Qualcosa di diverso, per la prima domenica dell’anno.
Musica, musica che piace a me.
Parlavo due o tre sere or sono con un’amica di musicisti inglesi.
Britten, Elgar… ci siamo scordati di Walton, Ireland, Tippett.
Di Delius e di Bliss!
E di John Rutter, compositore, arrangiatore e organista, il che è strano, perché è un autore che ha composto e arrangiato un sacco di Christmas carols.
Ma ha anche composto di meglio.
Questa è la Suite Lyrique di John Rutter – essenzialmente un arrangiamento per arpa della sua Suite Antique, per flauto – che non sono riuscito a trovare in un solo file su YouTube.
Parlavo l’altra sera con un amico, di musica, ed è venuta fuori la facenda che sono ormai quasi dieci anni che non tocco il flauto, se non per fargli la manutenzione minima.
Ed è un peccato, perché suonare mi piaceva, per quanto costasse fatica.
A interrompere la mia pratica ci sono state tante cose – dalla scomparsa delle persone con cui avrei potuto suonare, al fatto che il tempo è sempre meno, e a quel punto, dovendo sacrificare uno dei miei troppi interessi, il flauto è passato in secondo piano rispetto alla scrittura.
Però chissà, come buon proposito per il 2014 potrei anche decidere di riprendere in mano il mio vecchio Asahi malandato, e ricominciare a fare un po’ di musica – certo non sarei intollerabile come il batterista qui a due strade di distanza, che ci martoria tutti i giorni dalle cinque alle sette del pomeriggio.
Nel frattempo, visto che la scrittura ha per ora preso il sopravvento sulla musica, ecco una specie di top five sulle cose che ho imparato suonando il flauto, e che mi tornano utili scrivendo.
Facciamoci una specie di pork chop express.
Oggi vi tedio con una lista di cose che son venute fuori da un faldone che – dopo il primo trasloco del 2009 – io avevo dato per perduto in eterno, mentre era rimasto in un armadio a muro a casa di mio fratello.
Come sempre, nel guardare vecchi volumi allineati in un certo modo sullo scaffale (o nella scatola) si impara qualcosa…
Dalla scatola di cartone portadocumenti, emergono nell’ordine:
Microjazz – Flute Duets
Cosa me ne facevo, flautista solitario, di una raccolta di duetti?
Bah…
80 Years of Popular Music, The Jazz Era (Flute)
Una raccolta di arrangiamenti per flauto di pezzi degli anni ’20. Continua a leggere →
Acquistai il mio flauto traverso nel 1990.
Ero vecchio, per cominciare con uno strumento – per lo meno secondo l’opinione diffusa – ed avevo alle spalle una pessima esperienza musicale grazie ad un paio di insegnanti di musica semplicemnete incapaci incontrate alle scuole medie.
Non sapevo leggere la musica – se non a livello molto canino, da analfabeta.
L’unico strumento accessibile era la chitarra – il sistema era semplice: si entrava nei boy scout, eloro ti insegnavano a suonare la chitarra.
A me non piacevano i boy scout.
Il flauto aveva diverse attrattive.
Era portatile, molto più portatile di una chitarra.
Era esteticamente soddisfacente – il flauto di Boehm aveva tasti, meccaniche, un corpo di metallo argentato. È estremamente steampunk, come strumento, molto ottocento-hi-tech.
Era flessibile – ci si poteva suonare qualsiasi cosa, come sapevo avendo ascoltato per anni Nancy Hodder (rinascimentale), James Galway (classico), Herbie Mann (jazz) e Ian Anderson (rock).
E c’era un flauto usato, nella vetrina di un negozio di musica vicino a casa.
Una ragazza, mi spiegò il commesso del negozio, l’aveva comperato, e dopo una settimana l’aveva reso in cambio di una tastiera elettronica.
Lo portai a casa in cambio di sei mesi di risparmi, per quello che era, comunque, un prezzo stracciato.
Questo è un post imprevisto, e vagamente nostalgico*.
Oggi gira così.
Il Covent Garden di Londra è l’unica area cittadina nella quale sia consentita l’esibizione pubblica di artisti di strada – che in inglese si chiamano buskers, e che probabilmente hanno una radice etimologica dallo spagnolo “buscar”, il che sarebbe meravigliosamente rinascimentale, ma non ho voglia di controllare.
Ora pare sia più politicamente corretto chiamarli street performers.
Il Willey, indispensabile volume per sapere tutto di tutto riguardo alla capitale britannica dal Paleolitico ad oggi, mi traccia una storia avventurosa ed eccitante del Covent Garden, da orto del convento locale (da cui il nome) a parco, tenuta nobiliare, e infine mercato e quartiere a luci rosse durante la Restaurazione e giù giù fino all’attuale sistemazione vittoriana – del 1830 le strutture in mattoni rossi, del 1870 il tetto che copre l’area -, il mercato dei fiori di Mayfair Lady, e poi la decisione di demolire tutto nel 1973, l’insurrezione della popolazione locale, la nascita di una vasta area commerciale, i concerti, gli spazi disponibili per musicisti, cantanti, giocolieri, attori, saltimbanchi,animali ammaestrati, cartomanti e lettori della mano.
Si cercano un posto (la distribuzione dei posti viene negoziata democraticamente), fanno il loro numero, e la gente getta loro qualche moneta.