strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Digitale per la didattica

Ci sono cose curiose.

Stamani la postina mi consegna il primo numero del mio nuovo abbonamento a Nature.
Nature, per chi se la fosse persa, è al momento la principale rivista settimanale di scienza – si gioca con Scientific American il titolo di vetrina ideale per le pubblicazioni scientifiche, e costituisce il gold standard della letteratura accademica*.

201307181447041402Ciò che è curioso è che questo numero di Nature – uscito il 18 del mese – a parte avere in copertina un topotalpa nudo (odiosa bestiaccia), dedica un ampio spazio al digitale in ambito didattico.

Perché è curioso?
Nature dedica dieci pagine scritte fittissime all’argomento didattica digitale, ed aggiunge una sezione specifica mirata alle offerte di lavoro nel digital learning; in Italia, negli stessi giorni, decidiamo che l’adozione degli ebook come libri di testo – in fondo un passo banale, semplice, quasi ovvio – non succederà: che i ragazzini continuino a scarrozzarsi ottanta chili di libri di testo.

Ora, io non sono così coinvolto nella didattica, perciò mi mancano certamente le informazioni “dall’interno” sul problema.
La forte impressione, tuttavia, è che l’argomento “ebook a scuola” sia stato dirottato su un binario morto come accadde, a metà anni ’90, all’argomento “telelavoro”.
Sono state create commissioni di studio sui pro e contro del “fenomeno”.
Si sono tenute dotte conferenze.
Sono stati pubblicati studi che nessuno di fatto si è letto.
E si è continuato come sempre.
I pendolari prendono il treno, i ragazzini si scammellano i libri.

Al contempo – altra impressione selvatica – si sono promosse le forme esteriori della “rivoluzione”.
Tutte le aziende sono cablate, e i dipendenti prigionieri in ufficio giocano a Warcraft online.
Ci sono le lavagne digitali in tutte le aule nelle quali gli studenti annotano a margine libri cartacei.

Leggerò con estremo interesse il condensato di Nature sullo stato dell’arte – e in particolare la guida alle strategie per la definizione di corsi online e spazi virtuali per la didattica.
E spulcerò le proposte di lavoro.
Tutto, naturalmente, pensando a paesi che non sonoil nostro.

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* Sì, possiamo piangere e dire che in fondo Nature e Scientific American ormai fanno popular science, pubblicano sulla base del “wow factor” e bla bla bla.
Ho sentito un sacco di gente lamentarsi di questo – di solito gente che non ha mai pubblicato più in là della Rivista dell’Accademia Portorecanatese di Matematica Applicata.


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L’occhio del padrone ingrassa il cavallo

India_Himalayas_Manali_BusMentre voi leggete questo post, io sono da qualche parte fra Alessandria ed Urbino, per l’ennesima trasferta.
Dieci ore di treno – tra andata e ritorno – due ore di corriera, una corsa in taxi e una in pulmino, una notte in collegio, una cena da qualche parte, un boccone domani a pranzo (probabilmente) al bar della stazione di Pesaro.
E lì in mezzo, un po’ più avanti, un po’ più indietro, un’ora di lezione da seguire.

Sta diventando pesante.
Non solo dal punto di vista economico (com’è che mi siedo in taxi, e fanno già 3 euro e 70?) ma anche dal punto di vista della fatica – che non viene certo aiutata dalla cattiva salute che negli ultimi due mesi mi ha perseguitato.
E poi si spezza il ritmo, si spezza la settimana.
E trattandosi di lezioni fuori calendario, non è possibile programmare le proprie attività con più di una settimana di margine – per quel che ne so, domani potrei scoprire di dover essere nuovamente a Urbino lunedì.

E in tutto questo, mi trovo a riflettere su quanto sarebbe facile gestire le lezioni che devo seguire attraverso semplici videoconferenze.

Grossomodo con ciò che spendo per una trasferta (nell’arco di un anno ne sono previste non meno di otto), sarebbe possibile acquistare l’hardware – una webcam, un microfono direzionale, un hard-disk da dedicare solo allo stoccaggio dei dati.
Considerando che le lezioni sono già presentate sotto forma di power-point da PC, basterebbe attivare un semplice programma di condivisione…*

BigBlueButton, per dire, non pare male: fornisce opzioni di registrazione e playback, lavagna condivisa, software di presentazione, desktop sharing, supporta webcam e voip…
È open source e non sembra richiedere un diploma in tecnica audiovisiva per essere utilizzato.

Sarebbe una passeggiata – docenti e studenti concordano un’ora, si connettono, discutono, condividono, e poi possono persino scaricarsi una copia della lezione.
Bello liscio.

Distance_Learning

Ma c’è questo freno – lo stesso, immagino, che frena la diffusione del telelavoro**.
Se non mi vedono lì, seduto al banco, a prendere appunti con la mia biro sul mio notes, rimane il dubbio che io non stia seguendo sul serio.
E poi, e poi…
Chessò, potrei essere in calzoni corti e canotta, magari nel cortile di casa, magari con una bella coppa di gelato, o un tot di donnine discinte (capita, sapete, quando si lavora in remoto…) – anziché essere concentrato e coinvolto, seduto su una sedia scomoda, circondato da rudi geologi.
auckland-universityE se il in cui devo trovarmi è a cinquecento chilometri da casa, in un posto mal servito dai mezzi pubblici, e mi obbliga a buttare trentasei ore per ogni ora di lezione…
Beh, in fondo non sarà poi questa gran cosa, no?

Intanto, nelle serate libere, seguo lezioni da Stanford, dal MIT, dall’Università di Aukland.
Posti che, oltretutto, sarebbero forse più divertenti da visitare della stazione di Pesaro.

Comunque, ci si vede domani in serata.
Spero.

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* Ho una mezza idea di farmi un salvadanaio, e alla fine del mio lavoro a Urbino, coi quattrini risparmiati donare all’ateneo tutto il necessario per fare corsi in remoto.
Sarebbe un bel gesto, credo.

** Ricordo un amico al quale, alla proposta del telelavoro, il principale disse “Noi ti paghiamo per stare in ufficio otto ore al giorno”.
L’importante è avere le idee chiare.


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Nomadismo digitale

Si discuteva con il mio amico Fulvio, alcuni giorni or sono, sulle gioie della vita in campagna.
Vicini primitivi.
Ambiente pettegolo.
Dieci chilometri dal più vicino posto in cui si serve un mai tai decente.
La rete certificata a sette mega che di fatto viaggia a quattro.
Però, e non è una cosa da poco, se mi gira prendo il portatile, vado a sedermi in un prato e lavoro lì all’ombra di un albero anziché in un cubicolo che sa di PVC e di aria riciclata dal condizionatore.

Se il telelavoro è diventato in fretta una realtà nel resto del mondo, in Italia l’idea si è presto incagliata in una serie di commissioni ministeriali che, a metà anni ’90, valutarono l’ipotesi e conclusero che non si adattava al carattere “solare” degli italiani.
L’immagine del telecommuter chiuso in casa, solo, smutandatissimo e mal rasato, che martella sul PC connesso alla linea telefonica mentre si ingozza di schifezze, è stata più volte usata come spauracchio – meglio blindarsi in un centralino in qualche seminterrato, meglio qualsiasi altra forma di abbrutimento che tuttavia conceda uno straccio di vita sociale, piuttosto che l’isolamento del telelavoro.
Ora, tuttavia, WiFi e Web 2.0 hanno sovvertito le regole.
Al punto che se ne è accorto persino il Washington Post

Gruber and Consalvo are digital nomads. They work — clad in shorts, T-shirts and sandals — wherever they find a wireless Web connection to reach their colleagues via instant messaging, Twitter, Facebook, e-mail and occasionally by voice on their iPhones or Skype. As digital nomads, experts say, they represent a natural evolution in teleworking. The Internet let millions of wired people work from home; now, with widespread WiFi, many have cut the wires and left home (or the dreary office) to work where they please — and especially around other people, even total strangers.

Possiamo portarci il posto di lavoro dove ci pare.
Nel cortile di casa.
Nel prato, sulla collina.
In una crescente quantità di luoghi che offrono la connessione wifi gratuita.
La vita sociale è salva.
La produttività non viene intaccata.
E il panorama è vario e piacevole, sempre in accordo con i nostri gusti e stati d’animo del momento.

Non si tratta più di lavorare da casa.
O di portare il nostro portatile e la nostra esperienza in un ufficio temporaneo messo in piedi dall’azienda che ci ha ingaggiati per i prossimi due mesi.
Si tratta di decidere dove lavorare, mantenere contatti via telefono e web, e fare a meno di una infrastruttura che sia più pesante e complessa di ciò che possiamo portare con noi.

Il concetto di nomade digitale mi è più simpatico di quello di immigrato o nativo digitale, anche perché non si tratta di qualcosa che ti capita su base anagrafica, ma perché è qualcosa che scegli.
Ed inoltre dimostra la vecchia massima cyberpunk che la strada ha il suo uso per le tecnologie, e per le idee.
Il concetto di “digital nomad” venne infatti memeticamente introdotto alcuni anni addietro dai ragazzi del marketing di  una nota azienda produttrice di computer portatili, come parte della campagna di lancio del loro ultimo modello di laptop.
L’idea, lo slogan, è stato tuttavia rapidamente appropriato dalla comunità, che ha trovato le proprie dinamiche, ha adattato ai propri scopi i siti pubblicitari (come ad esempio digitalnomads.com), creando aree di discussione con gli strumenti disponibili (come bigthink), di fatto trasformando in sponsor quelli che erano all’origine i fautori di una campagna di marketing.

Come nota il Washington Post, il cybernomadismo sta portando alla definizione di tribù – non semplicemente sulla base del lavoro svolto, ma sulla base dei luoghi di aggregazione, delle modalità di connessione, degli strumenti utilizzati.

In Italia, il fenomeno pare avviarsi lentamente, più lentamente che altrove – pochi luoghi in cui accedere gratuitamente alla rete on the road, troppe password, troppi posti dove non ci si può fermare per più di una mezz’ora senza che il gestore non cominci a guardarci con una certa impazienza.
Troppo costoso spostarsi da una regione all’altra in treno o in aereo.
Ed il rischio sempre presente che qualcuno decida di rubarci il PC.
Ma la potenzialità esiste.

E poi, non è detto che si debba necessariamente lavorare con il computer – un cellulare, una matita ed un quaderno sono – per certi lavori – la piattaforma minima necessaria.
È così, no, che secondo la leggenda la Rawlings ha scritto i propri romanzi, standosene seduta in un pub…?

Qualcosa si sta muovendo.
Letteralmente.
E promette un futuro divertente.
Bisognerà approfondire.

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