Come è andata a finire?
Come molti pessimisti avevano previsto.
[era un po’ che la signora in verde non si faceva vedere su queste pagine]
La conferenza di Copenhagen era stata caricata da un eccessivo investimento emotivo da parte di troppi individui e gruppi perché ilrisultato finale potesse soddisfare tutti.
Alla fine ha soddisfatto la classe politica e prbabilmente quella imprenditoriale-industriale, lasciando tuttavia parecchie perplessità nel resto della popolazione.
L’accordo (cinque paginette, potete scaricarvelo dal sito della BBC, se volete) ruota attorno ad alcuni punti piuttosto interessanti
- Non c’è alcun riferimento ai vincoli legali dell’accordo – sottoscriverlo non significa avere l’obbligo legale di soddisfarne le richieste
- Viene riconosciuta la necessità di limitare la crescita delle temperature a 2° centigradi al di sopra dei livelli preindustriali
- I paesi più sviluppati si impegnano (per modo di dire, vedi punto 1) a “fissare l’obiettivo di mobilizzare congiuntamente 100 miliardi di dollari entro il 20120 per soddisfare le necessità dei paesi in via di sviluppo”
- Le nazioni emergenti si impegnano (…) a monitorare le proprie emissione ed a fare rapporto ogni due anni alle nazioni unite. Saranno possibili controlli internazionali.
- Non c’è alcun approccio strutturato alla questione del carbonio – verranno prese in considerazione “varie possibilità”
Cosa diavolo sta succedendo?
Facciamo un rapido riassunto per chi era troppo occupatoper seguire l’intera faccenda.
Il pianeta sta attraversando una fase di riscaldamento globale. Le temperature medie aumentano, con conseguenze gravi sul sistema planetario – eventi climatici anomali, destabilizzazione degli ecosistemi, carestie (con il loro corollario di guerre e movimenti di profughi) e quant’altro.
È colpa nostra?
Probabilmente sì – i dati indicano chiaramente che il trend di crescita anomala delle temperature si è innescato con l’inizio dell’era industriale.
Non siamo ancora in grado di descrivere completamente il come noi si sia responsabili, semplicemente perché le interazioni dei “blocchi” che compongono il Sistema Terra sono troppo complesse per poter esere modellizzate con sufficiente dettaglio.
Insomma – il pianeta si sta scaldando.
Conseguenza immediata – l’ambiente nel quale la nostra civiltà si è sviluppata ed ha prosperato sta per cambiare radicalmente.
Scordiamoci per un momento dei panda, degli orsi polari o dei merluzzi.
Che vadano all’inferno, animali schifosi.
Ciò che qui è in gioco non è “salvare il mondo” – per certe cose ci vuole, per lo meno, Flash Gordon.
Ciò che qui è in gioco è salvare la nostra civiltà. Che suona sempre come qualcosa di preso da un romanzo di Edmond Hamilton, ma è decisamente più facile da fare.
La logica – pratica antica ma sempre utile – ci dice che il modo migliore di affrontare il problema è su due fronti.
Da una parte, cercando di mitigare a nostra azione di alterazione del sistema.
Dall’altra, cercando di adattare la nostra civiltà alle nuove condizioni, in modo che la transizione non sia drastica e, probabilmente, traumatica.
La parte divertente, ovviamente, è che a ben guardare le azioni necessarie a mitigare il nostro impatto sono molto simili, se non le stesse, necessarie ad adattare il nostro stile di vita alle condizioni in divenire.
Bello liscio.
Via allora a Copenhagen, tutti seduti nella stassa stanza, a fare il punto della situazione.
Che non è proprio un bel punto: ci troviamo su un pianeta sovraffollato, sul quale la principale fonte di energia è in rapido esaurimento (e mano a mano che si esaurisce, si fa più costosa ed inquinante), mentre di pari passo il sistema si allontana dallo stato ideale.
C’è stata tuttavia una grave svista – a Copenhagen ci abbiamo mandato i politici.
Ora, la paura di una fetta consistente della popolazione dei paesi industrializzati è che le azioni necessarie a correre ai ripari comportino un abbassamento dello stile di vita; è la classica paura degli americani, che vedono nell’allarme climatico un complotto “per obbligarci tutti a diventare come gli europei, poveri, con automobili piccole e case in affitto”.
Più realistico è il timore che le azioni necessarie a correre ai ripari comportino una spesa colossale – soldi pubblici, che usciranno dalle tasche dei cittadini.
Considerando entrambe le paure, difficilmente una maggioranza di governo prenderà le necessarie decisioni per avviare tali azioni, in quanto comporterebbe una perdita di popolarità e la quasi certezza di venire rimpiazzati alle prossime elezioni.
Né tale maggioranza godrebbe dell’appoggio del sistema economico-industriale, che si vedrebbe condannato ad un progressivo downgrading, o ad un costosissimo reindirizzamento delle produzioni, con in più il rischio che qualcun’altro ne approfitti e si accaparri una fetta del mercato.
Sul fronte opposto, i paesi in via di sviluppo vedono nei provvedimenti necessari a mitigare l’impatto ambientale un freno al proprio sviluppo economico ed industriale. Questi paesi possonopermettersi solo processi schifosi e velenosissimi per produrre energia ed alimentare le proprie nascenti industrie, ma il fatto che questo ci stia ammazzando tutti non pare loro un motivo sufficiente per rinunciare ad avere oggi ciò che noi abbiamo avuto nel 1954.
Ed una maggioranza di governo che ha nella crescita economica il maggior punto di forza della propria campagna, difficilmente farà i passi necessari per ridurre tale crescita.
Il diritto di queste nazioni alla crescita irresponsabile viene di solito difeso con una dubbia miscela di pietismo e rivalsa post-terzomondista che a tratti deraglia nel ridicolo: “siamo stati vostre colonie per un secolo ed ora volete impedirci di essere obesi, cardiopatici e stressati come voi!”
Il risultato è perciò una schizofrenia di fondo – tutti concordano che le cose debbano cambiare, e in fretta, ma nessuno vuol prendersi la responsabilità di prendere delle iniziative serie e pervasive affinché le cose cambino.
Pessima idea, mandare a Copenhagen i politici.
Oh, se ci avessimo mandato gli industriali non sarebbe stato meglio, certo.
Il risultato è un accordo non vincolante che sostanzialmente ha lo scopo di rendere il problema della crisi climatica un problema di qualcun’altro.
Da qualche parte, laggiù, nel futuro.
Attorno al 2020, uando ci sarà certamente un nuovo presidente alla Casa Bianca, quando l’economia dell’India e della Cina sarà cresciuta di un paio di tacche, quando gli abitanti delle Mauritius avranno sviluppato le branchie o saranno emigrati – come stanno emigrando i popoli dell’Africa subsahariana, per gli stessi motivi climatici.
Ma consoliamoci.
L’accordo sarà anche non vincolante, ma le nazioni che hanno partecipato a Copenhagen non lo hanno adottato.
Si sono limitate a “prenderne nota”.
È molto grave quando una conferenza come quella di Copenhagen va a gambe all’aria, e neanche i negazionisti hanno la forza di ridere.
Eppure, neanche gli scettici hanno avuto la faccia di farsi avanti e dire “Visto, tutte baggianate!”
Anche perché si sono probabilmente resi conto dei rischi che avrebbero corso.
Se a qualcosa è servita, Copenhagen è servita a dimostrare che non ha alcun senso attendere che qualcuno prenda la decisione di salvarci.
Tocca rimboccarsi le maniche e, ciascuno nel proprio piccolo, cominciare a lavorare.

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