La prima volta che mi ritrovai davanti a degli studenti per insegnare loro statistica, l’amica il cui dipartimento universitario mi ospitava mi presentò come “appassionato”, di statistica.
Già – la laurea, dopotutto, ce l’ho in geologia.
Sono un micropaleontologo.
Il fatto che io abbia imparato (un po’ di) statostica da autodidatta non è (o per lo meno non era all’epoca) parte del mio curriculum accademico.
Perciò, sì – in fondo avevo lavorato sull’argomento, sciroppandomi articoli e manuali, pacioccando coi software per vedere come funzionavano e se funzionavano, sostanzialmente per passione.
L’argomento mi interessa.
Mi diverte.
Mi affascina.
L’analisi statistica di dati relativi alla paleontologia, agli ecosistemi, è una miscela di esplorazione, investigazione, rompicapo logico, gioco con le matite colorate.
Questa della passione, d’altra parte, è una lama a doppio taglio.
Credo di aver già raccontato come un collega dell’Università di Torino venne a chiedermi se
Questa storia della statistica tu la fai per passione, o vuoi essere pagato?
Lui aveva dei dati, vedete, ed avrebbe tanto voluto farci una analisi statistica.
Non che lui fosse in grado, o avesse voglia di seguire uno dei miei corsi, ma non gli sarebbe dispiaciuto se io avessi reso dfisponibile quella mia storia della statistica…
Gratis.
Se poi avessi anche evitato di volere il mio nome sulla sua pubblicazione, sarebbe stato me-ra-vi-glio-so.
Ecco, era il 2003.
E se i miei corsi sono sempre stati pagati, grazie, sono ormai nove anni che mi vedo offrire l’alternativa.
passione o denaro
Perché apparentemente, se fate bene un lòavoro che vi piace fare, non sarebbe poi il caso di pagarvi.
Perché offrirvi del denaro? Dopotutto, lo fate per passione, no?
Lo fareste anche gratis.
Anzi, magari paghereste anche, per farlo…
Io credo che lavoro e passione siano assolutamente indivisibili.
L’idea di spaccarsi la schiena a fare un lavoro orribile, odiando ogni minuto, perché così vuole la nostra cultura pseudo-cattolica*, mi è sempre parsa una truffa.
Eppure, provate, a trasformare la vostra passione in un lavoro, e vedrete un sacco di smorfie, sentirete riecheggiare su e giù per le vallate il solito, classico
Ma allora ci vuoi guadagnare!
… come se aveste tradito la vostra vocazione monastica, inquinando col vile denaro ciò che fino a quel momento avete fatto gratis.
Certo, non è proprio incoraggiante sentirsi dire, implicitamente o esplicitamente
Ciò che fai mi piace, ma non credo che valga un euro.
E potrei parlare di questo, ma ne ha già discusso ampiamente ed esaurientemente Minuetto Express.
Andate a leggere quel post.
No, quello che mi andrebbe di discutere, nelle prossime poche righe, è come questa dicotomia apparentemente inconciliabile fra passione e lavoro, fra passione e retribuzione, si rifletta sul nostro mondo del lavoro, sulla scuola, su tutte le attività umane che comportano una fatica mentale o fisica.
Questa idea che la sofferenza faccia bene.
Che divertirsi sia comunque una cosa sporca, fuori luogo, che distrae dall’impegno e squalifica i risultati.
E per estensioni, la pessima opinione di chi, invece di spaccarsi la schiena, lavora seduto all’ombra.
È poi in fondo il motivo per cui si sbuffa alle pretese dei laureati (gente che ha buttato il proprio tempo sui banchi, comodamente seduta, invece di… bla bla bla), si considerano scelte come la musica, la pittura, la scrittura, la fotografia, come hobby, come rubare i soldi per divertirsi.
Questo naturalmente significa che avere un figlio “artista” è in fondo un motivo di vergogna.
Significa che studiare è una scappatoia, un trucco per non andare a lavorare e “farsi mantenere”.
Significa che tutte le spinte che di fatto portano al miglioramento sono viste con sospetto, disprezzo, superiorità.
Ed in fondo, perché desiderare il miglioramento?
Se lavorare significa soffrire, allora più arretrato è il posto di lavoro, più onesto è il lavoro che si svolge.
Ed ora badate bene, non sto dicendo nulla contro i lavori umili, manuali, brutti, o quelle cose che tocca fare per mettere insieme il pranzo con la cena – ciò che sostengo è che provare piacere nel fare ciò che si fa è un diritto.
Rende più facile svolgere il proprio lavoro.
Ci spinge a migliorarci.
Che sia cercare il Bosone di Higgs o risuolare un paio di scarpe, se è fatto con passione è bello, piacevole e leggero per chi lo fa.
Ma ciò non significa che non valga il denaro che lo si paga.
E dovrebbe essere normale, per chiunque, potersi guadagnare onestamente da vivere facendo ciò che l’appassiona.
Ma se provate a dire, alla domanda “Cosa farai da grande?”, che da grandi volete fare qualcosa che vi piace, vi diranno che non è possibile.
Che è infantile.
Che è un capriccio.
Che non è così che funziona il mondo.
E si sarebbe quasi portati a pensare che questa mentalità per cui l’ambizione è male, e la passione è una cosa sporca, sia stato studiato per mantenere un certo status quo.
Folle, eh?
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* Ricordate, quella faccenda del pane e del sudore della fronte…