strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Perché non me ne sono andato da Twitter (come se a qualcuno importasse qualcosa)

Stephen Jay Gould e Richard Dawkins – che erano spesso ai ferri corti in ambito scientifico, ma si rispettavano a livello umano e intellettuale – crearono, una trentina di anni or sono, un protocollo per gestire i dibattiti pubblici con i creazionisti.
Il protocollo Dawkins-Gould dice più o meno

Rifiutate il confronto, perché servirebbe solo a dare dignità alle opinioni di persone le cui opinioni non hanno dignità.

Nel corso degli anni ho usato spesso un approccio di questo genere.
Io, potendo, me ne vado.
Inutile stare a discutere con persone che mi disprezzano, e che non hanno comunque interesse a instaurare una discussione costruttiva.

È stata una lunga e continua ritirata.
E mentre da una parte potevo osservare che i creazionisti continuavano ad avere una piattaforma, e ad andare a braccetto con tutta una serie di altri fenomeni da baraccone come terrapiattisti e complottari assortiti, tutti a reclamare la dignità delle loro opinioni in barba a tutti quelli che li hanno ignorati, dall’altra ho visto le comunità dalle quali mi ero allontanato per cercare di conservare la mia (ipotetica) integrità deragliare lentamente ma decisamente.
Non starò qui a fare un elenco.

Il che ci porta a Twitter.
Che, come forse avrete sentito, è stato acquistato da Elon Musk, che ha proceduto, in capo a pochi giorni, a licenziare 7500 dipendenti, a ripristinare l’account sospeso del 45° presidente degli USA, e a fare la figura del pezzente mettendosi a mercanteggiare con Stephen King per farsi pagare la certificazione dei profili degli utenti.
E tanto altro.
È di oggi la notizia che forse riuscirà a farsi fare causa anche da Milo Manara.

Le azioni di Musk hanno innescato una diaspora degli utenti di Twitter verso altre piattaforme – Hive, Mastodon, Counter Social… altri hanno ripristinato i loro vecchi account di Tumblr, o apero forum su Goodreads. Altri ancora si stanno preparando a chiudere tutto e tornare a postare sui loro vecchi blog.
Le diverse piattaforme hanno visto un picco di abbonamenti nell’ordine dei 100.000 nuovi utenti al giorno, nello scorso weekend.

Ed ha un senso – col rischio che il servizio venga sospeso, o deragliato, è ragionevole crearsi una via d’uscita.
Un piano B.
Una scialuppa di salvataggio.

Però…

Mi è capitato negli anni passati di vedere Twitter descritto come “una fogna”.
Il luogo dove i Social Justice Warriors spingono la loro agenda woke.
Il posto dove la lobby gay sta distruggendo Dungeons & Dragons.

Ora, in tanti anni su Twitter – a parte l’accusa di fare gatekeeping “come tutti voi stronzi europei” quando ho fatto presente che quella che fanno a Chicago non è pizza… beh, a parte quello, non ho mai avuto problemi.


Mi sono tenuto in contatto con amici e conoscenti, con editori ed editor e agenti.
Ho conosciuto persone, ho fatto chiacchiere interessanti.

Non un salotto, forse, ma certo non una fogna.
Ma come diceva Ike Asimov, chi pensa di trovarsi in una giungla, sentirà i suoni della giungla anche in Central Park.

Ma il fatto è che Twitter è anche stato, finora, uno strumento potente per dare voce a un sacco di persone.
Il genere di persone che quelli che usano termini come “Social Justice Warrior” o “woke” o “lobby gay” o “nazifemministe” vorrebbero molto volentieri veder sparire.

Non sto dicendo che le azioni di Elon Musk siano studiatamente mirate a generare la diaspora alla quale stiamo assistendo.
Ma è certo che ci sono elementi, che da sempre cercano di monopolizzare ogni possibile spazio sociale per zittire ogni altra voce, che vedono nell’attuale situazione una opportunità.
Non importa quindi, se sia un bug o ujna feature – di sicuro l’attuale dioaspora sta lasciando il campo apersone chenon hanno mai esitato ad usare qualunque strumento per metytere atacere le opinioni altrui, al contempo invocando la libertà di espressione.

Ed è per questo, che non me ne sono ancora andato da Twitter.
Perché è vero, forse un modo per segnalare la propria indignazione è quello di voltare le spalle e andarsene.
L’ho fatto spesso, come dicevo, ed ora posso contemplare le macerie di tante cose che un tempo mi piacevano.
Non ha funzionato al meglio.
Per cui no, in questo caso voglio provare a vedere cosa succede se si smette di ritirarsi e cedere il terreno a quelli che ci disprezzano, e che della nostra (ipotetica) integrità non sanno cosa farsene, se non riderne coi loro amici, e trovare un modo per approfittarne.

Se proprio ci si dovrà arrendere, a questo giro lo faremo dopo aver provato a resistere.
Cosa potrebbe mai andare storto?


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Dialoghi

OK, l’avete visto in giro, probabilmente ne avete sentito parlare in rete: Amazon si appresta ad attivare una funzione che permetterà di commentare le recensioni.

Io ho già detto la mia altrove, e la riassumo qui: no.
Le recensioni esistono per chi legge, non per chi scrive.
Quando ci si riesce, si ringrazia sempre pubblicamente chi ci recensisce – anche quando è ostile – ma non si commentano le recensioni.
Vi piacciono le regole della scrittura?
Beh, questa è una regola1: non si commentano le recensioni.

La discussione sul nuovo servizio Amazon ha tuttavia portato in luce un’altra faccenda complicata.
Molti autori infatti hanno visto nella possibilità di commentare le recensioni una opportunità per avviare un dialogo con i miei lettori2.

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Davvero? Continua a leggere


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Qualche nota sui launch parties virtuali

Le feste per il lancio dei libri si sono sempre fatte – in piccolo, organizzate a casa dell’autore per bersi un bicchiere con gli amici e fare festa perché sì, alla fine il libro è uscito, o in grande, a Cannes, a spese dell’editore, che ha anche ingaggiato una band emergente e un po’ di glitterati, e preparato un press-kit di lusso.

Da questi due estremi – la festa casereccia e l’evento sociale ultra-strutturato – emergono i due obiettivi principali di un launch party.
E che sia un launch party virtuale cambia poco le cose.

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Ora, quando io ero un ragazzino e andavo alle elementari, c’erano questi tizi, fuori dalle scuole, che distribuivano biglietti gratis per il cinema.
Ricordo una volta – la possibilità di andare in due a vedere gratis L’Isola Misteriosa e il Capitano Nemo, il film del ’73.
Ci andai, e vidi metà del film.
Perché nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo un tizio salì sul palco antistante lo schermo, e per due ore – non dico unnumero a caso, due ore d’orologio – cercò di convincere i genitori che avevano accompagnato noi ragazzi ad acquistare una enciclopedia.
Finito il malaugurato e sfortunatissimo tentativo di vendita, ci venne detto che il cinema doveva chiudere – niente secondo tempo.
Racconto questo aneddoto perché capisco la diffidenza del pubblico nazionale davanti a una iniziativa come un launch party virtuale – che non è che si faccia tutto i giorni.
Eccolo qui, questo vuole venderci i suoi libri!

Ma l’idea non è questa.

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#notallmen, #yesallwomen, #allmencan

Ne ho visto i miei amici e le mie amiche all’estero che ne parlavano, ma non ho visto molti commenti qui da noi.
Per cui se non vi scoccia ne parlo io, in maniera limitata e un po’ confusa.
Ma credo sia necessario parlarne anche qui da noi.

La cosa funziona così.
Pochi giorni or sono, negli Stati Uniti, a Santa Barbara, un giovane con dei seri problemi psicologici ha ucciso sei persone nella propria scuola – incluse due ragazze che aveva selezionato consapevolmente come bersagli.
La loro “colpa”?
Le ragazze come loro non volevano avere rapporti sessuali con lui.

Potete immaginare le reazioni. Continua a leggere


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#autoresolitario

TwitterHashtagQuesto è un post che riguarda un esperimento.
Si parlava, ieri, con alcuni amici, della difficoltà che hanno gli autori autoprodotti a ottenere la famosa visibilità.
Non quella con cui vi pagano certuni se lavorate gratis per loro, proprio la visibilità quella della vetrina, quella che permette a chi non vi conosce di persona di scoprire ciò che avete pubblicato.

Perché un blog come questo, o un profilo facebook, hanno i loro limiti.
E c’è un grande mondo, là fuori.

Da qui, un’idea un po’ storta, che provo a lanciare da qua, e vediamo cosa succede.
L’idea si chiama #autoresolitario.

#autoresolitario è un hashtag.

Come dice Wikipedia

Gli hashtag sono un tipo di tag utilizzato in alcuni social network per creare delle etichette.

Nel momento in cui io invio un tweet, se inserisco al suo interno un hashtag (una stringa di lettere preceduta da #), io marchio quel tweet, ed il suo contenuto, cosicché chiunque sia interessato, può ritrovare il mio tweet (e tutti quelli marchiati allo stesso modo) facendo una semplice ricerca attraverso Twitter.

Un hashtag permette quindi, se vogliamo, di creare un “canale”, su Twitter, che chiunque sia interessato agli argomenti etichettati a quel modo può seguire – e utilizzare.
Perché chiunque può utilizzare gli hashtag.

L’idea in questo caso è di creare un hashtag che venga utilizzato da chiunque voglia segnalare dei contenuti che riguardino autori autoprodotti e indipendenti.
#autoresolitario
È chiaro, non è ancora stato usato, è nostro.
Ed è di tutti.

hashtagFaccio un post sul libro autopubblicato di un amico? Posso twittarlo segnalandolo con #autoresolitario
Incespico su una intervista rilasciata da un autore indipendente su un blog da qualche parte sul web? Stessa cosa, posso segnalarlo con l’hashtag #autoresolitario
Una recensione su Amazon o su Goodreads? Posso retwittarlo marchiandolo con #autoresolitario

E chiunque altro può fare altrettanto.
L’hashtag viene automaticamente accettata anche da facebook – quindi se il vostro accont Twitter è collegato al vostro account Facebook, l’etichetta verrà diffusa anche attraverso quel network.
Lo stesso vale per altri social network – da Pinterest a G+ passando per Instagram.

E chiunque sia interessato all’argomento – gli autori autoprodotti ed i loro libri – può reperire tutti i tweet, i post su Facebook, su Instagram, su Pinterest e su G+, semplicemente usando quell’hashtag come stringa di ricerca.

A cosa serve?
Ad aiutare l’informazione riguardo agli autori autoprodotti anche al di fuori delle nostre cerchie abituali.
A fare in modo che non solo i libri, ma anche i blog che ne parlano, possano venire scoperti ed apprezzati dal maggior numero possibile di persone.

A generare visibilità minimizzando la possibilità di abuso.

E posso anche segnalare articoli sull’argomento dell’autopromozione e altro materiale simile, anche se #autoresolitario vuole prima di tutto segnalare gli autori e i loro libri.

Posso segnalare anche i miei libri?
Sì, ma se ci pensate, conviene molto di più segnalare i libri degli altri – perché chi mi segue (sul blog o su twitter o su qualunque altro social network) dei miei libri e delle mie attività è già informato, e probabilmente li ha già letti, o ha già deciso che non gli interessano.
Nel segnalare il lavoro degli altri, spero che anche loro facciano altrettanto – divulgando informazioni sul mio lavoro tra coloro che non mi seguono abitualmente, così come io sto divulgando il loro lavoro fra i miei followers.
L’autopromozione è in ultima analisi meno efficiente della condivisione.

Allo stesso modo, promuovere la qualità ripagherà in qualità – se useremo #autoresolitario per segnalare ciò che c’è di buono, permetteremo a ciò che c’è di buono di emergere al di sopra della massa indifferenziata.
Se invece spingeremo tutto, in maniera indifefrenziata, non otterremo alcun risultato.

Funzionerà?
Non ne ho idea.
La rete funziona in maniera darwiniana, e queste iniziative possono crescere e modificarsi o morire.,
In questo momento, là fuori, c’è qualcuno che sta pensando “Come posso usare questo sistema a mio vantaggio?”
Io spero che si renda conto che il modo migliore per usare #autoresolitario a proprio vantaggio è usarlo a vantaggio di tutti.
Trasformarlo in un ricettacolo di ciarpame equivale a liberarsi la vescica in piscina, e poi farsi una bella nuotata.

Staremo a vedere.


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Non devo urlare, ma ho una bocca

Sono stato coinvolto in una interessante discussione, ieri, su un forum (sapete che non ne frequento granché) fuorimano.
Un posto molto amichevole (che non è male, tanto per cambiare).
La questione è semplice: una giovane scrittrice americana con quattro volumi autopubblicati in un anno, e distribuiti tramite Amazon, che tuttavia “non tirano”*.
Eppure hanno delle ottime recensioni, e delle copertine decisamente al di sopra della media per una autoprodotta.
Ma il punto non è questo.
Il punto è che tutti consigliano all’autrice di aprire un blog per ottenere visibilità – ma lei è una persona molto schiva, schiva al punto che non saprebbe di cosa parlare sul suo blog, non saprebbe gestirlo.
Non saprebbe, nelle sue parole, come “vendersi”.

La cosa che mi ha colpito e mi ha dato da pensare (e che fa sì che io vi infligga questo post) è questa terribile dicotomia – mi serve un blog per dare visibilità ai miei libri, ma non voglio visibilità per me.

dead-blogE non dico terribile per dire – come ho ripetuto spesso in passato, gestire un blog (quale che sia il motivo per cui lo si fa) richiede una notevole spocchia, una certa idea esagerata della propria importanza.
Si deve partire dal presupposto che ciò che scriverò interessi a qualcuno.
Mancando questo modicum di egocentrismo, gestire un blog “per forza” diventa, io credo, un tormento**.

Dalla discussione sono venute fuori parecchie buone idee, e parecchie osservazioni interessanti. Continua a leggere


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L’altro social network

Google+, questo sconosciuto.
Non so se siete come me – è molto probabile che siate molto più svegli, ma se siete come me, probabilmente avete un profilo su Google+.
E se siete come me, o magari anche più svegli, continuate ad esere abbastanza perplessi su quale sia l’effettiva utilità di Google+.

Io lo ammetto, ho fatto l’account su Google+ per dare una maggiore visibilità ai miei blog, e per vedere se era possibile usare Google Hangouts per giocare di ruolo*.

Guy-Kawasaki-What-the-Plus-266x400Ma non ne ho mai fatto granché.
Ora però sto leggendo What the Plus! di Guy Kawasaki.
E sto cominciando a scoprire un sacco di cose su Google+ che non sapevo e che non ci sono nella documentazione ufficiale.

Il libro (o ebook) è del 2012, ed ha quindi il difetto di essere statico – specie considerando la snervante abitudine di Google di ridisegnare le proprie interfacce.
L’interfaccia di G+ è cambiata radicalmente nei dodici mesi trascorsi dall’uscita del volume.
Tocca darsi da fare per trovare i pulsanti e le opzioni, perché non sono più dov’erano prima.
Succede.

A parte questo, il volume è ottimo – come mi pare ormai chiaro siano ottimi tutti i progetti di Kawasaki.
Lo scopo del volume è dichiaratamente doppioScreenshot from 2013-09-30 21:03:44
. mettervi in condizione di usare al 100% le potenzialità di G+
. invogliarvi ad usare G+ anziché Facebook, Twitter o Pinterest.

Alla prima voce, si scoprono un sacco di cose interessanti, che Google pare aver deciso di nascondere con cura ai propri utenti.
Per darvi un’idea, vi copi l’indice del libro.
Le potenzialità sono evidenti.

Il secondo scopo è dichiarato in spirito di trasparenza – Guy Kawasaki è la persona che Google ha pagato per fare pubblicità alla piattaforma.
Lui ha deciso di farlo spiegando a fondo la piattaforma, con entusiasmo e non poco umrismo.
Ci sono metodi molto meno costruttivi.

Cambierà la mia vita?
Non credo.
Ma è conciso, divertente, e mi spiega come usare uno strumento che potrebbe essere utile.
Quindi, perché no?

Aggiungo che ora un terzo volume di Kawasaki, il fantomatico Enchantment, è sulla mia lista della spesa.
Guy Kawasaki, al di là di tutto, mi rimane estremamente simpatico.

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* È possibile!


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Cinque cose che ho imparato da Karavansara

karavansara-buttonIl mio blog di lingua inglese, Karavansara, sta bene e vi saluta tutti.
Sono ormai nove mesi abbondanti che l’esperimento procede – e con gennaio 2014 Karavansara uscirà dalla fase di shakedown, e comincerà a lavorare a pieno regime*.

Da esperimento, a scusa per obbligarmi a scrivere in inglese, a blog a pieno titolo con una sua piccola comunità di lettori fissi, gestire Karavansara è stata una grande esperienza di apprendimento, e nel complesso un gran divertimento.

E quindi, perché non tediarvi elencando cinque cose che ho imparato gestendo un blog in un’altra lingua?

 release. il template conta
Non finirò mai e poi mai di dire bene di Yoko, il template di WordPress che ho caricato su Karavansara.
È leggero, molto flessibile, e zeppo di features – mi ha permeso nel corso di questi mesi di modificare l’aspetto del mio blog senza dover cambiare template (con conseguente sbalestramento dell’impaginazione e quant’altro).
Gli effetti speciali (dalla possibilità di marchiare i post con un elemento grafico distintivo alle categorie speciali per post costituiti solo da un link, o una citazione) aiutano moltissimo a rendere caratteristico il blog senza dare troppi grattacapi.
Ed è abbastanza chiaro da garantire una buona navigazione.

  . i temi sono per i deboli – anche se…
A differenza di strategie evolutive, che è un baraccone dove anything goes, Karavansara è nato con uno spettro di temi abbastanza stretto e specifico (narrativa, Oriente, avventura pulp), ed ho cercato il più possibile di restare aderente a quella breve lista.
Questo mi era parso un dato positivo in partenza, a metà corsa mi ha fatto sentire un po’ limitato, finché non mi sono reso conto che i temi sono per loro natura fluidi.
Si può spaziare pur restando in vista del tema centrale.
Karavansara non sarà mai il circo equestre che è strategie evolutive – ma c’è parecchia libertà, e credo che lo manterrò a questo livello.
Il pubblico pare apprezzare.

karavansara schedule . avere un palinsesto è importante
Altra seria differenza rispetto a strategie, Karavansara ha un palinsesto, una programmazione di massima dei post.
Questo mi aiuta a restare in carreggiata, ed aiuta i lettori a seguirmi.
È particolarmente importante, io credo, proprio in partenza, nei primi mesi, perché facilita il lavoro a chi mi segue ma non mi ha ancora agganciati al feed reader.
E facilita il lavoro a me!
Posso fare sei post del venerdì in una serata, e e sei post del lunedì la sera dopo, se ho tempo e voglia.
Ma non ho mai avuto intenzione di farmi intrappolare eccessivamente – lasciarsi degli spazi liberi nella tabella di marcia è indispensabile per restare vivi e non mummificare.
Utile anche notare che il pubblico anglofono pare avere una preferenza per la frequenza rispetto alla lunghezza: meglio tre post da 300 parole a distanza di sei ore uno dall’altro che uno da 900 in una botta unica.
Postare link e media è sempre gradito, e serve a movimentare i contenuti.

  . un orologio a fusi orari multipli chiarisce molte cose
In particolare serve, in accoppiata con le statistice, per scoprire quali sono gli orari di picco e da dove vengono i lettori.
Perché capita magari di avere un picco dal sud est asiatico, e non vederlo o non “capirlo” per molti giorni.
Sapere che ci sono lettori in una certa area geografica, aiuta a parlare con loro.
In fondo è questa una delle caratteristiche veramente diverse fra Karavansara e strategie evolutive – strategie i lettori li ha tutti (beh, ok, il 95%) nello stesso fuso orario, Karavansara no.
Io uso gworldclock per Ubuntu, che è quanto di più spartano si possa immaginare – ma fa il suo sporco lavoro.

 . abbonarsi a Zemanta è indispensabile
Zemanta è un servizio gratuito che vi fornisce statistiche ampliate sulla vostra utenza, ma soprattutto fornisce contenuti extra di qualità per farcire i vostri post. Particolarmente utili sono i related articles, che permettono di segnalare articoli affini su altri blog (ce n’è uno qui sotto).
Funziona anche sui blog in altre lingue – ma su un blog di lingua inglese Zemanta rende al 100% e produce un solido 30% di visitatori in più,oltre ad aggirare abilmente alcuni problemi di tag e affini generati dai famigerati aggiornamenti di Google.
Usando questo aggeggio (vi parassita il browser e compare quando aggionate il blog), ho trovato una dozzina di lettori fissi nelle ultime due settimane.

Extra: anche una pagina Facebook, un board su Pinterest e un canale Twitter possono risultare interessanti, in termini di visite e di contatti – ma questo lo sapevamo già.

311Bonus
 . non bisogna avere paura di provarci
… e di sperimentare.
Non importa se l’idea sembri stramba – o se la prudenza consigli di rifletterci, pianificare, e lasciar riposare la cosa per quelle sei/otto settimane.
Non c’è una commissione di valutazione del blogging, non c’è un ente certificatore per i contenuti, nessuna scuola che rilasci la patente di blogger, non esistono un manuale imprescindibile ed un culto di strangolatori votati ad eliminare chi non ne rispetta le regole.
Provare a fare qualcosa di diverso di solito viene premiato.
Magari con un commento positivo, o dieci visite in più, o due lettori fissi.
O con la consapevolezza che no, così non gira.
È tutto parte del processo di apprendimento.

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* A meno che la mia vita non prenda una piega diversa per qualche motivo, naturalmente.