Oggi niente musica, solo un bel po’ di buone idee.
Buona domenica.
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Ecco, perché!
Ieri ho spedito A Spider with Barbed-Wire Legs all’editor in America.
La prima stesura è andata, ora vedremo cosa succede.
Intanto, ho cominciato a mettere giù le prime 1000 parole della storia che andrà sul prossimo Alia – e che conto di chiudere molto in fretta.
Non perché io intenda dedicarle meno tempo del necessario, o lavorare alla svelta, ma semplicemente perché, una volta definita l’idea di partenza, una volta definito di cosa io voglio parlare e come, la storia ha cominciato a correre.
Ne ho scritte 1000 parole dopo cena ieri sera, semplicemente perché sto scrivendo con una tastiera che pare di legno.
Ma non è della mia storia ancora senza titolo che voglio parlare – quanto piuttosto di quella cosa che ho detto sopra
di cosa io voglio parlare e come
Che è poi qualcosa che si ricollega al discorso fatto nelle settimane pssate – sul perché scrivere fantasy.
E anche se la storia per Alia sarà di fantascienza molto hard – l’abbiamo già detto, vero, che ai fini di queste discussioni, la fantascieza la consideriamo un sottogenere particolare del fantasy?
Bene.
Allora, cos’è ‘sta storia del voler parlare di qualcosa, in qualche modo? Continua a leggere
Lettori e Controllo
La discussione è cominciata ieri su facebook, partendo da una osservazione del mio amico Elvezio Sciallis.
Poi,come capita di solito su facebook, siamo finiti a impegolarci a parlare di balene*, e quindi la cosa, per quel miriguarda, è rimasta mal definita ed espressa male.
L’idea di partenza – si propone di dare più controllo al pubblico sui programmi televisivi.
Lo propone Kevin Spacey, ma questo è un dettaglio.
Da qui si passa ipotizzare che “dare ai lettori ciò che vogliono” non sia una buona politica.
Poi arrivano le balene, ma noi fermiamoci qui, e proviamo un pork chop express.
È davvero sbagliato “dare ai lettori ciò che vogliono”?
Più in generale, quanto controllo deve avere il pubblico sull’opera dell’autore?
Metto giù quelche idea, soprattutto per chiarire le mie, di idee.
La tirerò per le lunghe e non posso garantire che ciò che seguirà sarà un discorso coerente.
Siete stati avvisati.
Partiamo dalla prima questione – “dare ai lettori ciò che vogliono”.
La mia tesi è la seguente – se non dò ai lettori ciò che vogliono, i lettori non mi leggono.
Quindi, è indispensabile che io dia ai lettori ciò che vogliono… o se preferite (e forse sarebbe meglio) ciò di cui hanno bisogno.
Perché magari lo vogliono, ma ancora non lo sanno.
In altre parole – quando scrivo devo avere un pubblico di riferimento, e devo soddisfare le sue aspettative.
Attenzione, non ho detto blandirle, assecondarle o subirle – ho detto soddisfarle.
Qui entrano in gioco due fattori.
. da una parte, il mio rispetto, come autore, per il mio lettore di riferimento – che presumo desideri da me il meglio, ed al lato migliore (intellettualmente o emotivamente) del quale io intendo appellarmi
. dall’altra, la mia capacità, come autore, di soddisfare le aspetattive profonde del lettore al contempo spiazzandolo o sorprendendolo. Continua a leggere
Un’apocalisse fatta in casa
Ok, cominciamo da relativamente lontano.
Ho visto il primo episodio di una cosa che si chiama Revolution, e che fa più o meno così…
Non è male.
Ci sono alcuni elementi che mi fanno infuriare (vogliamo parlare della ragazzina bionda che gira per le terre desolate con la magliettina che le lascia scoperto l’ombelico?), ma promete bene.
Non è originalissimo, ma questo non ha grande importanza.
I riferimenti principali sono – io credo – a Dies the Fire di S.M. Stirling, e io spero che alcune vibrazioni colte qua e là che mi ricordano The Postman di David Brin non siano solo una mia illusione.
C’è anche, in tracce, il classico e straordinario Fitzpatrick’s War, di Theodore Judson, uno steampunk canadese molto molto insolito.
Ma non è di una serie TV che chissà che fine farà (sapete come succede), che voglio parlare, ma di giochi di ruolo.
O, nella fattispecie, di come questo episodio solitario di un telefilm, richiamando alla mia memoria i libri di Stirling e Brin e Judson, mi abbia fatto venir voglia di mettere in piedi una bella campagna di questo genere*.
Vediamo di mettere insieme i pezzi… Continua a leggere
Complicata, noiosa e morta da trent’anni
Qualche sera fa, su un canale televisivo nazionale, un noto autore di letteratura d’immaginazione nostrana mi ha spiegato che la fantascienza non tira più perché ormai
a . è troppo complicata
b . è troppo noiosa
c . da trent’anni non emergono nuovi autori validi
Se lo avesse detto un qualsivoglia signor nessuno (un blogger come me, per dire), la cosa farebbe semplicemente ridere, e sarebbe sintomo di scarsa dimestichezza con ciò di cui si vuol parlare.
Il fatto che si tratti dell’opinione divulgata pubblicamente di un autore piuttosto popolare ed apprezzato è francamente inquietante.
Ancora di più se aggiungiamo che la stessa trasmissione televisiva ha passato nelle settimane precedenti opinioni simili ventilate da uno dei curatori della maggiore rivista di fantascienza nel nostro paese, e dal principale editore di genere nel nostro paese.
L’ennesimo necrologio del mio genere d’elezione mi sorprende in particolar modo in questa lunga estate calda.
Perché mi basta spegnere il televisore e guardare cosa ho sul mio scaffale in lista di lettura, appena finiti o pronti per essere incominciati…
Quattro libri. Continua a leggere
Scimmie, delfini ed altri terrestri
Nuova settimana, il piano bar del fantastico continua a lavorare a pieno regime (dovremo ingaggiare un paio di cameriere per servire ai tavoli) ma questa settimana si cambia dominio.
Basta col fantasy, per un po’ – anche perché s’è visto che se passiamo parlare, dalla solita heroic fantasy con gli elfi a qualcosa di più sofisticato, vi zittite tutti.
Cerchiamo allora di farci degli altri nemici parlando di fantascienza.
Quella vera.
Abbiamo tre belle richieste sul tavolo, cortesemente presentate da Giuseppe, e nientemeno che Asimov, col quale Francesco ha rilanciato, e quindi, per carburare, cominciamo con quella più facile.
Che è anche la più difficile, forse.
Cominciamo con l’Universo dell’Uplift, di David Brin.
Cosa fare dopo il diploma
Una specie di inaspettato ma benvenuto seguito al discorso sull’essere soli – nell’universo e a scuola…
Interessante filmato di David Brin, su come selezionare un indirizzo universitario, come sopravvivere all’università e diventare persone complete.
Include il famoso metodo dell’esplorazione casuale dell’edificio universitario – fantastico!
Facendo le debite proporzioni e valutate le differenze fra sistema italiano e sistema americano, sottoscrivo in pieno.
Non limitarsi alle gratificazioni immediate.
Cercare la sfida.
Diventare esperti in un aspetto della nostra materia.
Mantenere vive passioni ed hobby.
Non permettere alla struttura di incasellarci.
È tutta questione di atteggiamento e di curiosità.
Alla via così.
Ostinato trogloditismo
Lungo post, la notte passata, sul blog di David Brin, che per una caso di pura sincronicità si ricollega ad un post scovato in India pochi giorni or sono, e stimola un pork chop express.
Si celebra questo mese il cinquantesimo anniversario della famosa Rede Lecture di C.P. Snow, nella quale venne delineata per la prima volta in maniera precisa la divisione delle Due Culture, sulla base di differenti linguaggi, differenti atteggiamenti mentali, differenti assunti di partenza.
A partire da quella conferenza si cominciò a delineare l’idea di una Terza Cultura, che potesse fungere da ponte fra le due – in modo che umanisti e scienziati potessero essere in grado di comunicare.
Pare che non abbia funzionato.
Oh, badate, la Terza Cultura esiste, sta bene e vi saluta tutti.
Il piccolo problema è che non si tratta della Terza Cultura ipotizzata da Snow.
Non è insomma il punto d’incontro di umanisti e scienziati, sulla base di un linguaggio e di una impostazione mentale comune.
Il motivo?
Semplice: gli umanisti si sono rifiutati di giocare.
Perciò, come sottolinea il profeta della Terza Cultuta, John Brockman
The third culture consists of those scientists and other thinkers in the empirical world who, through their work and expository writing, are taking the place of the traditional intellectual in rendering visible the deeper meanings of our lives, redefining who and what we are. Increasingly, The Third Culture has moved into the mainstream and the questions it is asking are those that inform us about ourselves and the world around us.
Il fatto che si siano rifiutati di giocare, naturalmente, non impedisce agli umanisti di essere incacchiati come furetti alla perdita (o minaccia di perdita) di quello che hanno sempre considerato un proprio primato.
Il fatto che scienziati – rudi meccanici che passano le proprie vite a scrutare il moto degli astri o a contare animali morti – possano esprimere opinioni su filosofia, arte o cultura, arruffa loro le penne in maniera egregia, e chiunque abbia incontrato nella sua vita un tacchino infuriato si rende conto di quanto pericoloso possa essere un laureato in lettere col panico che un chimico gli possa portar via il giocattolo preferito.
A partire da queste considerazioni, Brin ci mette del suo
High-end scientists do tend to be vastly more agile and forward-looking thinkers, than their counterparts in almost any other field of endeavor. Instead of narrowly-specialized “boffins,” those at the top of their fields seem to be smarter, more-broadminded and deeply curious than anyone else alive. The reason for this is so astonishingly simple that it seems to have escaped notice. It has nothing to do with any intrinsic superiority of scinetific minds.
Il motivo, spiega Brin, è da ricercarsi probabilmente nell’impegno che una carriera in ambito scientifico richiede.
Non ci si può occupare di scienza nel tempo libero – mentre altri interessi, parimenti dignitosi, e riferibili alla sfera delle humanities possono trovare spazio nel tempo libero.
Indeed, nearly all of the top scientists I’ve met (and I know many) also nurtured impressive artistic hobbies and passionate avocations, at near-professional levels. They bridge the gap not as invaders from science but as brilliant people who never accepted the existence of any gap, in the first place!
Insomma, se gli umanisti si sono rifiutati di giocare, è anche molto probabile che gli scienziati abbiano accettato inconsapevolmente di giocare e – essendo gli unici in campo – abbiano vinto per questo motivo.
Meanwhile, the intellectual curse of vapid, simpleminded postmodernism has been slow to dissipate from hundreds of university English, Literature and social studies departments. One symptom of this obdurate troglodytism has been the refusal of all but a dozen U.S. universities to pay more than nodding attention to science fiction, the most exploratory and truly American of all genres. Another diagnosable illness is the slavish devotion that so many have pledged to the rigid storytelling tropes that Joseph Campbell called “fundamental” to myth.
Ma a parte questa simpatica polemica che è garantita per andare contropelo alla manciata di allegri umanisti (ostinati trogloditi tutti quanti, ma in fondo benevoli) che talvolta hanno la ventura di capitare su questo blog, ciò che mi interessa in particolare del post di David Brin è l’idea che un sistema educativo che permetta agli studenti “orizzonti laterali di interesse” – o, se preferite un termine meno idiosincratico, un sistema che favorisca l’interdisciplinarità – sia preferibile ad uno che tenda ad approfondire un ambito ristretto e specialistico.
Da questo punto di vista, sulla carta per lo meno, il sistema americano risulta superiore a quello europeo – che tende ad avere corsi di laurea più focalizzati e approfonditi.
Non stiamo qui a discutere dei meriti di Harvard rispetto ad Oxford o altre simili baggianate – anche il sistema universitario italiano, sulla carta è un capolavoro, epoi si rivela essere una bolgia infernale nella pratica.
Parliamo dell’impostazione mentale.
È in fondo una questione della forma che si vuole dare alla propria cultura – se ampia e superficiale o profonda ma ristretta.
Possiamo ammettere senza campanilismi che, in ambito scientifico, l’Europa forma degli eccellenti specialisti (che non per nulla stanno popolando i laboratori del globo) mentre gli Stati Uniti producono degli eccellenti generalisti, dei validi mediatori interdisciplinari.
L’ideale, ovviamente, sarebbe una competenza a forma di T – ampia e approfondita.
Ma costa – in termini di tempo, impegno, danaro.
E spesso viene scoraggiata.
Qui da noi, ad esempio.
Attivamente.
Se per lo studente delle elementari e delle medie è male avere troppa immaginazione, per lo studente universitario è male avere troppi interessi.
Specie se questi interessi hanno un carattere extracurricolare.
È forse anche per questo – la butto lì tanto per stimolare la polemica – che i buoni scrittori di fantascienza, in Italia, si contano sulla punta dei pollici – perché chi si è costruito una solida cultura scientifica (il bacino principale di sviluppo della maggior parte dei grossi nomi della SF anglosassone e non solo) è stato attivamente scoraggiato a frequentare anche ambiti “artistici”.
Ed è forse sempre per questo motivo che molti di coloro che si occupano professionalmente di fantascienza dimostrano un curioso disprezzo – o per lo meno un’aria di superiorità ingiustificata – nei confronti del loro genere d’elezione.
E per cambiare registro – è forse per quessto che il livello qualitativo dell’insegnamento, a tutti i livelli, è spesso tanto scarso: aver passato sei anni in università a tritare integrali tripli non è una garanzia di essere in grado di spiegare la matematica a degli adolescenti in piena tempesta ormonale.
Ma che si tratti di creare scrittori di fantascienza, comunicatori e divulgatori che non addormentino il pubblico o scienziati in grado di collaborare con esponenti di altre discipline, le cose non sembrano destinate a cambiare alla svelta – per lo meno nel nostro paese.
Se è vero che la Terza Cultura ha ormai vinto (semplicemente facciamo fatica ad accorgercene), è anche vero che nel nostro paese è stata picchettata e opzionata da pochi nomi celebri, con opportuno catalogo di noiosi bestseller, mentre il suo sviluppo viene attivamente scoraggiato in ambito accademico.
L’ostinato trogloditismo di cui parla Brin non è quindi appannaggio esclusivo dei docenti di materie umanistiche, ma di tutta la classe accademica (con le solite, poche eccezioni).
Mummificati e intombati.
Tutti presi da lunghe e vuote discussioni sull’eredità culturale di questo o quel riformatore che novant’ani or sono impose una sua visione alla cultura, e quella è rimasta, in altezzosa ignoranza dei cambiamenti avvenuti nel mondo reale.

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