strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Come un’ombra

La scomparsa di Kage Baker, nel 2010, è stato per quel che mi riguarda un colpo durissimo, il genere di trauma che si prova quando si è convinti di aver scoperto uno spirito affine, di aver trovato un inesauribile giacimento di meraviglie che paiono ritagliate su di noi e sui nostri gusti, sulle nostre curiosità.

Autrice che aveva esordito tardi, a quarantacinque anni suonati, negli ultimi quindici anni la Baker si era distinta nella creazione di romanzi e racconti estremamente intelligenti, fondati su idee insolite sviluppate benissimo, senza la paura di riprendere idee altrui e rivoltarle in maniere inaspettate.
Una grande quantità di fantascienza (i romanzi metatemporali della Compagnia), una spruzzata di fantasy, qualche vaga impressione lovecraftiana.
Un corpus di storie eccellenti, una voce inconfondibile.

È quindi con grande piacere misto ad una estrema malinconia, che in occasione del mio quarantacinquesimo compleanno mi regalo The Best of Kage Baker, sontuosissimo volume della Subterranean Press che raccoglie una selezione di racconti e novelle dell’autrice americana, sospesi fra le suggestioni leiberiane e un vago sentore steampunk probabilmente troppo rarefatto e intelligente per gran parte dei cultori nostrani del sottogenere.

Bello, stampato su carta buonissima, illustrato dal sempre intrigante J.K. Potter, il volume di circa 500 pagine costituisce un dovuto monumento postumo ad una autrice che viene definita nella presentazione del libro come “insostituibile” – e lo è davvero.
Undici delle venti storie ristampate provengono da riviste, collezioni e altre imprese editoriali, e sono riunite in un singolo volume per la prima volta.

Lettura indispensabile, pensando a tutto ciò che è stato, a tutto ciò che avrebbe potuto essere.


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208 pagine

La biografia di Jack Vance, uno dei più prolifici, popolari elongevio autori di letteratura fantastica, occupa appena 208 pagine, e si legge in fretta.
Stampato dalla solita Subterranean Press – che promette di diventare un elemento ricorrente sul mio scaffale nei prossimi anni – This is Me, Jack Vance è stato tirato in mille copie, ormai esaurite.
Si tratta di un rilegato rigido, stampato su carta di ottima qualità, e corredato da una quantità di fotografie dall’album di Vance.
Che si astiene dal parlare dei propri libri, concentrandosi invece sulla propria vita – i nonni, i genitori, l’amatissima e bellissima moglie Anna, i figli, i nipoti.
E soprattutto i viaggi e le avventure – in compagnia della moglie, o di vecchi amici come Poul Anderson e Frank Herbert – coi quali Vance si impegnò in un’avventurosa impresa di recupero navale. Paesi esotici, lingue straniere (con un succoso passaggio sul giapponese), mezzi di trasporto spesso insoliti: navi mercantili, case galleggianti, maggioloni Wolkswagen.
E non mancano le note a pié pagina – fonte di eterno diletto per i vanciani, anche se in questo caso non sono tratte dall’opera dell’UnspieK Barone Bodissey.
È così che, non parlando dei propri libri, scopriamo comunque l’origine di quell’esotismo barocco che è caratteristico di gran parte dei lavori dell’autore.
C’è un grande amore per i paesi lontani, una grande curiosità, al cuore di questa vita riassunta in 208 pagine.
E viene quasi voglia di poterlo imitare – e se non migliorerà la nostra scrittura, poco importa.

Ormai novantatreenne, e con gravi problemi alla vista, Vance ha dichiarato che questo sarà il suo ultimo libro.
Un commiato più che degno dai suoi affezionati lettori.

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Langdon St.Ives

Cosa ne è stato della mia originale copia de La Macchina di Lord Kelvin, Urania come tanti, acquistata anni addietro, durante il servizio militare?
Sarà rimasta nella piccola biblioteca del centralino del 53° Stormo?
O l’avrò prestata a qualcuno, che poi avrà pensato bene di tenersela?

Di sicuro qui in casa non c’è, o sarebbe ormai giuà venuta fuori durante il trasloco.
Quello ed Homunculus, pubblicato a suo tempo da Bompiani.
E invece, niente Blaylock nella processione di scatole che si stanno lentamente dirigendo verso il Monferrato.
Perduti, venduti, regalati…?
Tocca rimediare.

E così, dopo un paio di telefonate a numeri scritti sul retro di tovaglioli di autogrill, grazie ai buoni auspici di un amico di un amico che scrive poesie in falso alto elfico per le prime pagine dei romanzi fantasy del gruppo Mondadori, arrivo al vecchio montenegrino che sta giù al parco a dar da mangiare ai piccioni, e che dice che per una manciata di euro ed una cena da Mister Chow è in grado di recuperarmi una copia in perfette condizioni di The Adventures of Langdon St.Ives, hardback della Subterranean che riunisce due romanzi e quattro racconti dedicati alle imprese dello scienziato vittoriano del titolo – steampunk di quello buono, scritto con un occhio a Verne e l’altro a Wells, da uno degli autori più capricciosi e originali della sua generazione.

“A good deal of controversy arose late in the last century over what has been referred to by the more livid newspapers as ‘The Horror in St. James Park’ or ‘The Ape-box Affair’….”

Tutto il Blaylock di cui avevo bisogno – e mi hanno appena pagato un lavoro. Esaurito anche presso l’editore – la solita tiratura limitata della Sub. Press.
Illustrato.
Impossibile resistere.
Un altro volume per lo scaffale speciale – quello su cui si allineano i testi da collezione, gli introvabili, i volumi semplicemente troppo strani o vecchi o aggressivi per essere lasciati in aria libera.
È in momenti come questi che si prova quasi una punta di invidia per quegli spiriti semplici che riescono ad accontentarsi di un file spiaccicato sullo schermo, stoccato su un hard-disk USB, privo di peso, privo di carattere…

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Canti dalla Terra Morente

È in Dagon, di H.P. Lovecraft, credo, che mi sono imbattuto per la prima volta in un espediente narrativo – non saprei come altrimenti definirlo – che HPL probabilmente (mi dico col senno di poi) mutuò da Lord Dunsany, e che nella sua semplicità riesce a suggerire un livello di complessità elevatissimo.
In Dagon, assistiamo alla scena in cui un dio (Dagon, appunto) si genuflette e salmodia in innominabile adorazione dinnanzi alla statua di una sua divinità.
L’universo è più strano di quanto immaginiamo, e anche le nostre divinità hanno i propri dei (idea non molto sfruttata nel fantastico contemporaneo).

martin07_b.jpgProva inconfutabile che questa pratica è una realtà è la pubblicazione di volumi come Songs of the Dying Earth, che un postino affranto ed accaldato ha appena lasciato cadere dalle sue mani snervate sulla mia porta di casa.
Un colosso da seicento pagine, con una bella copertina e splendide illustrazioni interne, pubblicato da Nightshade Press, il volume ora nelle mie mani sudaticce (una delle 1474 copie esistenti), curato da George R.R. Martin e dal leggendario Gardner Dozois, racchiude una serie di racconti ambientati nell’universo immaginato per la prima volta, una sessantina di anni or sono, da Jack Vance, una delle più importanti e durature creazioni del fantastico occidentale.
Fra eoni incommensurabili, la Terra gravita torpida attorno ad un sole rossastro e indolente; la popolazione, sospesa tra un medioevo picaresco e una superscienza opportunamente indistinguibile dalla magia, lungi dal trascinare i propri ultimi giorni nell’apatia o nella disperazione, si abbandona alla ricerca dell’eccentrico, dell’istantaneamente gratificante, del bello e del piacevole – gli ultimi giorni della Terra sono un lungo ballo in maschera popolato da cialtroni.
Senza contare naturalmente pelgrani e deodandi cannibali, e l’occasionale sandestino di passaggio.

Dean R. Koontz apre le danze con una lunga eulogia – saremmo quasi tentati di chiamarla coccodrillo, vista l’eta avanzatissima di Vance, ma è comunque troppo sentita e personale per meritarsi un simile appellativo.
E Jack Vance di suo ci mette una breve ma succosa introduzione.
E poi passa la palla al cast di contributors: Dan Simmons, Robert Silverberg, Kage Baker, Terry Dowling, Phyllis Eisenstein, Glen Cook, Neil Gaiman, Elizabeth Hand, Matt Hughes, Tanith Lee, George R. R. Martin, Elizabeth Moon, Mike Resnick, Lucius Shepard, Jeff Vandermeer, Paula Volsky, Howard Waldrop, Liz Williams, Walter Jon Williams, Tad Williams, John C. Wright.
Ed ecco che il paradosso di Dagon si dispiega davanti ai nostri occhi – i nostri idoli che si genuflettono dinanzi ad altri idoli, che sono anche nostri.
Alcuni degli autori in lista sono fra coloro che più apprezzo.
E se non mi sorprende trovare Kage Baker, Tanith Lee o Liz Williams in una antologia di celebrazione vanciana, la presenza di insospettabili come Walter Jon Williams, Lucius Shepard, Glen Cook o Elizabeth Moon segnala la vastità e la profondità del culto di Jack Vance.
Bello ritrovare Paula Volsky e Phillis Eisenstein, autrici lette vent’anni or sono e ancora attive e interessanti.
Meno sorprendente imbattersi nei prezzemoli letterari Silverberg e Gaiman.
Ma la vera grande sorpresa è Dan Simmons.

Operazione colossale condotta con grazia da un piccolo editore, la dice lunga su cosa sia possibile offrire al pubblico, complice un mercato amplissimo ed una circolazione globale attraverso il web, avendo un minimo di coraggio ed una buona strategia editoriale.

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