Questo è un post un po’ confuso, che andrà un po’ di qua e un po’ di là prima di arrivare, spero, ad una conclusione coerente. È anche uno di quei post in cui uno che si paga (a malapena) i conti scrivendo parlerà di pagarsi i conti scrivendo (a malapena).
Ed è anche possibile che contenga link commerciali, perché sapete come vanno queste cose.
Per cui siete stati avvisati, e potete anche staccare qui se la cosa non vi interessa.
Qualche giorno addietro ho ascoltato una bella intervista a Peter F. Hamilton, il popolare scrittore inglese che è schedato come “il più venduto autore di fantascienza in lingua inglese.” Ora, Hamilton può piacere o meno – io personalmente trovo che abbia delle idee spettacolari ma sia decisamente troppo prolisso; e resta il fatto che Great North Road, con le sue quasi mille pagine, sia un romanzo fantastico. E a quanto pare ci piacciono anche gli stessi libri, per cui provo un istintivo moto di simpatia nei suoi confronti.
Ma che piaccia o meno, si diceva, Peter F. Hamilton ha una infilata lunga un braccio di best-seller, ed emerge dalle interviste come una persona estremamente piacevole, coi piedi saldamente per terra, che ammette candidamente che scrivere è l’unico lavoro che sappia fare, e che quando i suoi libri non venderanno più, sarà davvero in difficoltà.
L’unica cosa che lo tranquillizza, dice ridendo, è che è molto improbabile che una intelligenza artificiale gli porti via il lavoro, checché ne dicano gli entusiasti.
Ed ora, io ho letto l’eccellente You Look Like a Thing and I Love You, il saggio di Janelle Shane, una ricercatrice che ha speso un sacco di tempo a cercare di addestrare una AI per farle generare delle battute “toc toc… chi è?”, dei “dad jokes” e delle frasi per rimorchiare. I risultati – divertentissimi, ed il libro è assolutamente impagabile (e in questi giorni Amazon vi lascia l’ebook a tre euro e mezzo) – mi portano a concordare con Hamilton: è abbastanza improbabile che un computer mi porti via il lavoro in tempi brevi.
Un problema in meno.
Però, però, però…
Durante il lockdown, nel 2021, mi arriva un invito per un seminario di scrittura tenuto da una popolare autrice americana di narrativa erotica. E io mi dico, perché no?
Come spesso capita in questi “seminari gratuiti”, lo scopo non era quello di insegnare alcunché, ma di vendere qualcosa – di solito si tratta di corsi o manuali, ma in questo caso era qualcosa di completamente diverso: un software per generare prime stesure di narrativa erotica.
Si inseriscono il numero, il genere e i nomi dei personaggi, si selezionano alcune opzioni, si stabilisce un word-count, e poi si p reme un bottone … e voil°, la prima stesura viene prodota in formato rtf., pronta per essere editata – ed è ovviamente necessario editarla masicciamente, ma hey, la prima stesura non è più un problema. Offerta speciale per i partecipanti al corso, quattrocento dollari per la licenza d’uso del software di base – gli aggiornamenti si pagano extra.
Non è intelligenza artificiale, ma è qualcosa che va ad intaccare, se vogliamo, una certa visione della scrittura – che si ipotizza sia frutto di un mix di logica, emozione e “ispirazione” (qualunque cosa sia), e qui invece si riduce ad un database e ad un modello di query.
A rendere tutto quanto ancora più spiacevole è l’autrice che sta cercando di vendermi il software, e che per un’ora, incessantemente, non fa che parlare di soldi – quanti soldi si fanno con l’erotica, quanti soldi possiamo fare all’anno, al mese, alla settimana, quanti soldi si possono fare sfornando una novella sconcia ogni sette giorni, quante belle cose luccicanti ci si può comperare con tutti quei soldi…
E io mi dico, OK, è americana, loro mangiano pane e realismo capitalista, cosa ci vogliamo fare.
Oerché è chiaro che chi scrive per vivere ai quattrini ci pensa, eccome, ma che diamine, un minimo di eleganza…
Poi però mi capitano due cose, nel giro di 24 ore – proprio mentre sto ascoltando una bella intervista a Claire North, che ha vinto il World Fantasy Award e che dice, sostanzialmente, che scrivere è meraviglioso e per fortuna ora le hanno acquistato i diritti per fare un film da un suo romanzo, perché per quel che ne sa, la sua carriera potrebbe finire domani – quando si scrive per vivere, non ci sono certezze.
Le due cose che mi succedono sono un articolo su una rivista online e un annuncio pubblicitario via Facebook.
L’articolo parla del mercato dei romanzi a base di sesso e licantropi – non fate quella faccia, hanno a quanto pare un certo successo – che stanno diventando oggetto di una sorta di gig economy – una quantità di piattaforme (a cominciare dal nostro amico Amazon) sfornano a cottimo decine e decine di titoli in questo ed altri generi, per un pubblico che macina pagine su pagine.
E gli autori, a seconda della piattaforma e del successo, possono fare dai 300 agli 800 dollari per ciasdcun titolo.
Non è una cosa limitata ovviamente a sesso e licantropi – e molti autoprodotti possono dichiarare cifre del genere, o anche più basse.
Ma ciò che è interessante è il meccanismo, questa sorta di produzione a cottimo, che sa più delle vecchie workhouse di dickensiana memoria che non di redazione di rivista pulp. È una catena di montaggio.
Per soddisfare la richiesta dobbiamo sfornare un certo numero di pagine all’ora, e quindi possiamo pagare qualcuno per “generare contenuti.”
La seconda cosa che mi capita sott’occhio è invece una pubblicità che Facebook è assolutamente convinto mi interesserà – si tratta di un corso di scrittura, destinato a giovani dai 18 ai 30 anni (ah, mister Zuckerberg, lo prendo come un complimento), equiparato a una laurea triennale: diecimila euro l’anno di iscrizione, più vitto alloggio e spese in una grande città, perché i corsi sono tutti in sede, e tutti in presenza. Ma l’iscrizione al corso ci garantisce fino al 20% di sconto per la permanenza in residence.
E qui il mio cervello surriscaldato comincia a macinare numeri – trentamila euro di iscrizione, più per lo meno altrettanto per vivere per quei tre anni. Sessantamila euro. Come minimo.
Ora, è estremamente improbabile che un esordiente riesca a scucire più di 5000 euro di anticipo sul suo primo romanzo nel nostro paese, ed all’estero è quasi impensabile che l’anticipo per un primo romanzo superi i 10.000 dollari. Di solito parliamo di cifre molto molto più basse.
In altre parole, a fronte di un investimento di sessantamila euro, ci toccherà vendere non meno di sei, più probabilmente una quindicina di romanzi.
E lo so, ora mi direte sì, ma una laurea in astrofisica costa uguale e quando mai l’ammortizzi lavorando…
Ma non stiamo parlando di astrofisica – stiamo parlando di scrittura.
On writing, di Stephen King, vi costa meno di otto euro in ebook, in italiano, più il tempo necessario per leggerlo, e magari trenta euro di classici di vostra scelta da leggere perché se non leggete non potrete mai scrivere. E OK, io personalmente non considero il testo di King questo grande manuale di scrittura su cui tutti piangono commossi, ma ne abbiamo parlato in eterno – non esiste un manuale che vada bene per tutti. Io per esempio preferisco Monkeys with Typewriters, di Scarlett Thomas, ma a ciascuino il suo.
Basta stare alla larga dallo Strunk & White, e va tutto bene.
E ammettiamolo, con sessantamila euro, di manuali di scrittura ce ne compriamo un container.
Senza contare, naturalmente, che ci sono fior di corsi online – da quelli a costo decisamente modesto ma eccellenti di Holly Lisle, a quelli assolutamente gratuiti di Brandon Sanderson pubblicati su Youtube.
Certo, bisogna conoscere l’inglese. Ma un corso di inglese costa molto meno di sessantamila euro – e molto meno di un corso di scrittura in italiano. E conoscere l’inglese è molto più utile che conoscere lo show don’t tell e l’infodump.
Ma al di là di queste considerazioni pratiche, ciò che mi colpisce in questo uno/due, articolo più pubblicità, è che se è vero che per ora l’intelligenza artificiale non minaccia leprofessioni creative e la scrittura in particolare, è anche vero che vediamo sempre più di frequente delinearsi due ambiti in cui “l’ambiente della scrittura” si sta dividendo – da una parte gli scrittori a cottimo, che per vivere al minimo della sussistenza devono sfornare due romanzi al mese, scrivendo con formule così ben definite che possiamo programmare un database per generare trame, e quelli per i quali la scrittura è essenzialmente un giocattolo per ricchi – trentamila euro di corso, e tre anni in residence.
Ed è particolarmente orribile, per me, che i primi vengano considerati scribacchini ed i secondi possano fregiarsi di titoli altisonanti e parlare di arte, di ispirazione, di muse e altre divinità improbabili dei quali sarebbero i prediletti. Premi, interviste, salotti, rubriche su riviste a bassa tiratura, e poi l’oblio.
Ciò che mi preoccupa, e che preoccupa molti altri, è la scomparsa, anche nel mondo della scrittura, della classe media, del semplice artigianato, della professione contrapposta al lavoro a cottimo o al lifestyle per il gusto del lifestyle – quegli scrittori che con due romanzi l’anno si mantengono dignitosamente, e che quando postano sul loro blog le belle recensioni del loro ultimor omanzo si sentono dire “però non è vera letteratura.”
Questo, e non le AI, è ciò che mi fa temere per il mio futuro professionale.