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ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Vivere nel Mondo Materiale

... che anche la foto, una sua attinenza, ce l'ha...

… che anche la foto, una sua attinenza, ce l’ha…

Comincio questo, che vuole essere un discorso generale, e che magari continueremo poi più in là, con una storia personale.
Sapete come sono fatto.
E intanto rubo, per questo pork chop express, il titolo a George Harrison.
Vediamo…

Ero da poco laureato, e per sbarcare il lunario – perché il lavoro di venditore d’auto usate non è che mi coprisse di denaro – facevo traduzioni.
Tutto regolare, con fattura, da bravo onesto cittadino.
Così mi capita questo lavoro di traduzione – tradurre in inglese il sito web di un’azienda.
Bello liscio.
Solo che l’azienda mi vuole nei suoi uffici, su uno dei loro computer, a tradurre, dalle nove alle cinque tutti i giorni.
Il che significa anche, naturalmente, farmi un’ora di macchina ad andare e tornare – e pagare il parcheggio per le otto ore canoniche.
Il tutto, per tre settimane.

Ora, il lavoro, naturalmente, l’avrei potuto fare da casa.
magari di notte – in modo da poter accedere a certe pagine del loro sito quando queste non erano impegnate per aggiornamenti di routine.
Il lavoro sarebbe durato di meno – dieci giorni anziché quindici – e sarebbe stato pagato allo stesso modo – perché il mio era un contratto a parole, non a ore lavorate.
Però, il padrone voleva vedermi al lavoro.
Perché se ero lì, seduto alla scrivania, a tradurre, lui era sicuro… beh, che io stessi traducendo, giusto?
Perché se invece l’avessi fatto da casa…
Già.
Non sarebbe cambiato nulla.
Io dovevo consegnare un lavoro finito entro una certa data – che poi io il lavoro lo finissi su un PC o su un flipper, di giorno o di notte, in giacca e cravatta o in tuta da ginnastica, era assolutamente irrilevante.
Ma lui voleva vedere che io mi guadagnassi i soldi che mi avrebbe pagato.
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Flessibili come querce

Cominciamo con una storia vera.
Solo i nomi sono stati cambiati, per proteggere gli innocenti.

La storia comincia una quindicina di anni or sono, quando un annuncio compare nei soliti posti in cui compaiono gli annunci di lavoro – un’azienda torinese cerca un perito (meccanico o elettronico) che parli il cinese mandarino, per seguire un lavoro in Cina.
Al colloquio si presenta un giovanotto con un bel diploma di perito, proprio quiello che serve, conseguito due anni prima con una ottima votazione.
Il simpatico uomo dell’ufficio personale gli rivolge un sorrisino di superiorità, e gli dice che sì, bello, ma a loro serve un perito che parli cinese.
E il giovanotto gli presenta un libretto universitario, dal quale risulta essere iscritto a lingue orientali, di studiare Cinese e Giapponese, e di aver già dato due esami di cinese e due di giapponese.
Il sorrisino dell’uomo del personale si incrina lievemente, me è un attimo.
“La sua impostazione ormai è troppo umanistica,” gli dice. “A noi serve un tecnico.”
Il giovanotto viene rimandato a casa.
Una settimana dopo l’azienda assume un ingegnere meccanico, al quale paga un corso accelerato di cinese*. Continua a leggere


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Freelancing accademico

Mi rendo conto che con questo post sto infrangendo la regola che vorrebbe tutti i nostri interlocutori come nostri potenziali concorrenti.
E tuttavia, è successa una cosa strana.
Negli ultimi 10/15 giorni ho ricevuto due o tre email da persone a me sconosciute, che avendo scoperto il mio sito professionale, mi chiedevano informazioni su come sia possibile passare al freelancing in campo accademico o – nelle parole di uno dei miei corrispondenti – continuare a fare il nostro lavoro quando l’università non ci vuole più fra i piedi.

Ora, questo è molto imbarazzante.
nel senso che sarebbe bello poter dire a questi ragazzi e a queste ragazze “restiamo in contatto, chiamami domani, collaboriamo!”
Peccato che con l’aria che tira, ci sia a malapena lavoro a sufficienza per un singolo, e sarebbe difficile – anche se non impossibile – strutturarsi e proporsi come studio di associati.
I committenti già storcono il naso a pagare un solo consulente – figuriamoci una squadra di cinque.
Conserviamo quell’opzione per il futuro, ma concentriamoci sull’attuale situazione, che vuole lupi solitari o al massimo gruppi non strutturati di professionisti in grado di collaborare occasionalmente.

Tutto ciò che posso fare, quindi, è dare tutto il mio incoraggiamento, e mettere per iscritto alcune considerazioni su Come continuare a fare il nostro lavoro quando l’università non ci vuole più fra i piedi.
Augurandomi che altri vogliano aggiungere la propria opinione, o le proprie osservazioni, in modo da rendere queste note più complete.

Premessa: il modo migliore per restare nell’ambito della ricerca anche quando tutti cercano di farci fuori è quello di renderci indispensabili.

Il famoso proverbio anglosassone “costruite una migliore trappola per topi e il mondo si aprirà la strada fino alla vostra porta” ha un certo senso.

Per rendersi indispensabili, è essenziale saper fare bene qualcosa che gli altri non sappiano fare, e divulgare il più possibile questo fatto.
Sarà quindi necessario sottolineare e sviluppare gli elementi unici ed originali del proprio lavoro, e magari potenziare il proprio curriculum, e poi cercare occasioni per esporre la propria merce.

Il curriculum lo si potenzia lavorando (ah, è un cane che si morde la coda!) o frequentando corsi di perfezionamento.
Per qualsiasi materia esiste ormai un’offerta – in Italia ed all’estero – quantomai ampia e variegata di corsi di aggiornamento, per cui si ha spesso l’imbarazzo della scelta.
Io personalmente mi impongo un corso all’anno – ammesso di potermelo permettere.
Esiste infatti un problema: corsi e seminari costano.
Tocca avere una certa scorta di risparmi a cui attingere, oppure trovarsi un lavoro part-time per pagarseli, o al limite appoggiarsi a parenti ricchi.

Per l’esperienza lavorativa, si può provare a cercare un ente che offra internati estivi.
Ci sono di solito limiti di età, nazionalità o qualifica, ma l’offerta è spesso molto interessante.
Non ci si arricchisce, ma si tratta di esperienze formative infinitamente superiori a dei semplici corsi.
Anche qui, è più probabile avere delle spese che dei guadagni in solido.
Ma non è per i soldi che lo stiamo facendo.

Dove reperire le informazionia a riguardo?
In Internet.
Praticamente ogni attività professionale o accademica ha una mailing list e/o un server dedicato.
Da non trascurare le associazioni e gli ordini professionali, che spesso gestiscono siti web con materiale informativo.
Avendo accesso ad una buona biblioteca, molte riviste hanno ampie sezioni dedicate all’offerta formativa.
New Scientist fornisce lo stesso servizio anche on-line.

Per sottolineare ciò che c’è di originale nel proprio lavoro, tocca studiare, ampliare l’argomento, applicare nuove metodologie, sperimentare.
Aggiornare le nostre bibliografie rispetto allo stato dell’arte.
Anche qui una ricerca in rete può aiutare.
L’idea di fondo

  • C’è qualcosa che abbiamo fatto nel nostro lavoro di ricerca fin qui che sia particolarmente nuovo e originale?
  • Oppure qualcosa che avremmo potuto fare diversamente?
  • Soprattutto, c’è qualcosa che nessun’altro in Italia ha ancora fatto?

Sono quelli gli elementi da enfatizzare e sviluppare.

Io non trascurerei:

  • l’applicazione degli strumenti informatici
  • l’interdisciplinarità

Se possibile, dare al nostro lavoro un taglio che includa una (almeno) di queste due opzioni.
Che non sono solo buzzwords del marketing, ma rappresentano reali campi in cui la nostra pratica professionale potrebbe essere sottosviluppata.

https://i0.wp.com/www.ianlabs.com/wp-content/uploads/2007/03/freelance_stratosphere.pngFatto ciò, tocca farsi conoscere.

  • Sito internet, quindi, con dati personali e curriculum.
  • Biglietti da visita, con recapito, e-mail, telefono.
  • Un’idea chiara (ma trattabile) delle nostre tariffe
  • … e delle tariffe normalmente offerte dai potenziali committenti (difficile sperare in più di 1000 euro lordi dall’Università per un lavoro a contratto).

Poi si parte e si va ad un congresso – ma non come pubblico.
L’idea è quella di presentare un esempio del nostro lavoro – un esempio della nostra unicità.
Un poster o una breve presentazione – e poi darsi da fare con chi fa domande, per stabilire un contatto.
Anche ammettendo che ai congressi i due terzi dell’uditorio sono in stato comatoso, qualcuno nel terzo restante potrebbe vedere in voi un potenziale collaboratore.
Normalmente, si tratterà delle persone più intelligenti e simpatiche (avendo oltretutto interessi comuni ai nostri).

Intanto, per usare un termine giovanilistico, sbattersi.
Se c’è la possibilità di fare conferenze, farle.
Corsi per i ragazzini della scuola media, corsi per il dopolavoro ferroviario, per i membri della bocciofile.
WWF, ItaliaNostra, LIPU…
Non per denaro (se pagano meglio, ma è improbabile che paghino): per una lettera di accredito e, magari, un trafiletto sul giornale.
In modo da rimpolpare il curriculum.
Lo stesso vale per le pubblicazioni.
Cercarle attivamente, in qualsiasi sede.
Con un occhio inparticolare per le pubblicazioni accademiche.
A parità di sforzo, meglio il proprio nome su una pubblicazione accademica che un pagamento in denaro.

Nota: si arriverà al momento in cui tutte queste prestazioni gratuite per un pubblico non qualificato diventeranno un imbarazzo per i vostri committenti.
Vi chiederanno di toglierle dal curriculum, o per lo meno di ridimensionarle.
Potrebbe essere (perversamente) un segnale positivo.

E per finire mai, mai per nessuna ragione, rifiutare di dare una mano ad un collega in difficoltà.
Senza farsi usare, naturalmente, ma aiutando gli altri costruiamo una rete di contatti e di rispetto che può portarci informazioni, suggerimenti, collaborazioni future.

E intanto, conserva quel lavoro part-time.
Perché ci sono sempre comunque dei tempi morti, dei periodi di vacche magre o magrissime.

Un’ultima nota volante – la maggior parte dei siti dedicati ai freelance sul web (ce ne sono a dozzine, in lingua inglese), e che spesso offrono delle ottime idee, sembrano focalizzati sulle “professioni creative”.
Non permettete a nessuno di convincervi che la ricerca scientifica non sia un’attività creativa.
In altre parole, ciò che vale per un fumettista o un pubblicitario vale (con le dovute modifiche) anche per noi.