strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Una settimana alquanto produttiva

Son soddisfazioni, ma per davvero.
Dal 26 agosto ad oggi, vale a dire in una settimana, ho cominciato e finito una storia di 20.000 parole che farà (salvo ripensamenti dell’editore) da pilot per una nuova serie.
La vorando “da guerriglia”, con Scrivener da una parte e il browser dall’altra, ho fatto ricerca ad hoc mano a mano che la storia si sviluppava.
Ho scritto e buttato intere scene, e nel frattempo ho scoperto… Continua a leggere


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L’uomo e la spada

Sì, lo so, vi avevo detto che oggi avremmo parlato di un po’ di libri di uno dei miei autori preferiti, ma che volete, la programmazione del blog è soggetta a variazioni impreviste.
Potete sempre chiedre indietro i soldi del biglietto.

{b60c233a-ba5e-49e8-8643-309062686e2e}Img400Il fatto è che, per scopo di ricerca – oltre che per il puro piacere della lettura – ho ripreso in mano By the Sword, di Richard Cohen.
Sottotitolato A History of Gladiators, Musketeers, Samurai, Swashbucklers, and Olympic Champions, il volume è esattamente ciò che dice sulla copertina – e molto di più.

Per chi se lo fosse perso, Cohen (classe 1947) è un ex olimpionico di sciabola, con quattro olimpiadi alle spalle (sarebbero state cinque, ma sapete come andò a Mosca, vero?), ma è anche stato direttore editoriale di due case editrici, e fondatore della propria. Continua a leggere


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Una legge per la ricerca

Ok, oggi un post un po’ complicato.
O meglio, sulla carta è quanto di più semplice e chiaro si possa immaginare.
L’idea è questa – una proposta di legge di iniziativa popolare che permetta ai cittadinio di scegliere di versare l’8×1000 del proprio contributo fiscale ad un fondo destinato alla ricerca scientifica.

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Considerando che il nostro paese finanzia la ricerca in maniera irrisoria, un extra dello 0,8% sarebbe probabilmente una boccata d’ossigeno per molti di noi (anch’io sono un ricercatore, e quindi sto portando acqua al mio mulino).
Quindi, come dicono gli anglosassoni, è un no brainerandate qui, firmate la proposta, dite ai vostri amici di farlo.
Bello liscio.

Però no, andateci, leggete tutto, fatevi una vostra idea, se vi convince firmate, e poi dirtelo ai vostri amici.

Detto ciò, c’è un rovescio della medaglia, che è all’origine della complicanza di cui dicevo… Continua a leggere


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(S)Vendersi?

Di solito scherzo sul fatto che sono l’unico geologo sulla piazza ad aver seguito un corso di marketing.
Si tratta di una delle (tante) “cose inutili” – a detta dei miei colleghi – fatte durante i miei anni di università.
Eppure è stato utile.
Creare corsi post-laurea è una attività meravigliosa, ma poi bisogna venderli ai partecipanti – e lì il marketing serve.
Ed è perciò con un certo piacere – e non poca sorpresa – che scopro Marketing for Scientists, che non è solo un gruppo su Facebook dove c’è gente interessata a simili “cose inutili”, ma è anche un bel manuale, scritto da Marc J. Kuchner – che di quel gruppo è l’animatore principale – e pubblicato da Island Press.
E che sostiene ciò che io ho sempre sostenuto.

[nota – il libro di Marc Kuchner uscirà ufficialmente fra una settimana – questa recensione con uso di pork chop express, è basata su una Advance Reading Copy fornita dall’editore]

Mi è stato ripetuto spesso, come studente di dottorato, che scienza e marketing non hanno granché a che fare l’una con l’altro – esiste questa strana presunzione, che ricordo molto viva nei compagni di corso, che “fare scienza” non significhi “vendersi”*.

Ora, “vendersi” suona subito malissimo.
Porta con se un’idea di mercimonio, di svendita, di svilimento.
C’è questa strana idea – della quale qui abbiamo già parlato – che chi ci paga non si limiti a comprare il nostro tempo e ad affittare la nostra competenza, ma possegga anche la nostra onestà, le nostre opinioni, la nostra anima.
Io ho sempre letto questo modo di pensare come una implicita ammissione di debolezza – se mi pagassero per svolgere il mio lavoro mi sentirei obbligato a compiacere il committente compromettendo la mia integrità, quindi mi tengo alla larga dall’occasione e dalla tentazione.
Che è sciocco.

Ma il marketing – e così torniamo al libro di Kuchner – non è l’arte di svendersi.
Il marketing è casomai un insieme di strumenti che posso usare per definire al meglio le necessità del mio interlocutore ideale, e che posso utilizzare per assicurarmi che il mio lavoro arrivi il prima possibile ed iol meglio possibile a chi è maggiormente interessato, e ne soddisfi le necessità.
Che, quando parliamo di un articolo scientifico – che è poi il prodotto principale di noi scienziati – significa un articolo che soddisfa i parametri per la pubblicazione, che si focalizza su un problema reale e ben definito, sollevando le domande più opportune o fornendo le risposte più soddisfacenti e che, superato il referaggio, arriva direttamente nelle mani di chi lo potrà maggiormente apprezzare, anziché restare a lungo nel limbo della pubblicazione.

E significa anche trovare un posto in cui svolgere la nostra ricerca, il che implica presentarsi a un potenziale istituto nella maniera più opportuna, con le credenziali giuste in vista, e l’atteggiamento opportuno.
E significa trovare fondi per finanziare la nostra ricerca.

Questo significa lavorare a più livelli.
Significa conoscere il “mercato” – conoscere quali sono gli argomenti di punta, quali sono, fra quelli che ci interessano, i problemi che più immediatamente richiedono una soluzione.
Significa sviluppare delle strategie di comunicazione – dallo scrivere articoli che non siano solo corretti ma anche piacevoli alla lettura, presentando contenuti chiari e diretti.
Significa costruire una rete di contati – non per leccaculismo, ma per poter acquisire informazioni o suggerimenti.
Significa saper comunicare tanto con un pubblico specialistico che con un pubblico generalista.

E attenzione, prima che qualcuno si metta a piangere – tutto questo non vuol dire buttarsi a corpo morto sull’argomento più gettonato, anche se non ci interessa e non ci è mai interessato, solo perché è l’argomento sul quale circolano i migliori finanziamenti ed esiste il maggior numero di aperture.
Potrebbe invece voler dire individuare un argomento “di nicchia”, e per il quale proviamo una profonda passione, e riuscire a portarne in evidenza l’importanza e l’urgenza, in modo da ottenere uno spazio, un finanziamento, un incarico.

Kuchner presenta molto bene il proprio caso nel volume, e fornisce notevoli spunti per la discussione.
Il suo manuale servirebbe anche a coloro che sono dichiaratamente contrari all’idea che la scienza debba curare anche la presentazione e non solo i contenuti. Servirebbe loro, ad esempio, per andare oltre le semplici accuse di prostituzione, per sollevare obiezioni costruttive e creare un dialogo che, come si vorrebbe in ambito scientifico, porti avanti lo sviluppo della conoscenza**.

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* le altre due attività nelle quali nessuno dei miei compagni di corso si sarebbe mai impegnato, stando a ciò che dicevano, erano ovviamente l’insegnamento e la divulgazione, viste come altre forme di “prostituzione del sapere” (ricordo bene la collega che usò quell’espressione)

** Aggiungo che mi piacerebbe molto, a questo punto, mettere in piedi un corso post-laurea di marketing per dottorandi e ricercatori in ambito scientifico.
Non lo approverebbero mai, ma sarebbe divertente provarci.


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Ricerca, ricerca, ricerca

OK, quindi siamo giunti alla conclusione che, di fondo, la narrativa è una truffa.
Una truffa in cui io, che scrivo, devo convincere voi, che leggete, che io so un sacco di cose, per non dire tutto, su tutta una serie di argomenti dei quali in effetti so piuttosto poco, ed un paio me li sono inventati di sana pianta.

Il metodo che si utilizza nel costruire questa truffa è un po’ quello che si vede nei film, quando c’è la scena – non fate quella faccia, l’avete vista tutti – della valigetta piena di mazzete di banconote da 100 dollari.
La truffa consiste nello spacciare striscioline di carta tagliata dal giornale per banconote da 100 dollari, e si fa mettendo in cima ad ogni mazzetta una banconota autentica.
100 banconote, una sola autentica per ogni mazzetta.
Solo l’un per cento autentico sul 100% della narrazione.
L’importante, è che quell’un per cento sia messo nel posto giusto.

E poi naturalmente chi scrive ha un vantaggio – la vittima della sua truffa vuole essere truffata e sa di essere truffata, chiede solo che la truffa sia divertente.
Il concetto di divertente, ovviamente, dipende dalle aspettative, che saranno diverse – per dire – per un lettore di fantasy rispetto ad un lettore di narrativa storica, o poliziesca. Continua a leggere


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Due Ore da Ammazzare Reloaded – Digital divide

Ci sono un sacco di cose di cui varrebbe la pena parlare, naturalmente – dal fatto che la stampa nazionale abbia improvvisamente scoperto l’esistenza degli e-book al fatto che Dio abbia fatto sapere, nel solito modo, a Milano, che stavano facendo troppi soldi.
E poi c’è l’eccellente romanzo di fantascienza che sto leggendo (ma perché non ho uno scaffale carico dei libri di…?) o le molte novità eccitanti che si prospettano all’orizzonte per fare di questo agosto un lungo tunnel lavorativo, ma bello…

E invece oggi, in una affrettata pausa pranzo, ho visto per la prima volta un iPad dal vivo.
Ero in coda da McDonald.
Il tipo davanti a me aspettava il suo turno, e intanto digitava dolci sciocchezze con una tipa seduta qualchetavolo più in là, che aveva anche lei il suo iPad.
So che digitava dolci sciocchezze e non – chessò – il testo del prossimo editoriale di Nature, perché il minimo che può succedere, se ti metti a digitare un testo in coda da McDonald, è che l’idiota dietro di te – che è lì solo per un bicchierone di ghiaccio, caffeina, zucchero e acido carbonico – legga tutto quello che stai scrivendo.
Sì. gli SMS hanno dei vantaggi.

Ora, non voglio assolutamente essere tacciato di bacchettonismo.
Mi occupo di fantascienza da troppo tempo per non sapere che la soluzione dell’equazione

high-performance hand-held device + area WiFi

è esattamente

rubbish

Nessuno va da McDonald con l’iPad per consultare la galleria online della NASA o risolvere una crisi internazionale.
O anche solo fare online banking.
Vuole semplicemente essere visto dal maggior numero di persone.

Beh, amico, ci sei riuscito.

Ora, mi trovavo a Torino – non necessariamente in quello specifico McDonald ma a Torino – non per godere delle esibizioni elettro-onanistiche dell’ultimo tecnofilo, ma piuttosto per consultare la biblioteca del Dipartimento di Geologia, alla ricerca di un po’ di bibliografia per un lavoro che sarebbe bello mettere insieme per la fine del mese prossimo.
Mantenersi al passo col SOTA, vedere in che direzione si sta muovendo il sistema…

Un ripiego, in effetti.

Voglio dire, ok, sono qui esiliato in fondo al Monferrato, che in questa stagione pare il fondo di un catino colmo di brodo tiepido, ma ho a mia disposizione un ottimo computer, con sopra caricata una batteria di software da guerra, ed ho una solida, stabile connessione alla rete.
Avendo i titoli di alcuni articoli ed i nomi dei ricercatori nazionali più prominentemente coinvolti nell’ambito di ricerca che mi interessa, cosa ci vorrà a trovare il materiale che mi serve?
Il tutto on-line, da tastiera, sorbendomi un bel chinotto gelato mentre il ventilatore oscilla lento da destra a sinistra e poi di nuovo…

Risultato di due ore di ricerca?
Il primo capitolo di una tesi di laurea dell’ateneo milanese e quattro abstract del secolo scorso.
Ma, è la ricerca di punta, le pubblicazioni ad alto profilo, il sapere sulla punta delle mie dita grazie alla information superhighway?

No.
E allora, ok, ci vado in biblioteca, ma almeno usare il web per mettere insieme una lista di titoli, di lavori usciti, diciamo, negli ultimi tre anni?

Nulla.
Semplicemente, gran parte delle pubblicazioni accademiche di interesse strettamente nazionale – e ciò che sto cercando è di interesse strettamente nazionale – escono in cartaceo, e non si trovano online neppure i cataloghi.

E se da una parte mi sento improvvisamente, maledettamente lontano da qualsiasi centro luminoso della Galassia, dall’altra non posso scordare, ora, qui, alla tastiera del mio computer, le pagine e pagine dedicate all’e-publishing dai giornali da una settimana a questa parte.

Ma che e-publishing, se neanche abbiamo online i cataloghi delle biblioteche e gli indici delle riviste accademiche?

Ed e-publishing di cosa, a favore di chi?
Di poveri derelitti in coda al McDonald, sì, ma con l’iPad?

Continuiamo a guardare il dito, continuiamo a non vedere la luna.

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Quelli che non pubblicano

Serata da veglia funebre con alcuni vecchi colleghi di università.
La conversazione si incunea sulla questione pubblicazioni – o mancanza delle medesime – e scopro con un certo orrore di essere quello con il maggior numero di pubblicazioni al tavolo (tocca pagare da bere).

Come è possibile?
Dopotutto, nell’ambito della ricerca, la pubblicazione è la valuta corrente.
È ciò che definisce la mia esperienza, che fornisce ai colleghi un’istantanea delle mie attività, delle mie competenze, delle mie capacità.
Certo, poi vogliono il curriculum.
Come no, fanno il web-check.
Ma le pubblicazioni sono la base.

Si chiacchiera, quindi, e si delineano una serie di problemi.

Primo – i buoni soldati
la capacità di eseguire gli ordini e la mancanza di iniziativa personale restano due criteri fondamentali nell’assegnazione dei dottorati, per lo meno per certi docenti.

Secondo – i cavalli perdenti
L’università tende a scoraggiare i propri laureati. Chi sei tu per dire la tua?, sembra essere il titolo della canzone. Esistono corsi nei quali alzare la mano per fare una domanda è ancora un buon sistema per essere dileggiati. Insicurezza e crisi di panico sono piuttosto frequenti.

Terzo – la difesa dell’orticello
Se è vero che molti dipartimenti campano di articoli a diciotto firme, è anche vero che la difesa dell’orticello tende a scoraggiare le collaborazioni; di rado si è proponenti di una collaborazione (perché dare un’occasione ad un potenziale concorrente?), raramente si accetta una proposta di collaborazione (perché aiutare un concorrente a fare punti?)

Quarto – la sindrome del pescecane
Estensione della difesa dell’orticello – se qualcuno pubblica nel mio ambito di ricerca, lo devo annientare; pubblicare su certi argomenti diventa l’equivalente di appendersi un bersaglio al collo.

Quinto – il pescecane insonne
Il rovescio della medaglia, naturalmente, è che per quei personaggi che hanno fatto proprio unambito molto vasto o molto popolare, il controllo del territorio diventa un lavoro a tempo pieno: devo leggere le riviste (almeno gli abstract), controllare i forum ed i siti professionali, i blog, e poi prendere gli opportuni provvedimenti… Chi ha più tempo per pubblicare, a quel punto?

Insomma, alla fine, pare che il basso numero di pubblicazioni di certi laboratori sia il prodotto dell’incontro fra una categoria tartassata e demotivata con un sistema aggressivamente chiuso su se stesso.

Non è la regola, naturalmente.
Ma certe volte, in una taverna sperduta da qualche parte, attorno adun tavolo solitario, l’impressione è che non ci siano alternative.

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Cervelli in fricassea

Come sempre, non ci si può distrarre un attimo.
E mentre i ricercatori protestano contro il DLL Gelmini, ecco che arriva la proposta bipartisan di una legge che dovrebbe incentivare quei laureati che – avendo lavorato almeno 24 mesi all’estero – decidano di tornare.
E le aziende che li impiegheranno.

Già.
Dopo il consiglio del ministro Sacconi di straciare il curriculum e andare a lavorare come braccianti…
Dopo il lapidario Brunetta “Sono ricercatori, no? Che allora vadano all’estero a cercarsi un lavoro.”…
Dopo la storia di Claudio ed il suo mutuo con Intesa San Paolo…

Ecco finalmente la risposta alla fuga dei cervelli.
Sono scappati all’estero?
E noi li paghiamo perché tornino.
E non solo, paghiamo anche chi lo vorrà assumere.

Probabilmente la causa di questa aberrazione è l’ormai radicata, completamente metabolizzata idea che i soldi siano la soluzione di tutti i problemi.
Qualcosa non va?
Ti pago e tu la ignori. Ok?

E quindi non pensiamo a sviluppare una strategia che porti all’incentivazione delle competenze.
Non facciamo nulla, in parole povere, per invogliare i ricercatori a restare.
Paghiamo quelli che se ne sono andati, perché tornino.

E paghiamo coloro che li impiegheranno, affinché non abbiano remore ad impiegarli.

Una proposta del genere comporta una serie di affermazioni implicite.
Con una proposta del genere, si ammette implicitamente che il sistema italiano non è in grado di discriminare i meritevoli dai perditempo – ci si limita ad assumere che quelli in gamba siano scappati ed abbiano trovato un posto all’estero (= una certificazione di qualità), e quindic onvenga riprendersi quelli.
Con una proposta del genere, si ammette implicitamente che chiunque non sia scappato all’estero – o una volta all’estero non sia riuscito a trovare un posto di ricerca per almeno 24 mesi … no grazie, deve essere un deficiente, non ci interessa…
E con una proposta del genere, si ammette implicitamente che le aziende non hanno interese ad investirein innovazione e ricerca.
O se hanno l’interese, non possono permetterselo.

Non confondiamoci.
Rispetto profondamente tutti quei colleghi che sono dovuti andare all’estero per poter svolgere il lavoro per cui avevano investito anni e quattrini, e fatica.
Ma non rispetto di meno quelli di noi che sono rimasti qui – piegandosi alle richieste più deliranti di unmercato del lavoro governato da babbuini ubriachi.
E credo che qualsiasi nazione non sappia dare il meglio ai propri elementi migliori meriti solo di colare a picco, esattamente come qualsiasi azienda che non abbia avuto l’intelligenza di guardare al futuro.

Che dire, a questo punto…?