Mentre voi leggete questo post, io sono da qualche parte fra Alessandria ed Urbino, per l’ennesima trasferta.
Dieci ore di treno – tra andata e ritorno – due ore di corriera, una corsa in taxi e una in pulmino, una notte in collegio, una cena da qualche parte, un boccone domani a pranzo (probabilmente) al bar della stazione di Pesaro.
E lì in mezzo, un po’ più avanti, un po’ più indietro, un’ora di lezione da seguire.
Sta diventando pesante.
Non solo dal punto di vista economico (com’è che mi siedo in taxi, e fanno già 3 euro e 70?) ma anche dal punto di vista della fatica – che non viene certo aiutata dalla cattiva salute che negli ultimi due mesi mi ha perseguitato.
E poi si spezza il ritmo, si spezza la settimana.
E trattandosi di lezioni fuori calendario, non è possibile programmare le proprie attività con più di una settimana di margine – per quel che ne so, domani potrei scoprire di dover essere nuovamente a Urbino lunedì.
E in tutto questo, mi trovo a riflettere su quanto sarebbe facile gestire le lezioni che devo seguire attraverso semplici videoconferenze.
Grossomodo con ciò che spendo per una trasferta (nell’arco di un anno ne sono previste non meno di otto), sarebbe possibile acquistare l’hardware – una webcam, un microfono direzionale, un hard-disk da dedicare solo allo stoccaggio dei dati.
Considerando che le lezioni sono già presentate sotto forma di power-point da PC, basterebbe attivare un semplice programma di condivisione…*
BigBlueButton, per dire, non pare male: fornisce opzioni di registrazione e playback, lavagna condivisa, software di presentazione, desktop sharing, supporta webcam e voip…
È open source e non sembra richiedere un diploma in tecnica audiovisiva per essere utilizzato.
Sarebbe una passeggiata – docenti e studenti concordano un’ora, si connettono, discutono, condividono, e poi possono persino scaricarsi una copia della lezione.
Bello liscio.
Ma c’è questo freno – lo stesso, immagino, che frena la diffusione del telelavoro**.
Se non mi vedono lì, seduto al banco, a prendere appunti con la mia biro sul mio notes, rimane il dubbio che io non stia seguendo sul serio.
E poi, e poi…
Chessò, potrei essere in calzoni corti e canotta, magari nel cortile di casa, magari con una bella coppa di gelato, o un tot di donnine discinte (capita, sapete, quando si lavora in remoto…) – anziché essere concentrato e coinvolto, seduto su una sedia scomoda, circondato da rudi geologi.
E se il lì in cui devo trovarmi è a cinquecento chilometri da casa, in un posto mal servito dai mezzi pubblici, e mi obbliga a buttare trentasei ore per ogni ora di lezione…
Beh, in fondo non sarà poi questa gran cosa, no?
Intanto, nelle serate libere, seguo lezioni da Stanford, dal MIT, dall’Università di Aukland.
Posti che, oltretutto, sarebbero forse più divertenti da visitare della stazione di Pesaro.
Comunque, ci si vede domani in serata.
Spero.
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* Ho una mezza idea di farmi un salvadanaio, e alla fine del mio lavoro a Urbino, coi quattrini risparmiati donare all’ateneo tutto il necessario per fare corsi in remoto.
Sarebbe un bel gesto, credo.
** Ricordo un amico al quale, alla proposta del telelavoro, il principale disse “Noi ti paghiamo per stare in ufficio otto ore al giorno”.
L’importante è avere le idee chiare.