strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Fantasmi, strade secondarie, leggende e haiku

Ho appena postato su Binario Morto – l’altro mio blog, quello dove escono solo recensioni di libri – una recensione di Ghostland, di Edward Parnell, un saggio autobiografico in forma di libro di viaggio sulla letteratura sovrannaturale inglese.
Se siete interessati a qualche dettaglio sul libro, vi invito a fare un salto di là.

Quello di cui vorrei parlare qui, invece, è l’idea di un saggio personale sulla letteratura che incroci l’autobiografia e il libro di viaggio.
Che mi pare una cosa fantastica, e che costituisce uno dei “generi” che preferisco.
Perché sì, mi piacciono molto i resoconti di viaggio – ne ho casse piene – ma l’idea di riuscire a infilarci anche la letteratura, e le vite degli autori, intrecciandole con la vita di chis crive… ah, quello è davvero speciale.

E poiché Ghostland non è un caso unico, ci sono per lo meno altri tre titoli che mi vengono in mente, che vale la pena ricordare.

Il primo – perché è il primo saggio di questo genere che mi sia capitato di leggere – è Blue Highways, di William Least Heat-Moon, che uscì in Italia col titolo di Strade Blu, inaugurò una collana di tascabili “giovani” della Einaudi, e successivamente diede il nome a un’intera collana di Mondadori. È quindi abbastanza ironico che oggi nella nostra lingua sia fuori catalogo, e tocchi cercarselo sulle bancarelle, su eBay o in biblioteca.
La storia di un periplo degli Stati Uniti a bordo di un furgone, seguendo le strade secondarie, il volume è una miscela di autobiografia, storia e narrativa di viaggio – e non mancano i riferimenti alla letteratura.

Il secondo volume On the Narrow Road to the Deep North, di Lesley Downer – autrice che divenne successivamente molto famosa con Memorie di una Geisha. Ma Narrow Road è, a mio parere, molto meglio – e ripercorre la vita e l’opera del poeta giapponese Matsuo Basho ed in particolare del suo viaggio a piedi da Edo verso l’Hokkaido. L’autrice ripercorre il cammino di Basho, osserva il Giappone lungo le strade secondarie, e intanto ci offre un’ampia selezione di poesie ed haiku, e di riflessioni sui generis e personali. Letto una trentina di anni or sono, resta uno dei miei libri preferiti sul giappone, la sua storia e la sua letteratura.

E per finire c’è il colossale tour de force di Bryan Talbot, Alice in Sunderland, che mescola folklore, letteratura e storia di una regione molto limitata dell’Inghilterra, il Sunderland appunto, intrecciando le proprie osservazioni con l’Alice nel Paese delle Meraviglie. Il fatto che Talbot riesca a fare tutto questo lavorando a fumetti rende questo volume di oltre trecento pagine ancora più incredibile – e Alice in Sunderland resta uno dei miei fumetti preferiti di tutti i tempi. Non mi risulta che sia mai stato tradotto nella nostra lingua, ma scopro che ne esiste una edizione in brossura tutto sommato a buon mercato.

E non dubito che ci siano decine di altri titoli, là fuori, ma questi tre sono i primi che mi sono tornati in mente mentre leggevo il bel lavoro di Parnell.

E naturalmente ci ho messo i link commerciali, e se per curiosità o buon cuore proverete ad acquistare uno o più di questi libri a me verrà versata una piccola percentuale – ed ora siete stati informati.


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Sulle tracce di Annibale

Nei primi anni ’80 Bernard Levin, pilastro del Times ed uno dei più rispettati giornalisti britannici, leggendario intervistatore, commentatore politico al vetriolo e autore di una quindicina di volumi*, decise di assecondare un’antica passione, risalente ai tempi della scuola, ed intraprese un viaggio attraverso la Francia meridionale, muovendosi verso est.
Il piano – zaino in spalla e registratore a microcassette in tasca, attraversare le Alpi a piedi, sulle tracce di Annibale.
Per amore dell’avventura, per la curiosità di vedere come vivano i francesi nelle campagne, per scoprire le radici della fascinazione che da secoli accompagna la figura del condottiero cartaginese.
Accompagnato da sei coraggiosi membri di una troupe di ripresa che avrebbe filmato il documentario di quella traversata, l’ultracinquantenne Levin si mise sulla strada.

Il resoconto di quel viaggio, intitolato From the Camargue to the Alps – A Walk Across France in Hannibal’s Footsteps, uscì nel 1985, per i tipi di Jonathan Cape.
Ebbe un discreto succeso, e venne ristampato un paio di volte prima della fine del secolo.
La Summersdale lo ristampò in formato tascabile nel 2009 e nell’autunno scorso, complice uno sostanzioso sconto e l’amicizia di una persona che non ha mai fatto mistero della propria fascinazione per Annibale, me ne sono procurata una copia.
A parte sconti e amicizie, a parte la recente ossessione per il globetrotting, due erano i motivi del mio acquisto – la mia vecchia passione per i libri di viaggi, e il fatto che io, nei primi anni ’80, in Camargue ci andavo in vacanza con la mia famiglia**.
E l’itinerario che Levin aveva percorso a piedi, io lo avevo percorso molte volte in camper – andata e ritorno, Torino – Aigues Mortes.
Chissà se ci siamo mai incrociati, Levin ed io, mi son detto, sulle strade della Provenza?

E lì, a pagina 29, trovo la risposta.
Levin descrive un suonatore di strada, un hippie smobilitato, che si esibiva ad Aigues Mortes con un pappagallo sulla spalla.
E io ricordo quel tipo, e quel pappagallo.
E ricordo il giorno in cui il pappagallo abbandonò la spalla del musicista, e si infrattò su un albero che dominava la piazza, e il povero musicista itinerante dovette arrampicarsi sull’albero, e cercare il pappagallo, guidato dalle indicazioni delle persone che da sotto guardavano, e ridevano.
Uno di loro era mio padre.
E lì, su pagina 29, c’è proprio quella scena, descritta con cura e divertimento da Levin.
È una sensazione stranissima.

Che mi rende il libro – coi suoi stralci da Livio e da Giovenale, i suoi riferimenti shakespeariani, la sua natura eminentemente miscellanea – stanamente caro.
E così seguo Levin fra i canali e le paludi della Camargue, in incontri improbabili, su su verso le colline e poi i primi contrafforti delle Alpi, e oltre.
Sulla strada scopro che l’indovino di Annibale si chiamava Bogus (nomen omen) e che peraltro i nomi cartaginesi non brillavano per originalità, rivivo episodi della storia francese, incontro località dimenticate, osservo il panorama naturale.
Tutto col tono distaccato e un po’ snob di Levin, che guarda divertito i francesi – il popolo più antipatico d’Europa, o così parrebbe – ed i loro rituali inspiegabili,  e racconta le proprie disavventure, la propria incomprensione per il gioco delle bocce, il proprio astio verso certe speculazioni turistiche mascherate da iniziative culturali.

E poi la letteratura, le opinioni non richieste, a volte anche la supponenza un po’ irritante da gentiluomo britannico in vacanza.
Ha una voce distintiva, Levin – che è scomparso nel 2004, vittima dell’Alzheimer – che mi fa venir voglia di leggere altri suoi libri.
Il viaggio lungo il Reno, la passeggiata lungo Fifth Avenue…
C’è un che di vagamente retrò, nel tono di Levin, che rende questo libro una buona aggiunta alla mia collezione di resoconti di viaggio, sospesi fra la fine della minaccia napoleonica e l’era del jazz.

È divertente, è ben scritto, è antiquato.
E io c’ero.

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* Nonché l’uomo che disse ad Arianna Huffington (quella dell’Huffington Post), che all’epoca aveva la metà dei suoi anni, che andare a letto con lui sarebbe stato per lei una forma di educazione umanistica.

** Da cui probabilmente la mia simpatia per la Provenza.


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Due libri usati

Ma chi voglio prendere in giro?
Pensate davvero che riuscirei mai a resistere ad un libro che abbia sia Stonehenge che Samarcanda nel titolo?
Ovviamente è impossibile.

From Stonehenge to Samarkand, di Brian Fagan, è uno dei libri che mi terranno compagnia per il mese di agosto.
Fagan, che ho conosciuto come paleoclimatologo, è anche un valido autore di divulgazione nell’ambito dell’archeologia.
Il volume che mi ha agganciato fin dal titolo è una storia del turismo archeologico – da Erodoto ai tour organizzati – e mescola stralci di testi classici al percorso di Fagan nell’evolvere dell’idea che si possa viaggiare nello spazio (geografico) per esplorare il tempo (storico).
Da Ninive alle Piramidi, dalla Via della Seta alle città perdute degli Inca, il libro – bello solido, ben rilegato, ricco di fotografie – è una specie di bignami della letteratura di viaggio, con in più l’esperienza del divulgatore a colmare gli spazi vuoti.
La bibliografia da sola minaccia di tramutare la mia carta di credito in una cialda abbrustolita e fumante.
Pagato un euro, per qualche supposto danno alla copertina che tuttavia non riesco a rilevare.

A fargli da controparte, nella quiete ferragostana delle colline del Monferrato, un volume che pare fatto apposta – Adventures with the Buddha, un “Personal Buddhism Reader” curato da Jeffrey Paine, giornalista americano specializzato in affari orientali.
In questo caso, la narrativa di viaggio è al servizio della ricerca antropologica e religiosa.
Paine si occupa di quelle persone che hanno utilizzato l’esplorazione dello spazio esterno per entrare in contatto con il prorpio spazio interiore.
La storia dell’incontro tra oriente e occidente, e degli occidentali con il buddhismo in tutte le sue forme, è una storia di viaggi, ed il volume raccoglie – come il precedente – stralci di testi eccellenti, da Alexandra David-Neel a John Blofeld, fino a Sharon Salzberg e Michael Roach.
Il volume, un bel rilegato rigido riccamente illustrato, mi arriva per un centesimo dopo che la Biblioteca di Brooklyn ha deciso di liberarsene.
È avvolto nella solita copertina di plastica antiproiettile delle biblioteche americane, e perciò starà comodo in uno zainetto durante le scampagnate a base di panini e acqua fresca sulle colline qui attorno.

Sarebbe bello poter girare il mondo – ma con la borsa di studio per il dottorato posso al limite permettermi una notte brava ad Acqui Terme.
Non potendo viaggiare il corpo, facciamo viaggiare il cervello…


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L’uomo che volò sul tappeto volante

Ho già parlato, estesamente, della mia passione per il lato meno rispettabile e responsabile della storia – quello divertente, insomma.

Un paio di sere or sono, una peraltro discreta pizza è stata turbata dal ritorno al tavolo di un mio personale spettro – e non intendo la ricomparsa di una ex-fidanzata, ma il manifestarsi del povero Chris McCandless, protagonista di una delle storie più popolari fra una certa fetta di pubblico negli ultimi anni.
In breve – Chris è giovane, sensibile e desideroso di libertà.
Si laurea a pieni voti.
Scappa di casa.
Vagabonda a lungo per l’America.
Poi decide di andare in Alaska senza alcuna preparazione.
Muore di dissenteria, febbricitante, nella tundra.
Due cacciatori trovano il suo cadavere.

C’è una linea sottile fra eroe romantico e balengo – ed io ho sempre piazzato la buonanima di Chris nel campo della balengaggine conclamata.

Però piace alle donne.
Ah, Chris, vecchio mio, se avessi avuto il buon gusto di non tirare le cuoia nel bel mezzo del niente, ci sarebbe la fila per avere accesso al tuo materiale genetico.
O forse no.
E diventa allora parecchio triste, eh, se per rimorchiare uno deve morire di stenti in Alaska….

Insomma.
La pizza è discreta.
Una delle signore si mette a fare una verbosa eulogia di quel giovane tanto sensibile e tanto spirituale, io dovrei avere il buon gusto di tenere il becco chiuso e aspettare che mi servano la meringata con la cioccolata fusa.
Invece no.
Mai il tipo da starsene zitto, io.
E così, quando spiego che il buon Chris non è esattamente il mio idolo (che al limite, il mio Chris preferito, in Alaska, era Chris Stevens, in Northern Exposure), e che io preferisco quelli che l’avventura la trattano con il rispetto che si tributa ad una bestia feroce, non con l’allegria di una uscita a Disneyland, mi viene fatta la solita, stupida domanda.

Ad esempio?

Ad esempio Richard Halliburton.
Nato nel 1900, si presume morto nel 1939.
L’uomo che attraversò le Alpi con gli elefanti.
L’uomo che si calò in un cenote della morte maya a Chichen Itza.
Che nuotò dall’Atlantico al Pacifico lungo il Canale di Panama, pagando il pedaggio come piccolo natante, e che attraversò a nuoto l’Ellesponto come Lord Byron.
L’uomo che volle ripercorrere la rotta di Ulisse, e che visse da naufrago, come Robinson Crusoe, sull’isola di Tobago.
Che si introdusse di notte nel Taj Mahal per vedere come fosse l’alba vista dalla sommità della cupola.
L’uomo che scalò per primo il monte Fuji in pieno inverno e il primo a scattare una foto aerea dell’Everest.
L’uomo che ricostruì l’ultima spedizione di Hernan Cortez.

“We all have our dreams. Otherwise what a dark and stagnant world this would be … Lord Byron once wrote that he would rather have swum the Hellespont than written all his poetry. So would I!

“Sometimes, once in a long, long while, sentimental dreams come true. Mine did, and it was as colorful and satisfying as all my flights of fancy had imagined it would be.”

— Richard Halliburton, The Glorious Adventure

Basso, mingherlino, quasi certamente omosessuale, con una storia di malattie trattate in maniera traumatica dalla clinica del Dr Kellog (quello dei cereali, vero scienziato pazzo che usava enemi ed elettroshock per curare qualsiasi cosa), il giovane Dick scoprì da studente che si poteva guadagnare un buon gruzzolo scrivendo di viaggi, e tenendo conferenze pubbliche.
Amante dell’avventura, non gli parve vero che qualcuno fosse disposto a pagare perché lui si divertisse.
Nel ’31, sulla base di un accordo verbale, organizzò un giro del mondo in biplano. La storia è raccontata in The Flying Carpet – da Los Angeles a Damasco passando per Timbuktu, poi via verso la Via della Seta, l’India, l’Everest, Sarawak.
Sarawak!
E poi via, Manila, San Francisco…
Un anno di avventure.

In his Wright-powered Stearman biplane, The Flying Carpet, piloted by one Moye Stephens, Halliburton rode leisurely from London to Manila. On the way they stopped at Timbuctoo, spent two months with the French Foreign Legion in Morocco, visited Petra, Bagdad, India’s Taj Mahal, claimed the first airplane photograph of Mt. Everest (Halliburton publishes a blurry picture which he says was taken at 18,000 ft.), were entertained by Dyak headhunters.
The Times, lunedì 14 novembre 1932

[Nota: quel “certo Moyne Stevens” sarebbe poi diventato uno dei principali collaudatori di velivoli sperimentali della USAF]

Il classico giovanotto americano di belle speranze con una gran voglia di vedere il mondo, Halliburton fu nel divulgare le proprie aventure molto meno provinciale e burino di tanti suoi connazionali – prima e dopo.
I suoi libri sono divertenti, ben scritti e catturano quella strana atmosfera fra le due guerre, un periodo in cui pareva che tutto fosse possibile.

Dick Halliburton venne visto per l’ultima volta il 24 marzo 1939, nel bel mezzo di un tifone a circa 2000 miglia dalle Midway.
Stava cercando di navigare con una giunca cinese da Hong Kong a San Francisco.

Richard Halliburton aveva un buon rapporto con la propria famiglia.
Aveva un sacco di amici.
Non era indigente.
E se è vero che viveva le proprie avventure per danaro – a fronte di contratti con sponsor e con case editrici, con riviste e stazioni radiofoniche – basta leggersi qualche pagina del suo primo libro The Royal Road to Romance, del 1929 (100.000 copie vendute, una delle quali, usata allo spasimo, è arrivata avventurosamente sul mio scaffale un paio d’anni or sono), per rendersi conto che ci sarebbe andato, a Timbuktu, a Petra, alla Cajenna, nel Borneo e sul Mar della Cina, anche gratis.
Anche a piedi.
Non aveva clamorosi problemi psicologici.
Non aveva nulla da dimostrare.
E forse non cercava nulla –  se non ciò che gli sarebbe capitato di trovare.

Sett’antanni dopo la sua scomparsa, rimane il mio genere di avventuriero.
Uno le cui avventure non hanno doppifondi.
Uno che rimorchiava da vivo.


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Sull’importanza di avere in borsa un grosso paperback

Mio fratello è appena tornato dalla Germania.
Piacevole esperienza lavorativa.
Buona occasione per incontrare persone spesso solo conosciute via web, per visitare luoghi sconosciuti, per cambiare aria.
Unico problema – si è scordato di mettersi in borsa un grosso paperback.
Errori di gioventù.
Cerchiamo di sopperire con un bel pork chop express alla vecchia maniera…
Seguirà, spero, dibattito.

Per grosso paperback intendo un bel volumone massiccio e tascabile, che viaggi dalle parti dell 800 pagine.
[Nota – alcuni integralisti preferiscono il rilegato rigido – questioni di budget e sviluppo muscolare, credo… E d’altra parte, in certe occasioni…]

Esempi classici?
IT di Stephen King è il primo titolo che salta alla mente.
O Il Signore degli Anelli di Tolkien.
Anche se io opterei forse per meno pagine e mi butterei su Dune, di Frank Herbert.

Jonathan Strange & Mr Norrell, di Susanna Clarke, è un altro ottimo esempio.

Ma a questo punto perché non buttarsi sui classici?
Io personalmente ho una certa parzialità nei confronti di Charles Dickens – le edizioni Penguin si reperiscono per qualcosa come sei euro la copia, e Pickwick Papers o Bleak House sembrano perfettamente adatti alla bisogna.

E poi ci sono quelle massicce antologie anglosasosni, i nuovi pulp.
Qualsiasi cosa si reperisca in rete col titolo di “The Mammoth Book of <metteteci l’argomento che volete>” è certamente perfetto.
Oltretutto li pubblicano su una varietà infinita di argomenti…

E poi c’è tutta la saggistica.

E nel campo del fumetto, le 1800 pagine della recente ristampa di Bone dovrebbero soddisfare anche i più esigenti.
Certo pesa.
https://i0.wp.com/www.cartamedievale.it/images/bibbia.jpg
Ai vecchi tempi La Bibbia era la risposta a tutte le necessità, ma in questi tempi di integralismo rampante è bene farci attenzione.

Eviterei invece di dizionari – a meno che non si tratti di qualcosa di spaventosamente eccentrico, come lo Hobson-Jobson
Anche se, andando in viaggio all’estero, magari un buon vocabolario potrebbe servire.

The World’s Most Dangerous Places, di Robert Young Pelton è altresì decisamente consigliato come opzione.

Insomma, se state per partire per un viaggio in terre sconosciute – o anche conosciute – fate un salto in libreria, cercatevi un bel libro economico e spesso, e cacciatelo in borsa.
Battere le bancarelle dell’usato è anche un’ottima strategia evolutiva.

A che scopo scammellarsi il tomo?

Un bel libro spesso può svolgere una infinità di funzioni essenziali.
. potete usarlo per isolarvi dalla realtà che vi circonda – compagni di scompartimento invadenti? Ficcate il naso in un bel libro spesso e dall’aspetto esoterico, e vi lasceranno in pace (probabilmente pensando che siate un po’ strani).
. d’altra parte, un bel librone spesso è frequentemente lo strumento ideale per attaccare discorso con persone interessanti
. e in linea di massima potete usarlo per darvi un tono.
. potete scambiarlo in segno di amicizia con compagni di viaggio (è qui che il paperback “pesa meno” del rilegato rigido)
. potete usarlo come base di interessanti ed istruttivi giochi di società per passare il tempo (la numerazione delle pagine può sostituire il lancio di dadi, ad esempio…)
. con un po’ di fieldcraft, poteteusarlo come base per un codice segreto per comunicare con chi è rimasto a casa (ma a questo punto, dove siete andati in vacanza?)

E poi ci sono le emergenze vere; sorvoliamo sulla solita storia della pistolettata/coltellata parata dalle pagine di un libro, ma consideriamo seriamente che…

. dovendo dormire sulla nuda terra (capita), potete usarlo come poggiatesta – non sarà granché, ma gli antichi egizi si accontentavano anche di meno
. come diceva Cohen il barbaro nei romanzi di Terry Pratchett, con un bel libro spesso ci si scalda per tutto l’inverno
. … e sempre prendendo una dritta dal buon Cohen, un dotto tomo di antica sapienza può rimpiazzare quell’oggetto che è il vertice della civiltà – la carta igienica.
. potete usarlo come moneta di scambio in caso d’emergenza – un buon paperback vale di solito tra il tramezzino e il pacchetto di sigarette, a seconda di dove vi trovate, ma potete anche scambiarlo per un litro d’acqua fresca o un biglietto del tram.

. … e parlando di biglietti – potete usarlo per riporvi il biglietto di transito, del tram o del treno, per evitare attacchi di panico fantozziani alla comparsa del controllore
. un buon paperback ha poi di solito abbastanza spazi bianchi per prenderci degli appunti rapidi – un indirizzo, un numero di telefono…

E naturalmente, se proprio vi state annoiando, in una speduta stanza d’albergo in Germania, con l’effetto neve sul televisore e alla finestra, potreste provare a leggerlo.

I passaggi noiosi (immancabili in un libro spesso – Tolkien docet) servono poi naturalmente da sonnifero in caso di insonnia.

Oh, già, dimenticavo – provate a fare altrettanto con un e-book….

Altre idee, là fuori?

[immagini da Morguefile e da cartamedievale.it]


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In Xanadu

Oggi, William Dalrymple ha un sontuoso sito internet, con i dettagli dei suoi volumi, la sua biografia, il calendario delle sue prossime conferenze.

Un serio accademico, Dalrymple, specializzato nella storia del vicino e e medio Oriente e dell’India.
Un autore raffinato, ben documentato, con parecchi premi all’attivo.

xanaduMa a ventidue anni, sconosciuto ricercatore universitario, dalrymple si imbarcò in una avventura che, narata nel suo proimo libro, rimane ancora oggi, a mio parere, la sua cosa migliore.

L’idea è semplice – nel 1987, per la prima volta in cinque secoli la Via dela Seta è completamente aperta e ragionevolmente pacifica, e ciò permetterebbe a persone disposte a tutto di ripercorrere i passi di Marco Polo.
Dalrymple e la sua fidanzata sono pronti a tutto.
Finché lei non lo molla ad una settimana dalla partenza.
Salvo poi tornare in seguito – ora fidanzata con un altro – quando William ha già trovato una nuova compagna d’avventure in una inflessibile viaggiatrice anglo-indiana.
Tra imbarazzi, incidenti di percorso e reminiscenze del Milione, In Xanadu non è il miglior libro al mondo sulla Via della Seta – ma ci va maledettamente vicino.

Un enensimo esempio di cosa si può fare durante un anno-buco, quando si è giovani e si ha coraggio.


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Carampane

Rientrato dalla Sardegna.

Splendida città, Cagliari.

Splendida classe i partecipanti al mio corso.

Splendida accoglienza da parte dei colleghi dell’ateneo cagliaritano.

Ottimo albergo.

Cucina eccellente a prezzi modici.

DDN - MeridianaPoi arrivi in aeroporto e Meridiana ti infligge un’ora di ritardo per motivi di turnamento macchina (eh?) e tu rimani in balia delle carampane.

Queste signore sulla cinquantina abbondante, inguainate in improbabili pantaloni stretch bianchi e con discutibili maglioncini ornati di strass, accompagnate da cagnolini minuscoli e detestabili, abbarbicate a cellulari dalle suonerie barocche, che sono in grado di generare il caos anche nella situazione più piana e lineare di questo mondo.
Del tipo: siediti e leggi un libro per un’ora finché non arriva l’aereo.

Ma loro no.
In coda al check-in rallentano la procedura di registrazione raccomandando alla hostess di far arrivare il bagaglio a destinazione “e non perderlo chissà dove” (neanche la povera signorina inuniforme dovesse scammellarsi di persona la Samsonite fuchsia della madama).
In fase di perquisizione antiterrorismo, piazzano le proprie cose sul ripiano della macchina a raggi in modo tale che questa si blocchi, ma poi, non vedendo riemergere i propri averi, acusano chi le precedeva in coda di averli intascati… e si, questa è decisamente dedicata alla “signora” che mi ha apertamente dato del ladro perché non trovava “i soldini” che erano rimasti a bloccare il nastro trasportatore. Come se io – che stavo facendo il giocoliere per rimettere nella borsa il mio PC portatile – avessi avuto il tempo, la necessità o l’inclinazione di arraffare i suoi sette pidocchiosi euro e cinquanta fottuti centesimi.
In fase di decollo, poi, si voltano per intimare a chi siede dietro di loro di spegnere il cellulare (“Non voglio mica morire!”) ma poi, in fase di atterraggio, sfoderano il loro aggeggio e ci berciano dentro, avendolo tenuto acceso per tutta la trasvolata.

E ci si domanda… ma da dove arrivano?
Quale pernicioso fenomeno culturale ha generato questa manica di sciattone offensive e svergognate, cattive e sfrontate?
Facciamo due conti – cinquant’anni nel duemila e sette, vent’anni nel settantasette.
La generazione che aveva i poster dei Pooh e di Baglioni, la generazione orfana dei Beatles, la generazione della TV in bianco e nero e di Rischiatutto, di Paura di Volare e di Guerre Stellari…
Pauroso.
Chissà come sarebbero venute su, le carampane, se avessero già avuto Marylin Manson e Jackass…


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Gli anni-buchi

Io invidio i britanni.

E qui i miei amici possono far partire la prima salva di pernacchie, palline di carta e pop-corn.

Raccontaci qualcosa di nuovo, possono dire. Sono più di trent’anni che fai tutto ciò che è in tuo potere per somigliare ad uno dei perfidi albionici, ed ora ci presenti questa tua invidia anglofona come una scoperta?
E vai con la seconda salva.

No, sarò più preciso.

London-Phone-Box-Poster-C12105403E’ ovvio che invidio i britanni per la loro superiore struttura universitaria, per le loro biblioteche aperte anche di notte, per i loro musei estesi per ettari, per le loro librerie ampie come musei, per la BBC, the Guardian, la possibilità di impiego per studenti nel loro futuro ambito lavorativo, la politica più trasparente, per la puntualità della metropolitana e per il clima più vicino al mio carattere, per i berrettini di tweed, i live dei Jethro Tull e il fish & chips, ma nello specifico, in questo momento, il fatto è che io invidio i britanni per una singola loro peculiare tradizione.

Il gap year.

L’anno-buco.

Si tratta di una semplice pratica per cui un ragazzo – fra la fine delle scuole superiori e l’inizio dell’università, oppure fra la laurea e il dottorato, o fra la laurea e il primo lavoro – si prende un anno libero.

L’anno-buco.

C’è chi gira il mondo, chi fa volontariato all’estero, chi si guarda attorno…

185458328XEsistono agenzie specializzate nell’offrire pacchetti integrati – a prezzi modici – per favorire lo spostamento all’estero durante il gap-year.
Esistono manuali per pianificarlo con cura.
L’anno-buco.

Forse un’eredità della sette/ottocentesca pratica del grand-tour, la pratica dell’anno-buco è seguita nelle isole britanniche, in Olanda, in Australia, e in parte anche negli Stati Uniti.

Partono, girano il mondo con pochi soldi ed una giovanile voglia di vedere cosa ci sia oltre l’orizzonte.
Poi tornano a casa e si rimettono al lavoro.

Noi no.

Oh, badate, io ne ho avuti parecchi, di anni-buchi.
Uno l’ho trascorso in uniforme mimetica e anfibi, fra le risaie del Novarese, per servire la Patria.
Sottopagato e a considerazione zero.
Facevo il telefonista.
Un altro anno-buco l’ho trascorso in uno sgabuzzino di una cooperativa del settore telecom in via Principe Tommaso, per pagarmi le tasse universitarie.
Sottopagato e a considerazione zero.
Facevo il telefonista.
Ed un terzo anno-buco l’ho passato appena laureato, ad accompagnare mia mamma avanti e indietro dal San Giovanni vecchio, dove faceva chemioterapia.
Fiscalizziamolo come volontariato.

Ma sono ingiusto e disonesto – ho anche trascorso un anno-buco con il progetto Erasmus, proprio nella terra dei britanni,proprio nelle loro eccellenti università, aziende, musei, librerie.
Certo, se l’Università di Torino non avesse fatto difficoltà, dopo, a riconoscermi gli esami che l’Università stessa aveva pagato affinché sostenessi all’estero, sarebbe stato più piacevole.

emigrantiEd è questo, il punto.
Noi siamo quelli che, sulla carta, sono pieni d’avventura e spirito d’iniziativa, pronti a tutto.
Poeti, santi e navigatori.
Ma quando arriva il momento, alla notizia che trascorrerete i prossimi sei mesi a scavare fossili nel deserto dell’Australia, la vostra famiglia si stravolge, i vostri amici decidono che siete dei cretini, la vostra università fa spallucce e chiunque possa ostacolarvi o dissuadervi (o per lo meno provarci) si fa avanti, mentre assolutamente nessuno vi semplifica la vita.

E pensate cosa potrebe accadere se vi presentaste ad un colloquio di lavoro e doveste ammettere che, si, in effetti siete laureati da un anno, ma gli ultimi dodici mesi li avete trascorsi facendo trekking nel Caucaso…

Eppure Marco Polo, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Nobile, Desio, Quilici…

Al che io sviluppo una teoria.
Pessima, cinica, in odore di darwinismo sociale, ma statemi dietro…
Noi siamo sempre stati un popolo di viaggiatori, e ne sia prova la gran quantità di italiani che troveretesparsi per il mondo.
Ecco.
Non sarà che con i grandi movimenti di emigranti degli anni duri, abbiamo eliminato dal patrimonio genetico nazionale la voglia di viaggiare?
Non è che tutti quelli con lo spirito e le palle per farsi un anno-buco sono emigrati, e qui sono rimasti solo i sedentari?

Io comunque, un anno-buco VERO prima o poi me lo prendo.
A costo di fare come Travis McGee… ma questa è un’altra storia.