Questo post è una specie di piano bar del fantastico, e nasce da una osservazione che mi è stata fatta durante il weekend, e che faceva più o meno
sì, OK, facile sfottere chi conosce solo Conan e il Signore degli Anelli, citando titoli in inglese – cosa dovrebbe leggere secondo te, in italiano, uno che non voglia sentirsi dare dell’ignorante quando parla a vanvera del fantastico?
E la prima risposta è naturalmente “il più possibile”, ma ammettiamolo, sarebbe barare. Uno dei seri problemi, per un lettore che si avvicini in questo momento alla letteratura di genere è non la povertà degli scaffali, quanto l’assenza di una memoria storica. Io sono stato fortunato (e con me quelli della mia generazione): andando in libreria trovavamo una certa quantità di novità, è vero, ma anche i classici, il più recente Premio Hugo e una ristampa di storie apparse su Astounding o Weird Tales negli anni ’30. E avevamo delle ricche introduzioni, per cui si leggeva un romanzo e se ne scoprivano altri sette. Era un mondo perfetto? No – io cominciai a leggere in inglese per spendere di meno e per poter leggere cose che in italiano non si trovavano, ma c’era una grande varietà, ed era possibile vedere lo sviluppo del genere dalle sue origini al presente, lì, sullo scaffale. Possiamo farlo ancora oggi? Certo, possiamo battere le bancarelle per cercare quegli artefatti di un’epoca più civile, ma se volessimo qualcosa che non sia stampato su carta ingiallita e fragile? Magari delle traduzioni aggiornate? Magari un po’ di apparato critico moderno che ci faccia venire delle idee?
Una risposta me la suggerisce la seconda risposta che ho dato al mio interlocutore…
Beh, stanno per ristampare tutto Lankhmar, no?
Perché difficilmente qualcuno che abbia letto le storie di Fafhrd e del Gray Mouser se ne uscirà con la storia che la sword & sorcery è il genere letterario popolato di uomini muscolosi. E la nuova edizione Mondadori, da quello che ho visto nelle anteprime, è meravigliosa. E tra parentesi è Fa’ferd, non Fatfard. Ma torniamo al problema di partenza – cosa leggiamo?
Scrivo questo post nella notte fra il 26 ed il 27 maggio, date fra le quali cade la nascita di Peter Cushing, di Christopher Lee, e di Vincent Price.
L’occasione è la Festa delle Ombre Lunghe, promossa dal mio amico Franco Pezzini e dal suo complice nella Libera Università dell’Immaginario, Max Ferro.
A quanti vorranno condividere questa festa, al di là di possibili eventi (ricordi pubblici, proiezioni, letture o altro – che però costituiscono un passo successivo) suggeriamo soprattutto di dedicare in quei giorni un pensiero allo stile dei tre attori. Che hanno sempre sottolineato la dimensione immaginosa e non realistica delle proprie favole nere, ma insieme offrendo con il linguaggio del mito straordinarie macchine per pensare. Storie esemplari dove le loro interpretazioni davano corpo ai demoni dell’Occidente, della nostra società e in fondo della nostra vita: perché, come spiegava Cushing in un’intervista a tre con Lee e Price proprio sul set di House of the Long Shadows, “l’orrore, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda”.
E quindi io faccio un post.
Questo post.
Mi piace, quell’idea del mito, dell’immaginario, del fantastico, come “macchina per pensare”.
Chi pratica il fantastico ha a disposizione una vasta scelta di opzioni, di eventualità, di alternative.
L’ho detto altrove e lo ribadisco in questa sede – noi che frequentiamo l’immaginazione non cerchiamo una fuga dalla realtà, ma piuttosto ciò che ci permette di non sentire la necessità di fuggire dalla realtà.
Rifletteteci.
Sono le persone che hanno esercitato la propria immaginazione, quelle che hanno trovato delle soluzioni ai problemi.
Sono le persone capaci di immaginare qualcosa di diverso, a sapere che la diversità è una ricchezza e non solo una minaccia.
Sono quelli che si inventano le cose… che hanno inventato le cose che ora per noi sono indispensabili.
Sono anche quelli che i bulli a scuola riempivano di botte, che venivano sfottuti in palestra, che venivano additati come freak, che venivano spediti dallo psicologo alla visita militare, che venivano considerati strani, inadatti e non adattabili, incapaci di farcela.
Non troppo “normali”.
Al momento, nel nostro paese, il fantastico è, da una parte, vastamente popolare, e dall’altra, ampiamente squalificato.
Nè giova alla situazione generale che si sia deciso – a livello culturale – di privilegiare l’aspetto escapistico ed evasivo dell’immaginario – per cui è lecito fruirne come parcheggio per il cervello, ma non come palestra per pensare.
Bisogna goderselo, ma non ragionarci sopra*.
Si cerca di svuotare l’immaginario del suo potere “sovversivo” svuotandolo di ogni originalità, rendendolo ripetitivo e omologato. Viviamo in uno stato di crescente tirannia del reale – ci vogliono convincere che dobbiamo pensare solo alle piccole cose, all’immediato, alle quelle gratificazioni che sono socialmente accettabili e ci certificano come appartenenti alla comunità delle persone “normali”**.
Eppure, la scintilla rimane.
Ciò che è importante è non smettere di ragionarci sopra – non smettere di riconoscere l’eleganza dell’immaginario, il potere evolutivo del fantastico, il carattere morale delle favole, la natura fondamentalmente salvifica dell’invenzione.
Celebriamo quindi le Ombre Lunghe – poiché è nelle ombre che si annidano le nostre speranze.
E ora smettete di leggere questo blog, e andate a leggervi un buon libro.
Un fantasy, magari.
Un horror.
Un po’ di fantascienza.
Un’avventura esotica.
Datevi da fare.
E divertitevi.
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* Il che, naturalmente, gioca a favore del pessimo materiale che viene spacciato al pubblico.
** Li avete visti, quelli normali, di recente?
Vi sembravano felici?
O non erano, piuttosto, disperatamente impegnati a cercare di sembrare felici?
Oggi segnalo un buon libro che credo interesserà parecchi dei frequentatori abituali di queste pagine.
Si tratta di un libro italiano, scritto da un italiano, e che parla dell’Italia – un bel saggio sulla letteratura.
O se preferite, sulla “paraletteratura”.
Il volume non è recentissimo – è uscito nel 2011 – e si intitola Generi della Letteratura Popolare.
L’autore è Valentino Cecchetti, l’editore è Tunué.
È un bel brossurato massiccio, di oltre 400 pagine.
Si vende in cartaceo per poco meno di venti euro.
Considerando che si tratta di un serio saggio di taglio accademico, li vale tutti.
Ma di cosa diavolo parla, il libro di Cecchetti?
Il sottotitolo è rivelatore – Feuilleton, fascicoli e fotoromanzi in Italia dal 1870 a oggi.
Dentro c’è tutto – o quasi.
C’è Salgari.
C’è Carolina Invernizio.
C’è Nick Carter.
C’è un sacco di Nick Carter… ma quanti ne hanno scritti?
C’è l’ascesa della letteratura popolare nel nostro paese dall’Unificazione in poi, e forse, scavando in queste pagine scritte fitte, potremmo anche rintracciare le ragioni della crisi della lettura come intrattenimento nel nostro paese, le politiche editoriali che amiamo odiare, la letteratura come industria.
Ammetto di non amare la definizione di “paraletteratura” appiccicata al genere.
Sembra sottintendere che ciò che piace al pubblico sia qualcosa di diverso, di solo vagamente connesso alla letteratura.
Sembra sottintendere che ciò che scrivo, e ciò che leggo, è “para-” rispetto a ciò che ha scritto qualcuno che ha un pedigree migliore del mio.
Sulla base della decisione di coloro che assegnano i pedigree.
Mi fa venire in mente una definizione colta giorni addietro, su un blog contiguo, da un commentatore che parlava di testi scientifici scritti “per il volgo”.
Ma Cecchetti non è assume toni di superiorità, non è sprezzante verso il genere.
Lo analizza, nella sua evoluzione storica, tracciando le bibliografie di autori e personaggi che furono colossali, e spesso oggi sono dimenticati.
Si concentra sul poliziesco, sul rosa, sull’avventura esotica salgariana.
È una lettura interessante, e a tratti un po’ triste.
C’è anche una bella prefazione, di Franco Pezzini.
Ma lo sapete che Franco Pezzini è amico mio, e quindi eviterò di parlarne benissimo.
La lettura è consigliata.
Potrà strappare qualche risata qua e là, a certe vicende, a certi aneddoti, e a volte un moto di stizza.
Ci introdurrà ad un linguaggio critico utile per descrivere il nostro mondo.
Potrà sorprenderci, e forse infastidirci.
Ma, nel bene e nel male, questo è il passato dal quale proveniamo.
Ah, già… un difetto?
Ci vorrebbe un indice analitico.
… e venerdì sera, lezione su Dracula con Franco Pezzini alla Libera Università dell’Immaginario di Torino.
Dove sarebbe bello proporre un sacco di cose, in futuro.
Ma per il momento, Capitolo Primo del lavoro di Stoker…
3 May. Bistritz.–Left Munich at 8:35 P.M., on 1st May, arriving at Vienna early next morning; should have arrived at 6:46, but train was an hour late. Buda-Pesth seems a wonderful place, from the glimpse which I got of it from the train and the little I could walk through the streets. I feared to go very far from the station, as we had arrived late and would start as near the correct time as possible.
The impression I had was that we were leaving the West and entering the East; the most western of splendid bridges over the Danube, which is here of noble width and depth, took us among the traditions of Turkish rule.
Jonathan Harker si lascia alle spalle la civiltà e penetra in una sorta di water margin, un luogo dai confini labili nel quale si incontrano Oriente e Occidente.
Ora, io sui luoghi in cui Oriente e Occidente si incontrano ci ho scritto un ebook, intitolato Il Crocevia del Mondo – che potete scaricare da qui in vari formati; è gratis, ma se volete lasciare un segno del vostro apprezzamento, ci sono pulsanti per donazioni e wish-list a disposizione.
Ed è per questo che l’amico Franco Pezzini ha pensato di coinvolgermi in questa prima gita in Transilvania, in qualità di persona informata dei fatti.
Di cosa parlerò?
Ah, qui bisogna vedere quali diaboliche domande Franco deciderà di pormi al fine di sondare la mia mente (o ciò che ne rimane).
Fortunati i torinesi – ma anche gli abitanti della cintura.
Segnalo con gran piacere questa bella iniziativa.
È bello vedere che qualcosa si muove.
La presenza di Franco Pezzini e di Max Ferro è una assoluta garanzia di qualità.
Che dire – andateci!
Segnalazione rapida e (spero) indolore, anche se ancora una volta parliamo di libri e di critica. L’Indice dei Libri – rivista della quale abbiamo già parlato in passato – ha un blog su Blogspot.
Uno di quei blog che è piacevole tenere d’occhio.
Fra le rubriche ospitate, segnalo in particolare De Genere, pagina gestita dall’ineffabile Franco Pezzini, che è il caso di bookmarcare immediatamente.
Divertente, divertito e come sempre di una sottigliezza straordinaria, Franco parla, appunto, del genere, in senso letterario.
Imperdibile.
Sì, ok, la gente de L’Indice mi sta simpatica.
E Franco Pezzini è amico mio.
E oltretutto ha appena pubblicato un post nel quale il mio nome compare con inquietante frequenza.
Ma cosa volete farci – esistono casi in cui dobbiamo per forza parlar bene delle persone che rispettiamo.
Fatevene una ragione.
Un altro libro dal mio scaffale “di quelli che devo ancora mettere a posto”.
Ora, i tenutari di blog intellettuali seri, quelli per bene, quelli a posto, i professionisti, di solito non recensiscono i libri degli amici.
Ed io mi permetto di chiamare amico Franco Pezzini, co-autore con Angelica Tintori (che non ho il piacere di conosccere) del massiccio, scarlatto The Dark Screen, pubblicato da Gargoyle Books.
Dovrei quindi tacere.
Ma io non sono uno di quelli a posto, quindi… The Dark Screen, ladies and gentlemen, ma prima un po’ di pork chop express.
Quelli della mia generazione – e con questo intendo coloro che hanno iniziato a bazzicare il fantastico dagli anni ’70 – danno quasi per scontato, o hanno dato per scontato per molti anni, che insieme con la fruizione del fantastico narrato ci venga anche servita una porzione gratuita di saggistica sul fantastico.
Chi spazzolava gli scaffali delle librerie in cerca dei volumi della Nord, Della Libra, della Fanucci, sapeva che prima del romanzo, prima dei racconti, ci sarebbe stato un bel saggio – dalle tre alle venti pagine, a seconda dei casi – a corollario della narrativa.
Prinzhofer, Valla, Malaguti, Fusco, Pergameno… non li posso ricordare tutti.
E poi c’erano gli stralci di testi di Moscowitz, i gigionamenti continui di Isaac Asimov, le ironiche note di Lyon Sprague de Camp alle storie di Conan…
Si trattava di testi che spalancavano porte – suggerivano altri titoli, altri autori.
Contestualizzando il romanzo alimentavano la passione dei lettori.
Sarei mai andato a leggermi Cabell e Eddison se non li avessi sentiti citare a manetta ogni qual volta si parlava di Lankhmar?
Avrei mai messo insieme decine e decine di libri su Marte senza le introduzioni ai romanzi di Burroughs?
E così via.
Successivamente il mercato si fece più fragile, e le introduzioni – spesso brevissime – assunsero frequentemente toni e finalità meno urbani, divenendo più scopertamente parte del meccanismo di marketing del prodotto-libro.
Ricordo ancora l’irritazione per una breve, supponente introduzione il cui unico scopo apparente era quello di convincermi della bontà a prescindere del romanzo che comunque avevo già acquistato.
Era l’epoca in cui, stizzito, spedii ad un editore una copia del suo ultimo volume pubblicato con gli errori di italiano del traduttore segnati in rosso.
Non ebbi mai riscontro.
Oggi mi dicono che NON è un bel modo per farsi un nome come traduttori.
Ma dicevamo…
Abituati ad avere una badilata di cultura insieme col nostro infantile intrattenimento (al liceo le ragazze leggevano tutte Hesse e se tu leggevi Poul Anderson o Jack Vance ti snobbavano duro), noi di quella generazione ci buttamo a pesce sui saggi dedicati al fantastico – il grande Un Miliardo di Anni di Brian Aldiss, la pur faziosissima Guida alla Fantascienza di Asimov, La Morfologia della Fiaba di Propp, Visitatori Notturni della Briggs…
Nel corso degli anni ho messo insieme una bella scaffalata di testi critici sulla letteratura fantastica, forse l’unico tipo di lettura che mi dia tanto piacere e divertimento, e negli stessi dipartimenti, quanto la lettura del fantastico.
Clute & Nichols, Kim Newman, Michael Moorcock, John Grant, S.T. Joshi, Darrell Schweitzer, Harlan Ellison…
Ed in fondo è per questo che divento cattivo e irritabile quando un ragazzino viene a sventolarmi il suo astuccio penico intellettuale sotto al naso sparando scemenze sulle radici celtiche del fantasy, sul valore relativo di aggettivi o sostantivi nella scrittura o su qualsivoglia altro argomento di cui egli abbia deciso di essere esperto. Ma te lo sei letto The Jewel-Hinged Jaw, di Delany, o Wizardry & Wild Romance, di Moorcock, sul linguaggio del fantastico?, mi viene voglia di chiedergli. Ma te lo sei letto The Discourse of Foxes and Ghosts, di Leo Tak-hung Chan? Poi mi dicono che sono snob.
Donne sconosciute mi danno del fallito su blog altrui.
Tutto questo per arrivare a The Dark Screen, dell’accoppiata Pezzini & Tintori.
Che si appropria della freschezza della saggistica anglosassone pur restando un prodotto assolutamente nostro.
Il saggio – colossale, nelle sue 700 pagine – non ha secondi fini, non è vuoto sfoggio di erudizione e non è marketing.
Gli autori non sono imbarazzati nel dover a volte calarsi nelle più strane paludi cinematografiche (delle quali Vampyros Lesbos non rappresenta neanche il fondo), ed al contempo non stanno cavalcando una moda – non vogliono esaltare o colare a picco Twilight o Buffy o Blade più di quanto non vogliano beatificare Bram Stoker o Udo Kier.
Questo libro non ha una tesi da far passare, non ha un prodotto da vendere, non ha una bandiera da sventolare – gli autori sono completamente al servizio dell’argomento che hanno deciso di trattare, e che evidentemente li appassiona.
È questo equilibrio perfetto fra erudizione e intrattenimento, fra profondità di analisi e vastità di ambiti analizzati, fra rigore e passione, che rende The Dark Screen, uscito nel 2008, un saggio senza tempo, capace di fornire una panoramica a tal punto esaustiva, oggettiva ed al contempo rispettosamente divertita del genere, da poter entrare a pieno titolo in quella linea di saggi imprescindibili ai quali accennavo.
Quelli con cui noi siamo cresciuti.
Piacevoli da leggere, fondamentali per capire.
Saggi che ti spalancano porte, ti rivelano angoli inesplorati, ti fanno chiedere ancora, di più – ti trasformano da fan in appassionato.
D’ora in avanti, non si potrà più parlare di cinema di vampiri se non si sarà letto questo libro.
E anche solo dire “Dracula”, senza Pezzini & Tintori alle spalle, sarà un gesto di suprema arroganza.
Con The Dark Screen, il classico The Vampire Movie, di Silver & Ursini, può essere finalmente mandato in pensione – e con lui molti altri testi.
Per ciò che riguarda l’oggetto-libro, l’edizione Gargoyle è un solidissimo rilegato rigido, stampato bene su carta buona; spero nessuno si offenda se dico che lo preferisco senza sovracoperta – nero e senza compromessi come il monolito di 2001.
Ottimo l’apparato iconografico – essenziale ma esaustivo, vera galleria di alcuni dei migliori (e più improbabili – David Niven!) Dracula dello schermo.
Ampia la filmografia, succosa la bibliografia.
Fantastico il prezzo – neanche venti euro.
La quarta di copertina cita Alan D. Altieri: “Negli Stati Uniti, gli autori di un’opera come questa riceverebbero una cattedra onoraria a Yale…” Amen.
Perciò, ok, Franco Pezzini è amico mio, ed il suo libro è grande.
Fatemi causa.