonte di sano escapismo fantascientifico fatto con due lire (ma proprio due lire) ed una sana dose di chutzpah.

L’offerta al momento include The Black Dawn, serial drammatico e intelligente a metà strada fra 28 Giorni Dopo e I Sopravvissuti; il sobrio Project X, un X Files meno pulitino e conformista; e naturalmente il demenziale/catastrofico/pulp/testosteronico Cataclysmo, forse il più massiccio dispiegamento di faccia tosta e post-ironia mai visto in rete.

Ogni episodio dura dai quattro agli otto minuti.
I soldi sono pochissimi, gli effetti speciali di qualità molto variabile, la recitazione di livello altrettanto variabile.
Ma l’intelligenza è salva – anche nel demenziale.

E per titillarvi, vi beccate appunto il primo episodio di Cataclysmo II
Colossale!

 

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La quarta dimensione del libro

Fra le tante – troppe – cose che quest’anno mi sto perdendo per una miscela malata e dolorosissima di troppo lavoro, troppo poco danaro, cattiva salute e disastri familiari, c’è stato lo SchoolBookCamp.
Leggo il (primo) post fatto a riguardo da SpeculumMaius, e mi prendo a calci per non esserci stato.
Una di quelle occasioni che è criminale perdersi.

Questo SchoolBookcamp intende coinvolgere tutti coloro che sono interessati a ripensare sia alla natura stessa dei testi scolastici, sia a come riposizionare i contenuti che rompono la struttura lineare della creazione, della distribuzione, della fruizione, e irrompono nella circolarità della rete.

Sia come ricercatore (quando capita), che come insegnante (ditto), che come occasionale scrittore di fantascienza (questa è tutta da ridere) la cosa mi interessa.
E l’impressione, dal materiale visto finora in rete, rimane che più scrittori o appassionati di fantascienza avrebbero potuto contribuire positivamente alla discussione.
O essere cacciati in massa – ma ci siamo abituati, e si sarebbe finiti in qualche trattoria a (s)parlare di Star Trek.

Ciò che mi stimola la ghiandola della fantascienza è la percezione di una dicotomia miope – cito da SpeculumMaius (che tanto non si offende):

l’identificazione immaginifica del libro di testo con l’istituzione scolastica nella sua forma “biblica” da Pinocchio in poi e la funzione di contenimento (o di coperta di Linus se preferite) svolta da questo sussidio per la stragrande maggioranza dei docenti. Del resto, per controllare e contenere è stato creato…
[…]Alla ricerca di definizioni e differenze, ciò che secondo me – ora – distingue un libro di testo “tradizionale” da uno digitale è la sensorialità tattile e l’appartenenza storico-culturale ben radicata nell’immaginario collettivo.

Identificazione immaginifica.
Mica balle.
Non li adorate anche voi, quelli che frequentano la cultura umanistica?

Se da una parte concordo sul fatto che il libro cartaceo abbia una sua componente sensoriale molto forte – colleziono libri, ne ho la casa piena, li sento scricchiolare di notte… – io credo che questa visione del libro cartaceo come oggetto di legno, come contenitore blindato, non sia completamente corretta.
E finisca per danneggiare la progettazione del… del qualcosa in formato elettronico, che dovrebbe sostituirlo.

Io al liceo non ho mai usato i libri di testo – tant’è vero che alla fine dei cinque anni li ho venduti tutti come nuovi e col ricavato ci ho finanziato la mia collezione di romanzi di fantascienza (notiamo un tema ricorrente in questo post?)
Il motivo per cui non usavo i libri di testo è che – a fronte di ottimi insegnanti – avevo imparato a prendere degli ottimi appunti.
I miei appunti erano, di fatto, una customizzazione dei libri di testo, che integravano testo e spiegazione, e incrociavano le materie – usando un quadernone ad anelli e una penna da geek di quelle con quattro colori, potevo mantenere separate le materie a ma ottenere riferimenti incrociati. Includendo anche le pagine del libro di testo.
Niente di troppo doloroso, se si esclude il callo dello scrivano.

È vero – il libro ha una sua fisicità.
Ma ha anche una quarta dimensione, uno spazio accessibile alla modifica, alla customizzazione – posso annotarne i margini, sottolinearlo, aggiungere fogli volanti, fare i fumetti alle figure, smembrarlo in fascicoli e riordinarlo… Diavolo, posso correggerlo a mano!
Ai vecchi tempi gli studenti col libro “in disordine” venivano martellati a morte, ma erano quelli che lo usavano di più, e meglio.
Se ne appropriavano completamente, e così facendo si appropriavano anche dei contenuti, ritagliandoli sulle proprie necessità e sul proprio stile di studio.

Oppure erano semplicemente dei teppisti che scarabocchiavano il libro e ne stracciavano le pagine,  ma datemi un minimo di margine, qui, ok?

L’e-book didattico, a mio parere, per avere successo, dovrebbe in primo luogo favorire la manipolazione, la riorganizzazione del testo in maniere che allo studente risultino ragionevoli, dando un significato ai contenuti e alla loro sequenza.
Fornire la possibilità di taggare e hiperlinkare argomenti e voci, in modo che ciascuno si possa creare il proprio percorso di lettura.
O magari essere distribuito a blocchi che possano essere ordinati.
Quante volte il professore di storia ci ha detto “questa parte la saltiamo e la vedremo il prossimo trimestre, insieme con filosofia”… e allora perché non spostare il dannato capitolo più avanti, e linkarlo col testo di filosofia ai paragrafi opportuni?
Oppure fisica e matematica – che dovrebbero andare di pari passo, ma spesso si perdono.
Le diverse letterature.

Perché se mi limito a fornire ai ragazzi un ipertesto con i link già determinati, in realtà non sto fornendo loro nulla di più libero, interessante ed efficiente dei vecchi libri cartacei.
Anzi, fornisco qualcosa di inferiore – perché questo non lo posso scarabocchiare.

Questo significa, naturalmente, che stiamo parlando di una ipotesi di testo molto diversa dall’e-book come se l’è immaginato il Ministero, dove nessuno probabilmente ha letto The Diamond Age, or A Young Lady’s Illustrated Primer di Neal Stephenson (e dire che è uscito anche in italiano).
Noi non abbiamo bisogno di un dannato e-book – noi abbiamo bisogno di un ambiente di apprendimento, del quale l’e-book sia casomai l’interfaccia.
Stiamo parlando di qualcosa che non è un semplice pdf del testo cartaceo scandito al computer.
O un ipertesto coi link al loro posto.
Parliamo di un software modulare, assolutamente trasparente e user friendly, seduto su un database coi controfiocchi, con un amplissimo campo di adattabilità alle esigenze dell’utente.
Stiamo parlando di SmallTalk – e la cosa mi diverte, perché SmallTalk è un linguaggio di programmazione che ha trent’anni.
O magari parliamo di Ruby.
Stiamo parlando di qualcosa che non è necessariamente più leggero (in termini di Megabyte), più economico (in termini di persone pagate per crearlo) o più universalmente accessibile (in termini di “lo porto ovunque, lo uso quando voglio”) di un libro.
Ma che è, se possibile, operativamente tetradimensionale quanto un libro cartaceo.
Se non di più.
Stiamo parlando di Squeak!

Il che significa che tocca costruire, creare dal nulla, tre diverse parti del meccanismo.
Da una parte, l’ambiente di apprendimento, con la sua interfaccia, i suoi contenuti, la sua documentazione. Al limite, diciamo, con Squeak! l’ambiente c’è già, possiamo solo dedicarci a strutturare dei colossali database di contenuti. Database in grado di autoaggiornarsi collegandosi al web, naturalmente (perché sennò, che gusto c’è?)
Il secondo elemento sono gli studenti, che dovranno essere in grado di usare la sintassi dell’ambiente di apprendimento (SmallTalk per Squeak!, quel che ci pare per ciò che dovessimo decidere di creare da zero), in modo da poter accedere ai database e creare i propri libri di testo/laboratori interattivi/gallerie virtuali. Tocca insegnargli a programmare.
Il terzo elemento sono gli insegnanti, che non solo dovranno conoscere tutti ciò che conosceranno gli studenti, ma dovranno anche aver sviluppato una forma mentis che permetta loro di adattarsi ad una modalità di insegnamento molto diversa da quella attuale. Non più “studiate da pagina x a pagina y”, ma…
Cosa?
“Partite dai moduli X e Y e portatemi una relazione per venerdì”?
Non sarebbe male.
A questi insegnanti bisognerebbe anche e soprattutto insegnare che è giusto ristrutturare l’informazione.

In alternativa – perché bisogna avere sempre almeno due buone idee – potremmo lasciare che il lavoro lo facciano gli altri… lo hanno già fatto, in effetti.
E fornire ai ragazzi solo un buon browser web, custom-made, che includa un gestore di metatag, un archivio per le annotazioni e – se proprio vogliamo – una serie di filtri per decidere a quali siti sia possibile connettersi e a quali no.
Poi sguinzagliamoli in rete.
Lo stanno già facendo, ma con strumenti autocostruiti e inefficienti.
Considerando che il motore di Mozilla è open-source, perché non provare a creare non un e-book, ma un hyper-binder, una supercartellina nella quale i ragazzi possano collezionare i testi suggeriti dai docenti e agganciarci tutte le note, i ritagli e i file media che vogliono.

O una terza idea – perché quesllo di immaginare il futuro è il mio passatempo, capite – perché non resuscitare la tecnologia degli agenti informatici (Microsoft Agent?) e compilare degli assistenti virtuali che i ragazzi possano interrogare con un linguaggio normale, e che reperiscano per loro le informazioni su web o su database specifici?
Le informazioni che vogliono i ragazzi, nell’ordine che ritengono opportuno.
I Giapponesi hanno già qualcosa del genere! Lo vendono, lo si può acquistare!
Ovviamente, a conferma che la prima applicazione non militaredi tutte le nuove tecnologie è futile, Aris è insopportabilmente kawaii e non serve per la didattica (a meno che non si voglia insegnare ai ragazzi come molestare le ragazze), ma la tecnologia c’è (anche in questo caso, con Microsoft Agent, da oltre un decennio).

In tutti questi casi (io preferisco il primo, perché ovviamente arriverebbe ad includere il secondo e a non escludere il terzo), la vera sfida, a parte la creazione dello strumento, consisterebbe nell’educare gli utilizzatori a ricavarne il massimo possibile.
Insegnare agli utenti come usare gli strumenti – che è poi la missione basilare di chi educa.
O no?

Ma probabilmente caricheranno semplicemente i ragazzi di pdf in formato portrait.
Password protected, naturalmente.
Che spreco.

770px-LaptopOLPC_aADDENDUM:  scopro solo ora che Squeak è stato incluso nel pacchetto di software caricati sui computer del progetto One Laptop per Child.
Al momento sono stati ordinati 1 milione e 300 mila laptop.
Posso solo immaginare le conseguenze del fornire a così tanti bambini lo strumento per la creazione da zero di un intero ambiente nel quale crescere e apprendere, comunicando.
La mia ipotesi di unambiente di apprendimento diffuso diventa improvvisamente quasi una certezza – e certo solo la più banale delle possibilità.
Il futuro è appena diventato un poco più brillante.

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Ribellarsi è giusto

Ieri, su questo blog, ho invitato tutti i miei lettori a farsi un giro su Malpertuis per vedere cosa sta capitando laggiù, e a contribuire, entro le loro possibilità.
È servito?
Lo vedremo.
Certo, il lungo elenco sulla pagina Who’s Who Horror Italia sta crescendo.
Si stanno prendendo nomi, indicando siti web, definendo categorie.
C’è stata un minimo di discussione in coda agli ultimi post di Elvezio Sciallis, sono state avanzate proposte.
La lunga intervista a Danilo Arona – autore consigliatissimo sempre e comunque – ha ulteriormente definito la scena, indicato elementi sostanziali del paesaggio, fornito quasi una guida etica.
E visto lo squallido panorama spesso offerto dal fantastico nel nostro paese, continuo a credere che l’iniziativa in fondo semplice ma indispensabile di Elvezio sia da rispettare e sostenere con il massimo entusiasmo.

E onestamente mi auguro che fallisca.
Le probabilità sono buone – come tutte le promesse della rete, è facile che tutti si mettano ad applaudire entusiasti, e poi ciascuno si sieda ad aspettare che qualcun’altro cominci a creare le strutture, costruire le pagine web, attivare i forum…
O semplicemente il mercato attualmente in crescita favorirà l’ascesa di editori che sostanzialmente marginalizzeranno il progetto, pur lodandolo sperticatamente.
O semplicemente i fan lo affosseranno.

Ma dal credere probabile che l’iniziativa fallisca all’augurarsi che questo succeda, le cose cambiano.
Sono schizofrenico, a lodare un’iniziativa e a sperare che coli a picco?
Cercherò di spiegarmi.
https://i0.wp.com/www.craphound.com/images/rahquiz.jpg
È stato Robert A. Heinlein, mi pare – un autore che mal sopporto ma del quale non posso che riconoscere la brillantezza – a dire che quando i governi cominciano a stampare carte d’identità è ora di abbandonare il pianeta.
E per quanto io rispetti Elvezio e la sua iniziativa, non posso fare a meno di vedere in essa i germi di una istituzionalizzazione – della definizione di una comunità.
E nel momento in cui si definisce una comunità, giocoforza tocca definire anche le regole che la governano.
Nella migliore delle ipotesi, avendone il tempo e il modo, tali regole emergeranno in maniera quasi naturale – chiunque abbia avuto un’esperienza di prima mano delle originarie comunità virtuali abbarbicate attorno alle vecchie mailing list a vapore sà di cosa io stia parlando.
Altrimenti, le regole verranno stabilite da chi prenderà il controllo del progetto.
In entrambi i casi, la determinazione di regole segnalerà una divisione netta – quelli che le seguono, quelli che non le seguono.
Con la sua caratteristica di comunità di professionisti del genere, editori del genere e critici del genere, si delinea l’embrione di una ortodossia – e quelli che non seguiranno le regole saranno fuori fuori fuori.

Con questo non sto insinuando che Elvezio Sciallis si stia costruendo una piccol a roccaforte personale da Secret Master of Fandom, o che abbia delle mire di barone del genere horror.
Ma la storia della nostra specie è costellata di ottime iniziative sulla carta – penso al messaggio di Gesù Cristo o al Manifesto di Marx & Engels, ad esempio – poi sostanzialmente disattese, e drammaticamente, da chi le mise in pratica.
Non vorrei quindi che il webmaster di Malpertuis fosse inconsapevolmente sul punto di assumere i panni che furono di Alec Guinness ne Il Ponte sul Fiume Kwai – quelli di un uomo onesto ed onorevole, che si ammazza a costruire un ponte sul quale poi passono i suoi nemici.

Esiste già, mentre sto scrivendo, una lista di nomi.
Come tutte le liste, spacca l’universo in due – quelli che ci sono, e quelli che non ci sono.
È una caratteristica comune delle liste quella di venire al mondo con un’appendice inespressa ma inesorabile – la quale o delinea esattamente a quali compromessi deve piegarsi chi sta fuori per entrare dentro, o che determina ineluttabilmente che chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.

E già i semi della casta esistono nelle premesse…

Sono ammesse esclusivamente entità che si occupano principalmente di horror/weird/macabro et similia. Niente elfi, astronauti o key scarpette, ok?

Una lista del genere applicata ai “classici” lascerebbe quindi fuori Fritz Leiber (pluripremiato autore di Fantascienza, Fantasy e Horror), Henry Kuttner (autore che spaziò su tutto lo spettro, dall’orrore lovecraftiano alla sword & sorcery passando per il racconto umoristico), Robert Bloch (rispettato giallista)…

Oh, certo, non confondiamoci – Elvezio non è così categorico, e non è né miope né stupido.
Ma a lui, dichiaratamente, interessa il database, e le sue sono considerazioni di ordine pratico; come osserva giustamente

Sono sicuro che esistano cose notevolissime, per dire, nel campo del ballo liscio così come nel teatro sud-tirolese, ma non posso seguirle a dovere e se non si segue assiduamente non si acquisisce il bagaglio tecnico necessario a comprendere e discutere

Ma quanto sarà stupida, miope e categorica – nonché priva di bagaglio tecnico alcuno – la persona che userà quel database per definire il proprio feudo, dettare le regole, decidere chi è dentro e chi è fuori?
E siamo davvero sicuri che questa persona sia solo un parto della mia personale paranoia?

Perché di fatto basta che il progetto diventi abbastanza grande, da rendere necessari degli amministratori, dei guardiani dell’ordine, dei responsabili, perché fra costoro emerga un governatore feudale.
Persona magari animata dalle migliori intenzioni – come ad esempio dire “dovendo scegliere, preferisco privilegiare chi si dà da fare piuttosto che quelli che non si muovono”.
Politica degnissima ma, appunto, politica.

Il frankenfurtheriano “It was great when it all began” è il grido di dolore al cuore di diecimila scissioni, di diecimila guerre di successione, di diecimila spartizioni del territorio noi-stiamo-di-qua-voi-state-di-là.

Ciò che sta nascendo come database di riferimento per tutti coloro che vogliano tenersi aggiornati sull’evoluzione del genere horror nel nostro paese rischia di diventare, in capo a tre o cinque anni, complice un boom del genere già previsto da chi osserva il mercato, nella base del potere di una cricca – l’ennesima cricca.
Che istituirà il suo premio che verrà assegnato solo ai membri della cricca.
Che deciderà chi pubblica e chi no.
Che curerà le antologie.
Che sarà la faccia del genere nel nostro paese.
Fino a che il fenomeno non si sgonfierà, per le naturali leggi di avvicendamento nei gusti del pubblico – e allora loro si sposteranno sulla fantascienza, o sul fantasy, o sui libri di cucina.
Perché, creato per tenere fuori dal sistema i mercenari, il database rischia di diventare un’arma proprio nelle mani di quei mercenari, o dei loro padroni.
Che hanno gli amici giusti.
I contatti giusti coi media.
La giusta fan-base.
E se a te le cose non vanno, vecchio mio, beh, spiacente, loro hanno la lista, e sulla lista tu non ci sei.
La tua voce non verrà ascoltata.

Oppure, come è già accaduto con altri progetti, l’intera iniziativa verrà maginalizzata.

Ma certo, io sono solo uno che scrive storie di fantascienza che nessuno legge, ed ho la tendenza ad essere pessimista.
Spero davvero che l’iniziativa di Elvezio Sciallis serva a creare una comunità dell’orrore e riesca a tenerne fuori i mercenari ed i manipolatori.
Io però me ne chiamo fuori prima.
Sarò ben felice di aiutare Elvezio a costruire il suo castello, e se sarà possibile di visitarlo come ospite di tanto in tanto, riservandomi il diritto di criticare le tendine alle finestre o il fatto che ci si mangi sempre e solo vegetariano.
Ma non mi ci stabilirò.
Perché è importante che qualcuno resti fuori.
Perché le fortezze che creiamo per proteggerci spesso diventano la nostra prigione.

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Aiutate chi si affanna

Chiamata alle armi sul sito Malpertuis.
yog-sothothStando ad Elvezio Sciallis, osservatore attento del fenomeno, un’ondata di orrore da pochi soldi si prepara ad abbattersi su di noi, complice la popolarità del genere nei momenti di crisi, alcuni recenti successi di botteghino al cinema e in libreria, e la tendenza a riciclarsi di certi nomi “ad elevata persistenza” nel nostro panorama letterario popolare.

Li conoscete: hanno fatto i giallisti di professione, cavoli, il noir, ragazzi, era la lente attraverso cui sbirciare e riflettere sui cambiamenti della realtà, wow!
Alcuni hanno bazzicato anche nella fantascienza, certi, chissà, si scopriranno anche grandi cantori del fantasy. Figurarsi se, non appena annuseranno il potenziale, non spergiureranno che l’horror è sempre stato il loro genere, che loro “sono nati horror”, capite?

Il rischio, come davanti a tutte le inflazioni, è che il pattume nasconda ciò che di buono è stato fatto e viene fatto nel nostro paese.

E sforneranno un immane mare di cazzate, di romanzi di merda scopiazzati e ispirati dalla generale idea che hanno loro di horror.
Andrà già bene se questi mercenari avranno letto due robe di King e due di Lovecrat. I più audaci, madò, avranno anche letto Barker…

Se il fantastico nel nostro paese è polverizzato e spalmato su un amplissimo spettro, diviso da faziosità e parrochialismi, odi privati e pubblici e la solita, insopportabile abitudine italiana di etichettare politicamente tutto – per cui “non darò spazio all’antologia curata da XXXXXX nel mio programma radiofonico, perché XXXXXX è un comunista/fascista/anarchico/vegetariano/tifoso della Provercelli
Se il fantastico italiano soffre di tutti questi vizi, dicevamo, l’orrore sovrannaturale, che del fantastico è provincia, non naviga in acque migliori.

Ma davanti all’avanzare della marea nera, è forse il caso di mettere da parte certe sciocchezze e organizzarsi.

Arona, leggerete domani, pone l’accento sulla mancanza di unione, di coesione, di collaborazione e interscambio fra autori, editori, fan, siti e chi più ne ha più ne metta.
Manchiamo di una scena.

Amen.

Invito tutti i miei lettori a fare un salto sul sito di Malpertuis, e dare un’occhiata al nucleo che Elvezio ha creato, ed attorno al quale qualcosa di solito potrebbe sorgere.

Una pagina, listata nel menù generale qui a destra, che raccolga i link più importanti nel campo dell’horror italico. Mettendo da parte sia ogni considerazione utilitaristica (un link in cambio di un link) sia ogni mia valutazione qualitativa sull’operato di alcuni siti e persone. Questo non andrà a modificare la mia sezione link vera e propria, ovviamente.

Se potete, contribuite.
Magari non domani, ma nei prossimi giorni, o mesi.

Negli Stati Uniti, la Horror Writers Association è nata su premesse ben più labili.
Ora resta solo da vedere se i frequentatori del fantastico, e dell’orrore in particolare, nel nostro paese sono degli intelligenti creatori e fruitori di arte e intrattenimento, o la solita accozzaglia di patetici minchioni isolazionisti.

La palla è in campo.
Tocca giocare.

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