strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


3 commenti

Stardust Memories

OK, primo post sulla Mostra di Grafica Giapponese e relativo convegno torinese, più eventi collaterali.
Si tratta di appunti privati, spero capirete, e quindi non rappresentano in alcun modo la linea ufficiale dell’organizzazione degli eventi – né si deve presumere in alcun modo che gli altri curatori, gli sponsor, i supporter, i fiancheggiatori e i complici condividano le mie opinioni.
Questo è il mio blog, e parlo di ciò che mi pare.
Se non vi piace – ci sono un sacco di link qui a sinistra, tutti eccellenti…

Detto ciò, parliamoci chiaro – è difficile esprimere un giudizio oggettivo su un’artista che, oltre a vantare trent’anni di carriera stellare, è anche responsabile di aver indelebilmente influenzato l’immaginario sessuale di una generazione.
A scala globale.
Il primo post della serie non può che essere dedicato alla Greta Garbo dell’illustrazione nipponica, Akemi Takada.

Onestamente, se da una parte la presenza di Akemi Takada (Akemi Takada!) ha rappresentato uno dei picchi (molti) dell’intero ambaradan, è innegabile che la presenza dell’artrista dietro a titoli popolarissimi come Kimagure Orange Road, Urusei Yatsura, Maison Ikkoku o Patlabor è stata una discreta fonte di apprensione.
Quanta gente verrà ad assistere alla dimostrazione di pittura live dell’artista?
Riusciremo a mantenere l’ordine?
Ci saranno problemi per la sessione autografi?
Dovremo fronteggiare la furia degli otaku?

E lei?
Sarà imperiosa e altera come una regina delle favole, o alla mano come gran parte degli autori ed artisti coi quali abbiamo finora avuto a che fare?

Nessuna suspance – davanti ad un centinaio di appassionati, la dimostrazione live di pittura si è svolta senza intoppi, con un paio di momenti esilaranti (la morra cinese usata per decidere a chi sarebbe toccato uno degli acquerelli creati ad hoc), un buon livello di domande da parte del pubblico, ed una sessione autografi incredibilmente misurata.
Ma immagino che i fan fossero intimiditi almeno quanto l’organizzazione.

È stata una grande esperienza didattica.
Una colossale dimostrazione di professionalità.
E poiché io non sono in grado di disegnare neanche per salvarmi la vita, se non posso imparare nulla della tecnica grafica dell’artista, posso prendere appunti sul suo stile professionale, e imparare di lì.
E ci sono alcune parole chiave in questa faccenda che vale la pena di sottolineare.

Controllo.
Da una parte, c’è lo straordinario controllo che l’artista dimostra verso la propria tecnica, fatta di pennelate economiche e rifiniture di dettaglio che in pochi minuti trasformano un bozzetto in un’opera finita (per i lavori professionali, rivela l’artista, ci vogliono di fatto almeno tre giorni).
Dall’altra c’è l’ammirabile controllo che l’artista esercita su tutto ciò che riguarda la sua attività – dal rapporto con i fan, al controllo della propria immagine, al dominio quasi inconscio esercitato sull’area di lavoro.
Una parte di questo controllo può essere letto dal fan come un muro, una barriera – niente foto dei fan, foto della stampa pubblicate solo previa approvazione dell’artista, commenti critici sulla bassa qualità delle riproduzioni dei suoi lavori pubblicate sui giornali in occasione dell’evento…
Eppure si tratta di richieste ovvie, da parte di una professionista ben conscia di come l’immagine, personale e creativa, sia la prima moneta spesa col pubblico, e la più importante.

Rispetto.
L’impressione (e con questo non vogliamo offendere nessuno) è che Akemi Takada rispetti i propri fan molto più di quanto i suoi fan rispettino lei.
E non parlo, naturalmente, delle decine di persone sistemate nell’auditorium dell’Accademia Albertina, quanto dei molti assenti eccellenti – che dopo anni che ci martoriavano con lunghi incessanti sproloqui su Madoka e Lamù e Creamy, recitando chilometrici titoli in giapponese, svolgendo analisi esegetiche su serie, OAV, film, art-book… se ne sono stati rintanati nei propri rifugi da otaku, a ripetersi reciprocamente che tanto l’avevano già vista a Lucca, che tanto era tutta una bufala, che comunque se l’avessero fatto loro sarebbe stato meglio, che si aspettavano un invito visto il loro ruolo nella scena nazionale…
Akemi Takada accetta con grazia anche le domande più trite (“Ah… tutti mi chiedono sempre quale sia il mio personaggio preferito”), sia che autografi un volume, sia che chiami le puntate alla morra cinese, sola sul palco “Yan… ken… pow!”.

Spirito.
La graziosissima giovane donna al mio fianco (staff, not fan) occhieggia Akemi Takada con una freddezza tutta femminile e le dà qualcosa di più di trent’anni.
Pochi minuti dopo, l’artista ammetterà che, con trent’anni di attività alle spalle, ormai gli editor sano cosa aspettarsi da lei quando le commissionano il lavoro – ribadendo con grazia il proprio status e disintegrando la valutazione sull’età appena formulata.
Ma è facile sbagliare la mira sugli anni, consioderando la curiosità e lo spirito che la pittrice giapponese proietta mentre al tavolo completa il suo acquerello.
Quante volte lo avrà già fatto?
Cento?
Mille?
Quanti milioni di fan le si saranno accalcati attorno, nel corso degli anni?
Sarebbe facile, credo, innestare il pilota automatico – ma una palpabile curiosità anima l’artista (condizione necessaria e sufficiente?), che evidentemente riesce a scoprire l’unicità dell’evento nonostante l’ovvio deja-vu.
E dopo ha ancora la forza e lavoglia di assistere all’ultima conferenza della giornata, e fare fotografie.

Incredibile.

Flashback – 1992
Marzo.
Sono seduto in una stanza d’albergo con una manciata di altri apassionati di animazione e fumetti.
Sul video passa una selezione di episodi di Kimagure Orange Road.
Un cartone animato che non mi piace granché, complice la criminale edizione in lingua italiana, nonostante vanti un solido, fortissimo personaggio femminile.
Fuori piove, ma fuori è molto lontano.
Animecon – la Con in the Pocket di Sheffield, 1992.
Sono stanco.
Piuttosto disorientato.
Drasticamente solo.
I sottotitoli sono autoprodotti.
Ci sono altre sette o otto proiezioni in corso.
Sono qui solo per ammazzare il tempo finché non comincerà il film di Mystery of Blue Water – che si rivelerà una ciofeca.
Sono seduto fra una ragazza vestita come Capitan Harlock ed un tizio con il cappellino dell’ESWAT di Olympus.
Kimagure Orange Road è popolarissimo.
Akemi Takada è dio per molta di questa gente.
Se qualcuno mi dicesse che fra 18 anni le darò il benvenuto a Torino ed all’Accademia con una souvenir di cioccolato fondente, dubiterei seriamente della sua salute mentale.
Non che sia troppo sicuro della salute mentale degli astanti comunque.

E invece eccomi qui.
Non ho un fumetto, un art-book o un poster da farmi autografare da Akemi Takada.
Ma ho il suo biglietto da visita.
E lei ha una mia foto.
Chissà che un giorno o l’altro io non abbia l’opportunità di autografargliela.