Wikipedia, che sto consultando per avere a portata di mano i nomi delle persone coinvolte, mi dice che Everything, everywhere, all at once, è una absurdist comedy-drama.
E chi sono io per dubitarne?
Però il film dei Daniels non è poi così assurdo – ed è anche un film di fantascienza che mette in campo delle ottime idee. Ed è anche un film di arti marziali, e un dramma familiare.
È anche, per il momento, e per quel che mi riguarda, il miglior film dell’anno.
Un film che ti coinvolge emotivamente con una scena su due sassi, deve essere per forza il film migliore dell’anno.
Una scena muta, su due sassi. Perché sono sassi, giusto?
Riassumere la trama potrebbe essere complicato.
Cominciamo col dire che questo è un film di due ore e venti, e non c’è un singolo minuto sprecato.
Evelyn Quan Wan (Michelle Yeoh) gestisce una lavanderia a gettone e ha un sacco di problemi – tasse inevase, difficoltà di comunicazione con il marito e la figlia, un padre invadente. La sua vita sta andando a rotoli, e il suo matrimonio sta per finire.
Evelyn è anche l’unica persona che possa salvare il multiverso, come la informa la variante parallela di suo marito Waymond. Essendo una persona estremamente mediocre che ha fallito in tutto ciò che ha provato a fare, Evelyn è infatti nella posizione ideale per shiftare lungo i percorsi delle mille vite alternative che avrebbe potuto vivere se fosse andata diversamente.
La prima sensazione, nell’avvicinarsi a Everything, everywhere, all at once, è quella di essere sopraffatti. I primi dieci minuti ci rovesciano addosso senza filtro la vita quotidiana di Evelyn, ed è facile capire come lei si possa sentire soffocata da questo carico continuo di responsabilità e richieste, e dal senso di non sapere cosa stia succedendo.
Poi la situazione si fa molto più frenetica, e molto più difficile da capire.
Il che non vuol dire che questo sia un film confuso – nel momento in cui ci tuffa nell’esistenza della protagonista, il film non ci abbandona mai. Sappiamo sempre dove siamo, e cosa sta succedendo.
Dobbiamo solo cercare di mantenere in movimento tutte quelle parti diverse.

E sì, il film è selvaggiamente citazionista – c’è la sequenza “alla maniera di Jackie Chan”, c’è la sequenza “stile Shaw Brothers”, c’è la sequenza “alla Quentin Tarantino”, la sequenza “alla maniera di Wong Kar Wai.”
C’è persino un feroce sberleffo alla buonanima di Stanley Kubrick.
Ma io credo sarebbe sbagliato dare troppo peso al citazionismo.
Questo film non è bello perché i due registi e sceneggiatori clonano perfettamente la fotografia di Christopher Doyle.
Non è geniale perché riporta sullo schermo Ke Hui Quan, che dopo The Goonies l’avevamo perso di vista.
Non è il più grande film di tutti i tempi per la scena col volpino pomerania.

Sono tutti dettagli interessanti, certo, e divertenti, e Ke Hui Quan è un attore fantastico, ma questo film sarebbe nulla senza i temi che tratta, ed il modo in cui li tratta.
Perché è bello vedere un film, nel 2022, che affronta quella che alcuni hanno definito “l’era del sentirsi sopraffatti” (the age of overwhelm), mettendo sui piatti della bilancia le nostre risposte, a questo senso di inadeguatezza universale – l’ansia, il cinismo, il nichilismo, il senso del dovere, la gentilezza.
Per cui alla fine è anche un film filosofico, Everything, everywhere, all at once.
E ci sta, perché è un film di fantascienza, fatto bene.
E c’è chi può discutere meglio di me della regia, della fotografia, del montaggio e della colonna sonora – che sono tutti ottimi, e mi fermo qui.
Ed il cast, che è meraviglioso.
Per il momento, questo è il miglior film del 2022, ed un film molto difficile da battere.