Qualche giorno addietro, in maniera quantomai velata ma inequivocabile, mi è stato detto che gli autori veri sono quelli che hanno il coraggio di affrontare la dura e inflessibile selezione di una casa editrice.
Significa “mettersi in gioco”.
Decidere di autopubblicarsi è “la strada più facile”.
Da autore ibrido – che quindi si autoproduce ma pubblica anche con case editrici vere – la cosa mi ha urtato profondamente.
La stupidità spacciata per saggezza ha sempre il potere di farmi infuriare.
E avevo anche preparato un bel post, a riguardo, incentrato soprattutto sulla paura, e avrei voluto postarlo sabato.
Poi non mi è parso il caso.
Ma l’irritazione profonda è ancora lì, e quindi, riproviamoci oggi.
Pork chop express, ladies and gentlemen.
Il primo punto che vorrei fosse immediatamente chiaro è chissenefrega.
Il coraggio, per chi scrive, non si esprime scegliendo di affrontare una giuria di concorso o un comitato editoriale o l’arena selvatica del catalogo KDP1.
Il coraggio si esprime nei contenuti, nelle storie che si scrivono.
La storia è sempre e comunque l’unico e l’ultimo elemento da valutare, l’unica cosa che conta.
Che la storia vi sia arrivata in mano con una bella medaglia di un premio prestigioso, o stampata in una bella rivista patinata, o che l’abbiate trovata arrotolata in una bottiglia sulla spiaggia, inciderà certamente sulla vostra decisione di cosa scegliere di leggere.
Ma non influisce sulla storia.
Non la rende automaticamente migliore o peggiore.
Chi è stato più coraggioso?
Chi ha affrontato l’orco della selezione editoriale, o chi ha affidato la propria storia ai flutti?
Chissenefrega.
Com’è la storia?
Mettersi in gioco è una bella frase.
Ma mettersi in gioco significa semplicemente affrontare il lettore, presentandogli la nostra storia.
Perché è il lettore il giudice ultimo.
Non la giuria di un concorso, non un comitato editoriale, non le correnti oceaniche o l’algoritmo di ricerca di Amazon.
Il lettore.
Il lettore ha un potere straordinario – quello di prendere il libro e aprirlo, e cominciare a leggere.
Senza il lettore la storia esiste in uno stato di sospensione, come il Gatto di Schroedinger.
Ma esiste, ed è quella, ed è tutto ciò che conta.
L’idea dell’autore coraggioso che si mette in gioco è una bella favola2 che ha il solo scopo di vendere l’autore anziché la storia.
È un modo per dirottare in maniera illecita quel potere del lettore.
È il tentativo di circoscrivere e limitare l’unico fattore che può contrastare il potere del lettore – la storia.
Perché se la storia è orribile, il potere del lettore non può farci nulla – illettore non può cambiare la storia. Può solo chiudere il libro e passare ad altro.
Perciò è utile – secondo alcuni – distrarre il lettore, convincerlo che sì, la storia è orribile, ma l’autore… ah, l’autore! Quanto coraggio!
Per questo mi infastidisce tanto la storiella degli autori coraggiosi che si mettono in gioco e degli autori vigliacchi che invece…
Perché ogni atto che porti la nostra storia in mano al lettore, ad affrontare quel potere spaventoso, ogni singola azione, che sia iscriversi a un concorso, rispondere ad un open call o metter mano a Calibre per creare da sé un file epub o infilare il manoscritto in una bottiglia e gettarlo in mare… ogni gesto che porti la storia a confrontarsi col lettore è un atto di coraggio, e al contempo è l’unica cosa sensata da fare.
Mettersi in gioco, per chi scrive, significa farsi leggere.
Non è nulla di straordinario – è solo il mestiere che si fa per vivere.
- la scelta di autopubblicarsi, l’abbiamo già detto altrove, credo, è una scelta consapevole, non una disperata necessità o un incidente che capita. È una scelta che viene fatta per calcolo… esattamente come per calcolo si sottopone un testo a un editore o a un a rivista o a un concorso. ↩
- il mio amico Germano le chiama storie del cesso ↩
16 novembre 2015 alle 7:02 PM
Suggerisco di iniziare una raccolta di agili aneddoti su pessimi scrittori, sotto l’hashtag #LaLetteraturaFattaCoiCialtroni.
16 novembre 2015 alle 7:52 PM
Non si tratta di cialtronismo dei singoli autori, ma piuttosto di una pessima pratica editoriale (non solo italiana, sottolineiamolo).
Qualche anno addietro circolava narrativa fantastica per ragazzi scritta da ragazzi; chi scrive horror è sempre presentato come una specie di incrocio fra Van Helsing e Elvira Mistress of the Dark; gli autori fantasy come minimo devono essere praticanti dell’EMA, chi scrive thriller deve farsi fotografare imbracciando un kalashnikov ed aver praticato il cage fighting nella periferia di Vilnius…
È un continuo cercare di vendere l’autore e non il libro.
16 novembre 2015 alle 8:01 PM
Rimarco inoltre, da quelle quattro presentazioni che ho seguito quest’anno, che anche l’autore é spesso più impegnato a vendersi che a dire qualcosa di innovativo o almeno degno d’attenzione. Non c’è più molta differenza tra un reading e un colloquio di lavoro.
16 novembre 2015 alle 8:48 PM
Autopubblicarsi è la strada più facile… solo per chi intende aggiungere un altro po’ di cacca a quella montagna di cacca che si può già trovare là fuori. Diversamente, non credo sia poi così facile, anzi