strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Un motivo per leggere (e scrivere)

8109450438_636f82f3e2Post di Pasqua & Pasquetta – due pork chop express al prezzo di uno.

La cosa nasce da un libro meno che eccelso – anzi, diciamo pure bruttarello.
Inadeguato.
Deludente.
L’ha letto la mia amica Clarina, giù nel braccio femminile del Blocco C della blogsfera, e ne ha parlato qui.

Ora, capita, sulla quantità, di beccare un libro dubbio, di tanto in tanto.
Il fatto è che, discutendo di finali improbabili, lettori obnubilati, editori ed autori supponenti, siamo finiti col domandarci perché si legga narrativa.
Che, dovrete ammetterlo, non è male, come domanda.

Anche perché si articola direttamente con quell’altra domanda, quella terribile, che sarebbe perché si scriva narrativa. Continua a leggere


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Una voce

1711-1-non-fiction-booksParlavo con un’amica, un paio di settimane or sono, del fatto che negli ultimi tempi mi sono trovato a divertirmi molto di più a scrivere i miei saggi che non la narrativa.

Entrambe le attività restano, per quel che mi concerne, attività artigianali – non sono posseduto dalla musa, travolto dall’ispirazione e non cado in trance riversando in automatico pagine e pagine di prosa in automatico.
Scrivere è un lavoro.
Ma se non altro è un lavoro divertente.

Ora, badate bene, scrivere racconti continua a divertirmi – non scriverli in italiano, ma scriverli continua a divertirmi.
Però scrivere saggi è un divertimento differente – ed al momento, un divertimento maggiore.
O migliore.

La cosa interessante è che, a monte, il lavoro di documentazione non è diverso – e questa è una cosa che mi ha sorpreso: il rapporto pagine scritte/lavoro di documentazione rimane praticamente lo stesso.

Ed anche la procedura di scrittura, alla fine, è la stessa.

Una volta messa sulla pagina l’idea, una volta definita la storyline, si crea una outline, e poi si cerca una voce.
E si comincia a scrivere.

La fondamentale differenza è -per quel che mi riguarda – proprio la questione della voce.
Io non credo all’ipotesi che la saggistica* debba essere stilisticamente neutra – proprio come ho sempre obiettato alla tesi (propugnata a suo tempo dal buon vecchio Ike Asimov) che la fantascienza debba essere stilisticamente neutra.

Un buon libro, una buona storia, deve avere una buona voce.
E nello scrivere saggistica, la voce diventa indispensabile – perché se è sbagliata, mette a dormire il lettore.

Dai commenti ricevuti sia dai miei beta reader che dai miei lettori – sì, il famigerato feedback – pare che il tono dei miei saggi sia adeguato.
Il che è bene, perché in alcuni casi, ho ricominciato da capo due o tre volte, per trovare il ritmo e lo stile giusti.

È questo che mi rende la scrittura di saggi più piacevole della scrittura di racconti?
Forse.
C’è anche il fatto che i personaggi di cui scrivo non mi tormentano per sapere cosa fare nel prossimo capitolo, sulla prossima pagina – le loro imprese e le loro azioni sono definite (beh, più o meno definite) ed io devo solo raccontarle, nella maniera meno noiosa possibile.
Ma trattando io di solito di cialtroni, la noia diventa una questione – ancora una volta – puramente stilistica.

E sì, qualora fosse sorto il dubbio, c’è un nuovo saggio in preparazione.
Due, in effetti.
Per ora siamo in fase di documentazione e di delineatura.
Poi si tratterà solo di trovare il tempo di scriverli.
E la voce con cui scriverli.

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* o, a dirla tutta, la scrittura accademica.


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Le storie della politica

Image.ashxIl sottotitolo di Cracking the Code è How to Win Hearts, Change Minds, and Restore America’s Original Vision.
Il che lo fa suonare un po’ come certi manualini furbetti su come farsi degli amici o come rimorchiare a colpo sicuro.
Una certa diffidenza, quindi, è abbastanza giustificata.
Ma è un libro di Thom Hartmann, e Thom Hartmann è l’autore vivente che in questi ultimi due anni mi ha venduto più libri.
E ne ho parlato spesso.

Cracking the Code è un libro che parla di comunicazione, di narrativa e di politica.

Da tempo Hartmann è uno dei sostenitori di quella teoria – che possiamo ormai tranquillamente considerare verificata – secondo la quale, a partire dalla fine degli anni ’70, una certa politica, ed una certa fazione politica in particolare, ha imparato a manipolare il consenso, utilizzando una scatola degli attrezzi che pesca nella psicologia, nel marketing e nella linguistica*.

Thom Hartmann sostiene che le idee politiche siano al loro nucleo delle storie – macchine, costrutti che noi usiamo per spiegarci la realtà, e che al contempo riassumono una visione del mondo, e diffondono, una visione del mondo.
Concentrandosi sugli USA, l’autore illustra come le due narrative – quella conservatrice e quella liberale, risalgano a Hobbes e Locke, certo, ma abbiano preso una strana piega negli ultimi trentacinque anni.

Ed è analizzando il linguaggio della narrativa – e i discorsi pubblici e i testi di personaggi quali Thomas Jefferson, Newt Gingrich, John F. Kennedy, Ronald Reagan, George Bush Sr., F. D. Roosevelt e molti altri, Hartmann illustra come tecniche ben precise di comunicazione siano entrate poco per volta nel linguaggio della politica, e come sfruttando questi sistemi, a partire dall’era Reagan, i conservatori americani abbiano prima modificato la propria narrativa basilare, e poi l’abbiano diffusa, rimpiazzando quella che era la narrativa dei Padri Fondatori.

È stato portando gli americani a pensare in maniera diversa alla propria natura di cittadini, sostiene Hartmann, che certe idee sono diventate accettabili, certi risultati elettorali si sono realizzati, e la storia recente ha preso una certa piega.

Il libro si propone quindi di ripristinare alcuni dati di partenza – recuperando le due originali narrative, conservatrice e liberale; e poi fornendo al lettore ed al cittadino gli strumenti per riconoscere la propaganda e la manipolazione, e rispondere ad essa.
In questo senso, il sottotitolo perde il suo sospetto di farloccaggine, e diventa quasi un elemento programmatico – l’idea è di ripristinare lo spirito costituzionale originario alla politica americana.
Mica robetta.

Dall’analisi dei testi di riferimento, si passa allora all’analisi delle strategie di comunicazione, dei meccanismi neurologici, dei trucchi del mestiere di narratori di strada, di vecchi pellirosse, e di altri personaggi improbabili.

In questa carrellata – di poco più che 270 pagine – entrano la storia, la letteratura, le scienze sociali e mediche, e non mancano gli aneddoti personali dell’autore.
Il testo è chiaramente schierato ma – come al solito – essendo schierato dalla mia parte, alla fine non è che mi infastidisca troppo.
Il tono di voce di Thom Hartmann riesce comunque a rendere la lettura piacevole e divertente.

Non so esattamente cosa mi aspettassi nell’acquistare questo volume – Hartmann mi ha finora venduto due testi di divulgazione scientifica, uno studio sugli effetti terapeutici del camminare, e una storia dell’economia americana dal dopoguerra a oggi… ma nel complesso, è stata una bella sorpresa.

Applicare le osservazioni sempre piuttosto americanocentriche di Hartmann alla realtà nazionale non è troppo difficile – e se cambiano le date, i nomi e la numerazione delle leggi, il succo della faccenda è sinistramente riconoscibile.

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* Annoto qui che su questo argomento la BBC fece un bellissimo ciclo di documentari intitolato The Century of Self, che trovate tutto su YouTube e che è criminale ignorare.


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La Leggenda di Kyla Kidd

La narrativa legata ai giochi di ruolo è spesso molto scarsa.
Diciamo che la Legge di Sturgeon si applica in maniera sconfortantemente regolare, e il 95% di tutto è da buttare.

dimenovelMolti anni or sono, quando venne lanciata la linea Deadlands, la Pinnacle Entertainment buttò sul mercato qualcosa di molto molto differente – le Dime Novels.
Si tratava di piccoli supplementi, in formato tascabile, che contenevanoun racconto ambientato nell’universo di Deadlands, e poi tutto il materiale necessario per giocare quel racconto – trama, personaggi non giocanti, mappe…
Bella idea.
Successivamente, sempre per questa ambientazione, venero prodotte anche delle vere e proprie antologie di narrativa.
La qualità è sempre stata più che buona.
Ora pare che la tradizione stia per riprendere anche con Deadlands Noir.

Quando venne presentata al mondo la seconda edizione di 50 Fathoms, la Pinnacle decise di affiancare al manuale dell’ambientazione non delle dime novels, non una antologia, ma della narrativa seriale pura.
Nacque così la trilogia di Kyla Kidd, che ora – complice un buono scucito in maniere lunghe a spiegarsi – arriva sul mio hard disk. Continua a leggere


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Una breve introduzione al pulp (Tarantino astenersi)

NewPulpPoster_350Questo post nasce da un incidente increscioso e del quale non vado esageratamente fiero.
Un paio di giorni or sono, su un social network, un amico ha incidentalmente definito untesto “pulp, ovvero trash e demenziale”.
Ed io sono scattato come un vecchio rompitasche pedante, e l’ho brutalizzato.
Ora, mi sono già scusato con la persona in questione.
Ma rimango dell’opinione che “pulp”, così come “noir”, sia diventato una piccola comoda etichetta abusata da persone che l’utilizzano a sproposito.

Ora, è chiaro, le etichette sono solo etichette.
Ma considerate il seguente scambio…

Lei: “Cosa leggi?”
Io: “Una raccolta di storie pulp.” (penso località esotiche, azione, avventura, tesori nascosti)
Lei: “Ah.” (pensa donne che tirano coca, pistolettate, interminabili seghe mentali sui nomi degli hamburger, bad motherfucker)

A peggiorare le cose, se il film di Tarantino non fosse bastato, ci si mise un comico televisivo, con la macchietta dello “scrittore troppo pulp” che scriveva storie a base di “sangue e merda”.
Fantastico.

E mi rendo conto naturalmente che un post qui su strategie evolutive avrà un peso pari a zero, ma sono stanco di vedere gli hooligan che calpestano il mio orto, e quindi, di seguito, una breve introduzione al pulp (Tarantino astenersi).

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Sul mare e nel tempo con Eddie Vega

A volte bisogna leggere qualcosa di diverso.
Per cambiare marcia, per vedere cosa succede nel resto dell’universo, per non ridursi come quelle orride larve che scrivono un determinato genere, malissimo, perché hanno solo letto quel determinato genere, e senza comunque scendere in profondità.
E poi che diavolo, al mondo esistono solo due generi – i buoni romanzi, e i cattivi romanzi.
E leggere dei buoni romanzi, scritti da buoni autori, è sempre un’occasione per imparare.
E divertirsi.

Quindi, perché non leggere qualcosa di diverso?
L’opportunità arriva per le feste con un regalo di Natale*, un romanzo atipico di un autore che finora conoscevo principalmente come editor.

eddievegaEddie Vega è un narratore e poeta di origine cubana con una lunga gavetta e una vasta esperienza come editor (ha fatto anche il Marine, e immagino che l’esperienza di combattimento lo abbia aiutato nel campo dell’editing).
Per quel che mi riguarda, lo conosco e lo ammiro come editor e motore della rivista Noir Nation, della quale ho parlato in passato.
È quindi una bella opportunità poter leggere un suo romanzo, e scoprire un’altro suo aspetto, un altro suo ruolo**.

Awake Now, Sailor si avvia in maniera semplice, quasi banale.
Ha un che di neorealistico, e una forte carica ironica – il che ci spiazza, perché ben presto i registri cambiano, e una forma molto… hmmm, “cubana”, di fantastico (o lo dobbiamo chiamare “realismo magico”?) si insinua nella trama.
Il cambio di marcia, il mix di generi e atmosfere non stride affatto – ed è un primo segno che siamo in compagnia di un narratore di razza.

Ma la storia?, mi direte voi…

6284747719_f31ef613afCass Loyola è un poeta.
La sua vita è squallida, i suoi amici dell’università pretenziosi, la sua vita sentimentale un campo di battaglia, le sue prospettive di pubblicazione scarse.
Tutto, attorno a lui, sembra destinato a incepparsi.
I suoi ideali collidono con le necessità quotidiane, le sue aspirazioni artistiche con l’establishment letterario.
Poi, a fronte di uno sfratto, un posto di lavoro ingrato, come autista di taxi sul turno di notte, gli dischiude come per magia una finestra sulla verità – la verità sui suoi amici, sui suoi conoscenti, sulla poesia e sulla narrativa.
Su se stesso.
Su cosa possa significare scrivere.

Vega ha uno stile studiatamente diretto, che gli permette di creare scene folgoranti e capitoli più lunghi e intricati.
La narrazione è infarcita di poesie, di personaggi memorabili (il barbone che gestisce un suo piccolo mercatino di libri usati per mantenersi, la sessualmente insaziabile moglie di un banchiere, costui un individuo di una grettezza disumana), di situazioni paradossali, e intanto crea un mondo, con appena un accenno ad un elemento che non è propriamente fantastico, ma che non è neanche realistico.

Riuscirà Cass Loyola a rimettere ordine nella propria vita, a sfuggire alla strega (e rilegatrice) incontrata a Cardiff, e a crescere, umanamente e artisticamente?
La curiosità ci acchiappa dalle prime pagine, e ci trascina fino alla fine.
A volte le scelte del protagonista ci fanno urlare per la frustrazione, in altri momenti ilcontrollo della prosa di Vega è tale da lasciarci sconcertati come l’esibizione di un grande giocoliere.

Almeno un recensore ha paragonato lo stile di Eddie Vega in questo romanzo al lavoro del grande J.P. Donleavy***.
E si ravvisano in effetti delle somiglianze – e questo è un complimento non da poco, per quel che mi riguarda, ma ampiamente meritato in questo caso.

Un gran bel romanzo, insomma, che mi ha fatto chiudere bene il 2012 ed aprire il 2013 in maniera più che soddisfacente e stimolante.
E sì, ci sono anche dei pirati.
Cosa si può volere, di più?

È bello avere delle amiche che ti regalano dei gran libri.

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* il primo di parecchi, in effetti.
E ci saranno parecchi post, nei prossimi giorni.

** facendo una ricerca in rete, scopro che Eddie Vega è anche il fondatore della Vegawire Media, che produce ebook, didattica e nuovi media.
E che ha un catalogo che mi pare molto molto interessante.

*** non ne abbiamo mai parlato, vero, di Donleavy?
Ah, chissà dove ho la testa… dovremo porci rimedio.


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Tre riviste

L’editoria elettronica, oltre a dare nuovo ossigeno ad un genere, il pulp, e ad un formato, la novella, ha anche rivitalizzato un panorama che non aveva poi questa gran quantità di ossigeno – quello delle riviste di genere.
Oh, Asimov’s o Analog stanno bene e vi salutano tutti, e sono allegramente disponibili, in formato elettronico, per una cinquantina di euro l’anno in abbonamento.

Ma… e il resto?
Ho già parlato ampiamente di Black Gate Magazine, ormai la testata di riferimento per la sword & sorcery in ogni sua forma.
Rivista che sfiora le 300 pagine ad ogni nuova uscita, zeppa di recensioni, racconti, approfondimenti editoriali.
Tutto materiale di qualità altissima – e palestra per parecchi autori che ormai sono riconosciuti come la nuova generazione del genere fantasy avventuroso.

Ed ho accennato in un recente post a Noir City, sontuosissima rivista dedicata alla saggistica sul cinema noir, finanziata da una fondazione che i vecchi noir li recupera e li restaura.

Ma ora, lasciamo queste vette patinate e scendiamo un poco nei bassifondi.
Occupiamoci di cose recenti, e non di vecchie corazzate dell’editoria indipendente come Black Gate o Noir City…
Oggi parliamo di non una, non due, ma tre riviste che potrebbero solleticare alcuni dei lettori di questo blog.
Di sicuro, solleticano il sottoscritto.
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In tram lungo Nanjing Road*

Ci passavano anche gli autobus a due piani… riscrivere! riscrivere!

Ci passavano i tram, in Nanjing Road, a Shanghai, nel 1936?
La risposta è sì – basta cercare un po’ di fotografie d’epoca, piuttosto facili da reperire online, e si vedono tanto i binari del tram quanto le linee aeree, i cavi dell’alimentazione.
Ci passavano i tram, su Nanjing Road, a Shagai, nel 1936.
Il che significa, naturalmente, che la sequenza d’apertura della mia storia, Beyul Express, deve essere modificata.
Nulla di clamoroso – si tratta di aggiungere un paio di paragrafi qua e un paio là, ed anzi, così viene meglio.
Però è curioso, che io avessi pronta la descrizione esatta dell’insegna di un locale notturno – ed avessi scelto di ambientare l’apertura in quel locale proprio per via dell’insegna, e non avessi badato ai tram.

La questione si fa poi particolarmente interessante quando, circa venti capitoli dopo, mi trovo nella spiacevole necessità di dover
a . spostare i monti del Tian Shan di circa seicento chilometri ad est**
b . spostare Urumqi di circa duecento chilometri a nord

Una cosa che si fa abbastanza alla svelta – dopotutto, il Taklamakan è un deserto talmente vasto, che cosa sono una manciata di chilometri?

Sono malato di mente?
Perdo un’ora per due fili del tram, e poi sposto le montagne in barba a tutte le carte geografiche degli ultimi 400 anni? Continua a leggere