Un pork chop express di natura accademica e scientifica, oggi.
Mentre voi leggete questo – o per lo meno nel momento in cui questo post va online – io mi trovo da qualche parte fra Urbiono, Pesaro ed Alessandria, sulla strada del ritorno verso l’Astigianistan dopo una rapida trasferta in ambito accademico.
Ma questo post ha poco a che fare con la mia trasferta, e molto con delle vibrazioni colte nell’ambiente universitario nel corso degli ultimi vent’anni, e rappresenta una modesta proposta.
Vi hanno mai parlato dell’Antropocene?
Nel caso ve lo foste perso, l’Antropocene è quel periodo geologico… beh, nel quale viviamo.
La sua caratteristica fondamentale è data dal fatto che, nell’Antropocene, l’umanità, la nostra specie, diventa una forza significativa nel condizionare l’evoluzione geologica del pianeta.
Le attività umane incidono quanto la tettonica, il clima o la litologia, sull’aspetto del pianeta.
E una parte consistente dei resti che fra millenni eventuali paleontologi troveranno sepolti, saranno nostri.
E non parliamo di quattro terracotte sbeccate gettate da qualche matrona romana – parliamo di milioni di metri cubi di accumuli.
La cosa che io mi domando, è – se l’essere umano è diventato un fattore geologico significativo (conditio sine qua non per definire l’Antropocene), non sarebbe allora il momento di dedicare, come geologi, una parte almeno della nostra attenzione alle dinamiche umane?
Faccio l’esempio del mio attuale ambito di ricerca – le energie rinnovabili.
Ha senso uno studio geologico di fattibilità sullo sviluppo di fonti energetiche alternative, che non consideri anche, quale fattore essenziale, l’elemento umano?
Ha senso, in altre parole, che io possa studiare dove mettere il generatore, come alimentare il generatore, determinare quanta energia io possa ottenere sull’unità di tempo, ed a quale costo… senza considerare, ed inserire nell’equazione, chi la dovrà usare, quell’energia?
Senza considerare come verrà usata, a quali scopi, in quale maniera?

Oppure…
Un paio di sere addietro mi sono trovato impelagato in una discussione con alcuni amici riguardo alla pelosissima faccenda dell’Alta Velocità in Val di Susa.
Quali che siano le posizioni riguardo alla questione, è indiscutibile il fatto che una pessima comprensione della sociologia della vallata, della demografia dei valligiani, della psicologia degli indigeni, sia all’origine di una parte consistente dei problemi.
Il lavoro di sviluppo dei cantieri, in altre parole, non è ostacolato da una cattiva analisi delle rocce, della geomorfologia, o delle falde acquifere – ma da una pessima (o nulla) analisi delle persone.
Che sono, fino a prova contraria, una componente significativa di quel sistema.
Paradossalmente, in ambiti molto specifici, questa necessità di studiare “geologicamente” la popolazione è stata acquisita – quando i primi petrolieri in pensione, in California, hanno sviluppato le basi della geologia del vino, hanno sottolineato con forza l’importanza della cultura locale, delle tradizioni, dei metodi di lavoro.
E il loro approccio funziona.
Ora, la mia posizione (che immagino verrà accolta a pernacchie dai miei colleghi), è che in ambito applicativo sia necessario aumentare l’attenzione al fattore umano inteso come variabile ambientale “forte”.
Il che potrebbe voler dire dare una infarinatura di sociologia – o ecologia umana – ai miei colleghi scavafossi.
E soprattutto, renderebbe necessaria una revisione approfondita di quelli che sono gli standard di studio geologico in ambito applicativo.
Sarebbe divertente.
Ma pensate che mi daranno retta?
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