Zombies, man. They creep me out.
Stuzzicato da Celio Vibenna, torno al corto I Love Sarah Jane, ai non morti alla catena e ai non morti in genere.
È ora di pork chop, e del genere che preferisco – scritto di getto, magari non esaustivo ma per lo meno, mi auguro, stimolante.
La questione è – cosa c’è di apprezzabile in un film farcito di turpiloquio e di violenza gratuita?
A parte il fatto che dura 12 minuti, e che gli attori sono decisamente convincenti?
E la questione va ad incagliarsi su una serie di altre mie preoccupazioni, prima fra tutte quella che l’orrore – e soprattutto l’orrore cinematografico, soprattutto la gran massa di orrore di dozzina riversato annualmente sugli schermi – sia nocivo al pubblico, causando una sorta di desensibilizzazione del pubblico verso gli orrori reali.
Ma procediamo con ordine…
La narrativa fantastica in genere costituisce uno strumento – sarei tentato di dire il migliore strumento a nostra disposizione – per esplorare e compiere degli esperimenti con quegli elementi della nostra realtà che sarebbero altrimenti, per diversi motivi, intoccabili.
Con la narrativa fantastica possiamo esaminare storie alternative, confrontarci con intelligenze pari alla nostra o superiori, ma radicalmente diverse dalla nostra, possiamo cercare di immaginare la reazione dell’uomo davanti alla catastrofe, al meraviglioso, alle ineluttabili conquiste del progresso, al Male assoluto e così via.
La funzione sociale del fantastico è quindi più complessa, per dire, di quella del poliziesco.
Il poliziesco, per lo meno all’origine, deve essenzialmente rassicurare il lettore – esiste un ordine, questo ordine viene perturbato dall’azione criminosa, ma poi la normalità viene ristabilita dall’investigatore, che scopre il colpevole, sul quale verrà fatta giustizia.
Nel fantastico la rassicurazione non è garantita: la perturbazione della normalità potrebbe essere permanente, e l’esperimento condotto dall’autore si andrà allora a concentrare su come i protagonisti dovranno adattarsi a questo nuovo stato delle cose.
Nel caso dell’orrore, per lo meno alle origini, la funzione di rassicurazione sociale del poliziesco viene sovrapposta all’impermanenza del fantastico (e non sorprende, visto il ruolo di Poe nel definire entrambi i generi): lo status quo viene perturbato dall’irruzione del mostruoso, l’ordine viene ristabilito, ma permane la consapevolezza che le cose non saranno mai più come prima, per lo meno per i protagonisti immediati della vicenda.
Impalettare Dracula non basta a cancellare la consapevolezza dell’esistenza del vampiro e, per estensione, l’esistenza di un super-predatore desideroso di abbeverarsi alla nostra carotide collettiva.
Distruggere il Mostro di Frankenstein non basta a cancellare la consapevolezza che la vita non è un miracolo ma una serie di reazioni elettro-chimiche.
Prendere a pistolettate l’Uomo Lupo non cancella la consapevolezza che esiste un lato animale nell’uomo che può essere risvegliato senza preavviso e prendere il sopravvento.
Impedire a R’lyeh di emergere dai flutti non cancella la consapevolezza del fatto che il morto Cthulhu giace sotto all’oceano, e sogna, e noi siamo i corn flakes per la sua colazione.

Per questo, se vogliamo, nella narrativa orrifica è spesso più interessante ciò che accade dopo.
Prima c’è la paura, la minaccia, la partita del gatto col topo, lo scontro fra l’ingegno umano e il soprannaturale.
Bello.
Ma, e poi?
Curiosamente – o forse no – l’unica branca dell’orrore ad essersi concentrata sul dopo è quella che fa riferimento allo zombie.
Mostro atipico per molti motivi, lo zombie, che nasce direttamente sullo schermo senza antenati letterari degni di nota, anonimo, massificato.
I primi zombie cinematografici sono bassa manovalanza, ben poco orrifiche marionette prive di volontà nelle mani di un malvagio di turno – che di solito li incarica di eliminare l’eroe, ma non prima di aver rapito la sua bella.
Solo in un secondo tempo si arriva ad un orrore più vispo e sgambettante – l’idea che il malvagio di turno possa tramutare l’eroe in zombie e che quindi, per estensione, noi tutti si sia alla mercé dello stesso destino, ridotti a pupazzi che caminano come semiparalitici e si esprimono a grugniti. Morti ambulanti, privi di dignità.
Poi, finalmente, complici probabilmente L’Invasione degli Ultracorpi e Io Sono Leggenda, l’idea del contagio entra nel genere, trasformandolo.
Ciò che ci promette lo zombie non è, come nel caso del vampiro,
l’ingresso in un club privato di gente molto cool, quasi dei supereroi
anemici, ma la riduzione a carne ambulante, affamata di cervelli, priva
di coscienza, consapevolezza, dignità, individualità.
Non c’è nulla di seducente, di sexy nello zombie.
È come finire a fare l’operaio in linea alla FIAT.
E qui le cose si mettono subito malissimo: perché se lo zombie può creare altri zombie per contagio, ben presto il mondo sarà zeppo di cadaveri ambulanti, la società collasserà e noi ci ritroveremo assediati…
La Notte dei Morti Viventi di George Romero descrive proprio l’assedio e, per la prima volta, ci dà uno sprazzo di luce sul dopo.
E il dopo, ci dice Romero, è pessimo – perché quelli che hanno i cojones per sopravvivere alla minaccia zombie, quelli che ce la fanno nonostante tutto, non sono necessariamente persone piacevoli.
La vecchia società spazzata via dalle orde dei non morti lascia il posto ad una società di survivalist che hanno fatto fortuna: si immaginano battute di caccia allo zombie con grigliata e birra per tutti, scontri fra gladiatori non morti e quant’altro.
Partendo da questa base, le storie di zombie migliori degli ultimi anni hanno lavorato, da una parte, sul significato socio-politico dello zombie, visto come sottoproletariato che avanza, e dall’altra sulla natura della società dopo la Notte, l’Alba, il Giorno o il Week-end o il Ponte di Ferragosto dei Morti Viventi.
La tendenza più recente – con L’Alba dei Morti Dementi (si noti la tag-line sul poster) e Fido – è quella di descrivere un apparente ritorno alla “normalità”, ma con in più il ritorno dello zombie alla sua originaria posizione di bassa manovalanza: un accessorio per la playstation in modo da poter giocare anche “da solo”, un servo obbediente e decerebrato per la casalinga che ha tutto.
La società sopravvive e trionfa, ma ancora una volta a trionfare sono gli elementi peggiori.
Non più, tuttavia, i good old boys degli anni ’70/’80 ma i capitalisti rampanti, rappresentanti di una società consumista e ipocrita, votata al guadagno anche in faccia all’orrore.
Ne deriva una società spudorata, che non ha rispetto neanche per i morti.
In questo senso, il filmetto di dodici minuti I Love Sarah Jane incapsula tutto quanto, appunto, in dodici minuti.
Quando il film si apre la minaccia zombie sta rientrando, pur non essendo ancora stata debellata, ma c’è già chi ha trovato il modo di divertirsi a spese dei non morti.
Un divertimento rozzo, certo – il decespugliatore non è la playstation, ma ci sono un sacco di ragazzini là fuori che hanno più facile accesso al primo che non alla seconda.
Quelli che di recente, per “scaricare i nervi” hanno cominciato a rigare automobili a caso, ad esempio.
Quelli che per passare la serata, o il pomeriggio, incantonano un cinese, una ragazza, un disabile, un barbone, uno troppo alto o troppo basso, troppo magro o troppo grasso, o semplicemente vestito del colore “sbagliato”, e “ci si divertono”.
Come i migliori film dell’orrore, I Love Sarah Jane è apprezzabile perché ci mostra noi stessi, nella nostra funzione di mostri.
Che potremmo essere.
E che in alcuni casi siamo già.
Deprimente, ma anche istruttivo.
Ha inoltre il pregio di lasciarci sul finale una speranza, in quello che è, a ben guardare, un gesto di pietà verso ciò che non è semplicemente “un ca**o di zombie”.