Ho accennato in un post precedente al senso di panico che si prova, completato un lavoro e spedito il manoscritto all’editore, all’idea che non si presentino altre opportunità, che il lavoro appena consegnato sia l’ultimo che riusciremo a vendere, e che la miseria e la disperazione siano in arrivo, appena oltre l’orizzonte.
Una paura legata al fatto che vivere scrivendo èp una miscela di duro lavoro (però divertente) e di fortuna – e nel panorama corrente i segnali sono spesso sconfortanti.
È anche per lasciarmi alle spalle questa angoscia strisciante che anche quest’anno prenderò parte allo #StoryADayMay, una iniziativa in cui i partecipanti si impegnano a scrivere e finire una storia al giorno, per tutta la durata del mese di maggio.
Come ho spiegato altrove, è gratis, è una eccellente opportunità per provare generi, temi e stili diversi dal solito, e mi permette di rifornire il mio serbatoio di racconti da spedire in giro e provare a vendere. E sì, tiene a bada la paura.
È possibile per i partecipanti definire le proprie regole di campo, e nel mio caso, ho deciso che
a . per “storia” intendo sia narrativa che articoli
b . i post sui miei blog non contano come storie
c . le flash fiction sono accettabili
d . mi impegnerò a scrivere almeno 5 storie alla settimana (insomma, mi tengo i weekend liberi) pur mirando a scrivere e finire 31 storie.
Pochi giorni or sono, Neil Clarke, editor della rivista Clarkesworld, ha postato un articolo (che se vi interessa trovate QUI) su come nei primi quindici giorni del mese di febbraio di quest’anno, la sua rivista avesse ricevuto 340 racconti generati da Intelligenza Artificiale – usando ChatGPT o software affini. Trecento e quaranta racconti. Tutti bocciati, e gli indirizzi email dai quali provenivano, messi in blacklist. Editor di altre riviste hanno segnalato situazioni simili.
Una settimana dopo, arriva la notizia che Clòarkesworld ha momentaneamente chiuso alle submissions, perché il diluvio di racconti evidentemente non si è interrotto – e valutare e bocciare le ciascuna storia scritta a macchina richiede comunque il lavoro di un editor. Allo stato attuale, gli editor a disposizione della rivista non bastano. Quindi fermiamo tutto e cerchiamo una soluzione.
Ora, la prima reazione che mi è capitato di sentire, riguardo a questa incresciosa faccenda, fa più o meno così…
gli autori umani saranno sempre superiori alle intelligenze artificiali che si limitano a campionare testi già scritti, per cui non è il caso di preoccuparsi
Ora, questa è una posizione per molti versi condivisibile – io sono fermamente convinto di riuscire, almeno per ora, a scrivere qualcosa di meglio di ciò che potrebbe fare una AI – ma anche molto romantica e, in ultima analisi, irrilevante.
Le persone che hanno utilizzato ChatGPT per generare racconti da mandare a Clarkesworld non sono assolutamente interessate al valore letterario del materiale che hanno inviato. Sono interessate al fatto che Clarkesworld accetta storie da 1000 a 22000 parole, e paga 12 centesimi a parola.
Non sono poveri sfigati incapaci di mettere tre parole in fila, e che tuttavia ambiscono a mettere “Scrittore” dopo il nome nel profilo Facebook, che stanno usando ChatGPT per coronare il loro sogno. Sono scammer, gli stessi che fino a pochi mesi or sono “scrivevano” ebook da postare su Amazon copiando da Wikipedia, o “traducevano” classici fuori copyright con Google Translate, e che in generale gonfiavano il numero di pagine per pompare gli introiti di Kindle Unlimited. Quelli che hanno inondato Amazon di quaderni con le pagine bianche e le copertine fatte con immagini di dipinti fuory copyright. Quelli che gestiscono le clickfarm. Li chiamanobook stuffer.
Ora, un testo di 6000 parole che dovesse passare il filtro degli editor di Clarkesworld mi frutterebbe 720 dollari. Io ne genero 100 con un click, e ci provo. Se anche mi costa un pomeriggio, ogni storia che passa sono 720 euro. Se nessuna passa, ne genero altre 100. E così via.
Quindi ciò di cui stiamo parlando con la letteratura – e tutte le idee più o meo romantiche ad essa connesse – non c’entra nulla.
Il risultato è stato correttamente paragonato ad un attacco Denial of Service – si inonda il destinatario di ciarpame, e quello a un certo punto si blocca. E infatti, dopo tre settimane di attacco, Clarkesworld ha momentaneamente chiuso le porte ad ogni storia – anche a quelle scritte da normali esseri umani.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a molte discussioni online sull’effetto che le Intelligenze Artificiali potrebbero avere sulla possibilità di autori, musicisti e artisti grafici di guadagnarsi da vivere come hanno fatto finora. E sempre è venuto fuori il discorso che “humans do it better” – perché preoccuparsi, quando gli esseri umani hanno quella scintilla in più, la creatività, l’istinto, la musa, l’ispirazione…?
La risposta a queste obiezioni è duplice.
Al primo livello resta valido il punto che esistono persone alle quali della scintilla creatrice umana non frega niente se l’alternativa è riuscire a non pagare scrittori, traduttori e artisti. E prima che ve ne dimentichiate, noi viviamo in un paese in cui a suo tempo un editore si vantò pubblicamente di avere un grande successo semplicemente perché “io non pago nessuno”.
Ma il secondo livello è più sottile, e meno evidente – almeno finché non guardiamo a Clarkesworld, ed alla coda di lettura momentaneamente chiusa.
Filtrare il ciarpame sovraccarica di lavoro extra gli editor, che invece di doversi leggere 20 racconti ne devono leggere 200. Questo significa che, se non si cambia il sistema, i tempi di accettazione per le storie valide si allungano. Clarkesworld (che nel corso degli ultimi tre anni, incidentalmente, ha rifiutato una dozzina mie storie), di solito spedisce la lettera di rifiuto nel giro di tre giorni. Questo è bene, perché vuol dire che dopo soli tre giorni posso provare a vendere la storia che mi hanno rifiutato a qualcun altro, che magari la compra, e io pago la bolletta della luce. Se i tre giorni dovessero diventare trenta, o novanta, la mia storia rimarrebbe bloccata molto più a lungo – e per me sarebbe un danno economico, perché avrei le mie opportunità di vendita molto più diluite nel tempo.
Una alternativa, ovviamente, è assumere più editor e più lettori. Che tuttavia devono essere pagati – e devono essere in gamba, per mantenere il livello qualitativo della rivista. Vogliamo anche evitare che un editor sovraccarico di lavoro o meno che competente bocci una storia autentica scambiandola per una storia farlocca – anche se l’adozione di criteri di valutazione più restrittivi resta probabile, e quindi il rischio di venire esclusi per errore aumenta (un altro problema che danneggia gli autori). Più editor in gamba da pagare può significare tre cose, tre diverse possibilità:
1 . restando immutati i fondi, si pagano di meno gli autori; e questo mi danneggia sul piano economico.
2 . per coprire le nuove spese, tocca aumentare il costo della rivista o dell’abbonamento, con una possibile flessione delle vendite – il che significa che non è una soluzione, e rischia di limitare la circolazione della rivista, o addirittura portarla alla chiusura; e questo per me è un danno, sia per le mie entrate che per il mio brand, che per il fatto che il numero di mercati a cui spedire le mie storie si riduce.
3 . si chiede un contributo di lettura agli autori – il che significa che mi tocca pagare per sapere se la mia storia verrà acquistata e pubblicata oppure no; e per me questo è chiaramente un danno economico, perché capovolge la direzione del mio flusso di cassa (spesa certa a fronte di entrata incerta).
Il punto tre è stato anche proposto come modo per limitare le submission farlocche – se il mio scammer deve spedire 100 storie, e per ciascuna deve spendere 5 euro, non le spedisce. Il bene trionfa.
Ma che dire di tutte le persone che verrebbero danneggiate da una simile policy? Perché io 100 storie al mese non le spedisco, ma magari 5 sì. E magari per me 25 euro vanno e vengono. Ma ci sono persone che vivono in posti o si trovano in situazioni per cui anche solo 5 euro sono tanti. Si tratta di un ostacolo in più – grande o piccolo che sia – e che non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità della scrittura.
Divago un secondo: io ho cominciato a scrivere racconti quando avevo 15 anni, e ho cominciato a ragionare sull’idea di spedire le mie storie all’estero quando ne avevo circa 18. Ma era un’epoca in cui i cavalli andavano ancora a carbone, per cui spedire una storia ad Asimov’s (per dire) richiedeva che il dattiloscritto venisse spedito fino a New York, con acclusa una busta col mio indirizzo per la risposta/restituzione del manoscritto, e 4 International Reply Coupon o Buoni di Risposta Internazionale. Che all’epoca a Torino si poteva acquistare solo alla Posta Centrale, e spesso toccava ordinarli e aspettare che arrivassero. Era una spesa, un notevole dispendio di tempo, ed un rischio – ed io non avevo (giustamente) una fiducia sufficiente nelle mie storie per buttare tutto quel lavoro e quei (pochi) soldi. Con l’avvento di internet è cambiato tutto – e la mia prima vendita professionale risale al 1998, quando avevo da un paio d’ani una connessione a internet e di anni ne avevo 31. Click, e poi dita incrociate. Una serie di ostacoli essenzialmente economici e logistici hanno frenato la mia “carriera” per tredici anni. Non una tragedia, o forse sì – chi può dire? Però non voglio che altri vadano a sbattere contro freni del genere.
Richiedere un pagamento – così come l’altra idea, chiedere che i testi siano dattiloscritti o scritti a mano anziché in formato digitale – frenerebbe forse le AI e gli scammer che le usano, ma renderebbe la vita molto difficile a un sacco di gente … e ad un sacco di gente in situazioni già critiche: i poveri, coloro che vivono in nazioni meno che illuminate, persone con diversi tipi di disabilità fisiche…
E qui qualcuno potrebbe dirmi, ma questi, poveri e disabili che vivono in un paese di merda, avrebbero anche il tempo per scrivere e la presunzione di pubblicare? Non hanno preoccupazioni più urgenti?
Ed è così che la scrittura diventa un giocattolo per i ricchi. Che poi i ricchi in questoi caso saremmo poi noi, vale a dire coloro che si possono permettere l’euro, o i cinque euro, o i dieci, per spedire la storia agli editor. E senza voler essere offensivo nei confronti di nessuno dei presenti, saremmo tutti dei ricchi abbastanza miserabili.
Però piace, a molti, questa idea del fatto che scrivere sia un hobby per spacciarsela, e non un lavoro per pagare i conti. Magari un giorno ne parleremo.
La soluzione più probabile, naturalmente, è quella di usare un’AI contro le AI – adottare dei software antiplagio, che filtrino i racconti e cestinino in automatico le storie fasulle. Ma attenzione – non dimentichiamo che software simili hanno a suo tempo bloccato il file audio del miagolio di un gatto identificandolo come musica coperta dal copyright della EMI. Un filtro alimentato da una AI non garantisce risultati corretti al 100%, specie all’inizio. Storie scritte da autori umani verrebbero certamente scambiate per storie fatte a macchina, e cestinate.
Non se ne esce, e come spero sia chiaro da ciò che ho scritto qui sopra, le meravigliose qualità umane della creatività e dell’ispirazione, che rendono le nostre opere sempre superiori all’output di un software, non c’entrano assolutamente nulla.
Stiamo semplicemente assistendo allo sversamento di una quantità enorme di spazzatura all’interno di quello che era, finora, un ecosistema sano. L’effetto è quello solito, di danneggiare l’ecosistema e i suoi abitanti. E poi per ripulire il sistema dalla spazzatura, toccherà spendere un sacco di soldi, e fare dei sacrifici.
la cosa è partita da una discussione, qualche giorno addietro, col mio amico Germano, riguardo a Bruce Lee ed al Jeet Kune Do. Le conseguenze di questa discussione emergeranno, probabilmente, con l’anno che viene, ma per intanto io mi sono fatto un giro sul catalogo della Shambhala Press, e saltando da una categoria all’altra, mi sono ordinato, per tre euri croccanti, una copia “usata ma in buone condizioni” di Writing Down the Bones, di Natalie Goldberg.
Il libro della Goldberg lo lessi, nell’edizione italiana pubblicata da Ubaldini (la memoria mi dice Astrolabio, ma Google mi dice Ubaldini), ai tempi dell’università, e rimane probabilmente il librosulal scrittura che è più probabile che io consigli se mi viene chiesta un’opinione a riguardo. L’ho riletto spesso, in questi anni, e mi pareva una buona idea, ora, quasi trent’anni dopo la prima volta, ridargli un’occhiata in originale. E poiché io i libri sullo zen li compro sempre e solo di seconda mano, ecco la mia copia “usata ma in buone condizioni”. Questo significa, purtroppo o per fortuna, a seconda di come la volete vedere, che non mi sono potuto procurare l’edizione dle 30° anniversario, ma una copia vetusta della prima edizione.
Nel caso specifico, “usato ma in buone condizioni” significa con la copertina decisamente malandata, con pieghe e sfregi diversi. Le pagine sono ingiallite, piegate e macchiate dall’umidità – la copia è una prima edizione del 1986, ed ha visto un bel po’ d’azione in questi trentasei anni. Ad una prima occhiata non pare ci siano annotazioni a margine – un peccato, per molti versi.
Writing Down the Bones, che in italiano si intitola Scrivere Zen, è un libro sulla pratica della scrittura come pratica di meditazione, e mira a rimuovere le barriere che eisstono fra la nostra mente e lapagina bianca. Non perde tempo con lo show-don’t-tell e l’infodump, non tira in ballo Aristotele o Jacques Cousteau, ma si focalizza sull’idea di scrittura come esperienza e come pratica. Sottolinea non solo gli aspetti intellettuali ma anche quelli fisici, dell’atto della scrittura. È disordinato e sorprendente, perché è stato scritto seguendo i precetti che va ad illustrare. Ha una voce unica, e delle idee molto interessanti. Pone una grande enfasi sulla scrittura a mano, con la penna ed il quaderno. La mano non deve mai fermarsi è uno dei precetti centrali del libro. Ed è un libro che parla davvero di filosofia zen, a differenza di quell’altro, che c’ha lo zen nel titolo ma non c’entra assolutamente nulla.
Focalizzato com’è sull’atto di scrivere, Writing Down the Bones non fa riferimento a generi, stili, scuole. È adatto allo stesso modo per chi scrive racconti o romanzi, saggi o articoli, per chi vuol semplicemente tenere un diario o scrivere poesie. È ridotto all’osso, non promette successi commerciali, fama, fortuna e gloria. Scrivete quello che vi pare, vi dice, e come vi pare. L’importante è continuare a scrivere. È praticamente perfetto.
È, a modo suo, il primo volume di una trilogia – che comprende anche Wild Mind e The True Secret of Writing … altri due libri usatissimi, qui sul mio scaffale. Mi manca Thunder and Lightning, che scopro esistere solo ora, scrivendo questo post. Presto, spero… magari come primo libro dell’anno.
È l’ultimo libro del 2022, e paserò qualche ora a rileggerlo, mentre aspetto la mezzanotte. Poi, magari, nel 2023, parleremo di Jeet Kune Do. O forse no.
E sì, ci sono link commerciali in questo post, coi proventi dei quali acquisterò, probabilmente, altri libri di seconda mano sulla filosofia zen – o magari sul Jeet Kune Do.
Questo è un post di dubbia utilità, che nasce da una chiacchierata fatta un paio di giorni or sono, con un amico, riguardo al fatto che sto leggendo un libro di grammatica inglese – e non è il primo (e forse non sarà l’ultimo). Questo ci ha portati a discutere di quali sono i libri che mi tengo a portata di mano quando scrivo, come materiale di riferimento.
Ed è qui che il post può essere di dubbia utilità – perché io ormai scrivo prevalentemente in inglese, e quindi i miei volumi di riferimento sono in inglese. Io resto dell’idea che quando si tratta della nostra scrittura, sia importante fare riferimento a manuali relativi alla lingia in cui scriviamo – perché lingue diverse hanno regole diverse, strutture diverse, e i testi sui quali impariamo dovrebbero tenerne conto. Questo vale per le grammatiche come per i manuali di scrittura – che di solito fanno riferimento alla lingua, al mercato ed all’ecologia editoriale, per così dire, oltre che alle esperienze personali, di chi li scrive.
È per questo che trovo alquanto dubbia la venerazione che tanti guru nostrani della scrittura – e per riflesso i loro assistiti – paiono avere per Strunk & White, Elements of Style. Sì, lo so, Ike Asimov giurava e spergiurava sullo Strunk & White, e mi pare che anche Stephen King lo citi nel suo manuale, però il manuale di Strunk & White fa riferimento alla grammatica inglese, non a quella italiana. Ci sono delle diferenze. Io, scrivendo in inglese, potrei forse usarlo ma, in primis, è zeppo di errori (usa una forma passiva per dirci di non usare forme passive, e poi porta alcuni esempi di forma passiva che non sono forme passive … e questo è solo uno dei molti esempi disponibili), ed è un manuale comunque mirato alla scrittura di relazioni e tesine per liceali e universitari, e la narrativa è una cosa diversa.
E allora cosa? Il mio amico Germano, che fa l’editor per la lingua italiana, suggerisce di leggersi la grammatica italiana – edizione Zanichelli, mi pare – ed ha ragione. Tutte le convenzioni (perché questo sono le regole della grammatica) sono raccolte là dentro. Potrebbe essere sufficiente.
Grammatica
Per la grammatica della lingua inglese, il testo più popolare – che ho qui sull’hard disk in versione elettronica, e del quale vi piazzo anche il link commerciale (sapete come vanno queste cose) – è Woe Is I: The Grammarphobe’s Guide to Better English in Plain English (Fourth Edition), di Patricia T. O’Conner, che risolve rapidamente tutti quei dubbi malsani che vengono scrivendo, e quegli errori barbini che spesso vengono segnalati dall’editor in fase di revisione – pronomi sbagliati, forme verbali farlocche, strutture che non vanno da nessuna parte. È ben scritto, scorrevole, non troppo tecnico ed è facile trovare i diversi argomenti e farsi un ripasso veloce.
Io la grammatica dell’inglese l’ho studiata alle medie – e poi di nuovo al liceo – ma prima di cominciare a scrivere in inglese, nel lontano 1997, non ci avevo mai badato granché se non per passare le interrogazioni a scuola. Anche per il latino era la stessa cosa, al liceo – traducevo abbastanza bene, pur senza ricordarmi nulla della grammatica.
Ma scrivere – o tradurre professionalmente – è una faccenda completamente diversa. Bisogna conoscere le regole della grammatica ed applicarle. Come dicevo sopra, si tratta di convenzioni – e mutano col tempo, per cui è necessario mantenersi aggiornati.
Oltre al volume della O’Conner, ho sulla scrivania una copia cartacea del Penguin Dictionary of English Grammar, che è infinitamente più arido e schematico, ma che è facile da sfogliare alla ricerca della risposta a qualche dubbio. Vi ho piazzato un link commerciale – ma su Amazon conviene cercarne una qualche copia usata, che si può reperire a meno di un terzo del prezzo di copertina.
E sullo scaffale ho una copia del Deluxe Transitive Vampire, di Karen Elizabeth Gordon, un volume uscito nel ’93 che illustra tutte le parti più intricate della grammatica inglese con esempi tratti da romanzi gotici. la versione Deluxe è rilegata rigida e piacevolmente illustrata, ed è ormai un libro costosissimo. È alquanto bislacco – e parte di una serie che include una guida al lessico ed una all apunteggiatura – ma è anche un piacevole antidoto ai testi più paludati. E di solito quando ci si diverte si memorizzano più facilmente i vari concetti, ed il vampiro transitivo È divertente.
Stile & Uso
La grammatica è essenziale per non commettere svarioni, e costituisce – ne parliamo fra un attimo – una forma di stile. Ma esistono diversi stili e usi differenti, che fanno sorgere questioni come quale preposizione regga una certa forma verbale in una certa specifica circostanza – e qui spesso grammatica ed uso comune vanno in conflitto. Può essere utile, perciò, un manuale di stile.
La Penguin, nella stessa collana del dizionario di grammatica, ha anche un Writer’s Handbook – che è poi una guida allo stile, come Strunk & White o il Chicago Manual of Stile – ma io uso invece una vetusta (e quindi probabilmente sorpassata) versione del Fowler’s Modern English Usage, edito da Oxford (e scritto, ovviamente, da Fowler). Ne ho una copia cartacea sulla scrivania, ed una digitale sull’hard disk. A differenza di Strunk & White, il volume di Fowler non contiene errori di grammatica, si guarda bene dall’assumere quel tono vagamente autoritario che pare minacciarvi di rappresaglie fisiche se piazzate un avverbio fra il “to” ed il verbo all’infinito (to boldly go…) ed è scritto col tono abbastanza snob dell’Inghilterra degli anni ’30. È in effetti un manuale di stile ed uso comune della lingua inglese parlata nei paesi civili – e usarlo come riferimento può dare in alcuni casi dei problemi con gli editor americani. Come dicevo, la mia copia oltretutto è vetusta – ed in effetti Oxford ne ha due nuove edizioni, una standard ed una “concisa”. Ora si chiama New Fowler’s Dictionary of Modern English Usage. Un titolo, ne sono certo, che Fowler stesso avrebbe ironicamente criticato come troppo lungo e faticoso.
Spero sia chiaro che questo genere di “manuali di stile” non si propongono di insegnarci a sviluppare uno stile nostro, ma piuttosto quali convenzioni modifichino o alterino le regole dell agrammatica standard – rendendo ad esempio certe forme più accettabili di altre. C’era una cosa simile, per la lingua italiana, negli anni ’80, intitolata Come Parlare e Scrivere Meglio, di Gabrielli & Salmaggi. Ha quarant’anni, e quindi non è certo al passo con l’attuale stato della lingua italiana, ma è una lettura estremamente divertente. Buona caccia.
La questione dell os tile e dell’uso viene anche affrontata da un testo che ho già citato più volte in passato, Artful Sentences: Syntax as Style, di Virginia Tufte – che è un colossale compendio ed analisi di diverse strutture sintattiche e di come l’ordine in cui disponiamo le nostre parole sulla pagina possaa alterare non solo il significato della frase, ma anche il ritmo, e la percezione del lettore. Questo non lo tengo a portata di mano sulla scrivania – ma è sullo scaffale, di fianco al vampiro transitivo.
Dizionari & Affini
Computer e internetavrebbero reso – secondo alcuni – obsoleto il buon vecchio dizionario. Ne abbiamo uno integrato nel nostro software di scrittura (insieme ad un autocorrettore e ad altre meraviglie), eattraverso la rete possiamo arrivare rapidamente a dizionari online, wikipiedia e quant’altro.
Io preferisco avere a portata di mano una copia cartacea di un buon Thesaurus – che sarebbe quello che noi chiamiamo Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari – per la lingua inglese. Ne esistono una quantità, e sono particolarmente utili in fase di revisione, quando ci rendiamo conto che il notro testo è zeppo di ripetizioni. Nello specifico, io uso il vecchio (2013) Oxford Paperback Thesaurus – che si può acquistare su Amazon usato per meno di tre euro. Sul PC, Artha è un buon software gratuito e cross-platform che funziona come thesaurus per il desktop per la lingua inglese.
C’è poi il Dictionary of Phrase & Fable, che sarebbe un dizionario delle forme gergali, delle frasi fatte e dei riferimenti culturali. Molto utile sia per scrivere che per tradurre. Quello storico è il Brewer, ma anche in questo caso conviene recuperarne uno aggiornato – perché i riferimenti culturali, ovviamente, evolvono molto rapidamente (ma hanno anche una estrema persistenza). Lo stesso vale per un dizionario delle forme idiomatiche. La rete può ovviamente sopperire, ma il volume cartaceo è spesso più rapido.
Un buon investimento, infine – se si traduce o se si scrive narrativa – sono un paio di dizionari di slang. Anche di questi, ne esistono dozzine – dai molto generici ai molto specifici (per epoca, regione, categoria). Possono essere estremamente utili – ma anche qui, la rete offre abbondanti alternative.
E questo è, grossomodo, tutto. Per riassumere – una buona grammatica, un manuale di stile e un dizionario dei sinonimi e dei contrari. Questo è l’indispensabile, per ciò che mi riguarda. E questo, io credo – e soprattutto la grammatica – dovrebbe venire prima dei corsi di scrittura e dei seminari su come essere autori che scrivono giusto. Potrebbe persino permetterci di farne a meno. Ma è, ovviamente, solo la mia opinione.
Nell’ultima settimana, attraverso il meraviglioso strumento dei post sponsorizzati su Facebook mi sono stati offerti cinque (CINQUE) corsi di scrittura – più una fantomatica “masterclass” sullo stesso argomento. I corsi vanno dall’estremamente generico (“scopri il piacere della scrittura!”) al ridicolmente specifico (“scrivi fantasy come Brandon Sanderson”), ed hanno un costo che oscilla dai 350 ai 2000 euro. Sono tutti offerti da scuole di scrittura con nomi tra il roboante e l’accattivante, e tenuti da persone che coprono lo spettro cha va da “e questo chi è?” alle risate isteriche, “ma che, davvero?!” Uno dei corsi prevede che io parta con tenda canadese e sacco a pelo per andare a scrivere fra le montagne con una banda di sconosciuti “aspiranti scrittori” … e se non è l’incipit di un film horror indipendente questo, non so davvero cosa sia.
E potrei anche dire che, dopo sei anni ormai passati a pagarmi i conti scrivendo, essere martellato da questo continuo “impara a scrivere!” … “vieni a imparare come si scrive!” … “pubblica finalmente il tuo romanzo!” … ecco, non è che faccia benissimo alla mia sindrome dell’impostore … oddio oddio hanno scoperto che non ho idea di come si faccia. Ma è un momento, e poi mi ricordo che no, ho una buona idea di come si faccia, e la mia banca lo può confermare (sono, in effetti, i miei più grandi fan – specie l’ufficio mutui e finanziamenti). Lo possono confermare i miei lettori, i miei editori.
Ora, naturalmente, la strada che porta alla scrittura è diversa per ciascuno di noi, e magari c’è davvero qualcuno che, sperduto fra i monti con un paio di migliaia di euro in meno sul conto, alla disperata ricerca di una toilette che non sia una tana di marmotta e braccato dai montanari mutanti cannibali, trova la propria realizzazione come narratore. E chi sono io per criticare queste persone?
Alla fine è come la persona che, colpita da una malattia odiosa e incurabile, fallito l’intervento di medici e specialisti, alla fine prova anche ad andare dallo stregone, dal guaritore omeopatico di scuola ayurvedica, dal settimino che gli impone le mani. Nessuno può biasimarlo, perché è un suo diritto provare qualunque cosa, davanti alla prospettiva di dover morire.
Possiamo però biasimare, e molto, chi approfitta di questa che è una necessità psicologica di una persona disperata, per farci dei soldi.
I corsi di scrittura – e credetemi, ne ho tenuti, quindi sono stato dall’altra parte della barricata – rispondono ad una forma di disperazione. Meno drammatica certo del sentirsi dire che non c’è cura e non c’è speranza, ma qui non stiamo facendo a gara su chi abbia la disperazione “più importante”.
Ciò che possiamo fare quando teniamo questi corsi è spiegare che non esiste una soluzione uguale per tutti – che l’incertezza è normale, e che esistono pratiche che possono aiutarci a tenerla sotto controllo. Ma promettere la via, la verità e la luce è disonesto.
All’origine di questa che è ormai palesemente una industria è il problema centrale di chi scrive, ed un problema che tutti hanno affrontato quando hanno messo per la prima volta delle parole in fila su una pagina – “come faccio a sapere che quello che ho scritto è giusto“?
E giusto assume significati diversi per diverse persone – ma negli ultimi anni “scrivere giusto” ha assunto il significato di “seguire le regole”. Seguire le regole è in fondo la risposta a quella paura che si diceva. “Ho scritto giusto perché ho seguito le regole. Ergo, il mio è un buon libro.”
È interessante, in effetti, che molti di coloro che, per anni, su blog e forum, hanno insistito sull’importanza suprema delle regole (sempre e solo quelle quattro o cinque regole, non starò a ripetervele), poi si siano messi a offrire corsi di scrittura. “Solo io posso insegnarti le regole per scrivere giusto. Vieni con me fra le montagne, ma prima caccia i danari…”
Sorvoleremo qui sul fatto che spesso queste persone non hanno alcuna esperienza di prima mano dell’atto della scrittura, ma sono semplicemente lettori – ed è un po’ come se l’essere assidui spettatori di gare di Formula 1 li qualificasse ad insegnare la guida ad alta velocità.
Ma no, restiamo focalizzati su questo fatto, che esiste una persona o, sempre più spesso, una organizzazione, che a fronte di un pagamento in denaro – un pagamento salato ma non inavvicinabile, perché sennò nessuno abbocca – vi insegnerà a scrivere.
Loro sanno come si fa, e sono disposti a insegnarvelo. E se alla fine doveste fare un buco nell’acqua, e i vostri racconti dovessero venire usati come esca per il camino dagli editori, beh, siete voi che non vi siete impegnati abbastanza. E poi, certo, c’è il corso avanzato di scrittura, al quale potreste iscrivervi avendo seguito il corso di base…
Dovremmo porci delle domande. È davvero solo una questione di soldi e di applicare una serie di regole? Conta la spesa? Scriverò meglio, seguendo un corso da 980 euro più IVA, di quanto scriverei se seguissi un corso da 350 euro tutto compreso? Ma più importante, c’è davvero una formula, e alcuni che la possiedono sono disposti a condividerla con noi, e dopo tutto andrà bene? È alla fine scrivere un libro come preparare una teglia di lasagne – basta seguire la ricetta e rispettare i tempi di cottura? E se è così, perché ci sono al mondo così tanti ricettari, con così tante ricette diverse per le lasagne, e comunque nostra nonna ride di loro e fa a modo suo e le sue lasagne sono un sogno?
Ma certo, le lasagne sono una cosa diversa – mi basta assaggiarle per sapere se le ho preparate “giuste” oppure no. Ma ciò che scrivo? Come faccio a sapere che la mia storia funziona, che non mi rideranno in faccia, che qualcuno sul suo blog non la smonterà riga per riga dandomi del ritardato mentale davanti a un pubblico che nei commenti farà a gara a chi riesce ad essere più odioso? Posso farla leggere alla mamma, o alla fidanzata, o agli amici, ma cosa ne sanno, quelli? Ho bisogno di qualcuno che sia autorevole, e che mi liberi da questa paura. Qualcuno che, metaforicamente, assaggi le mie lasagne dall’alto della sua esperienza, e a fronte di un pagamento e magari una gita fra i monti insieme ad altri aspiranti creatori di lasagne, mi dica come aggiustarle, metaforicamente, di noce moscata…
Il punto alla fine è questo – tutti hanno paura. Nessuno sa come si scriva “giusto” … nessuno sa davvero cosa sia giusto o sbagliato. Stiamo tutti improvvisando. Ciascuno di noi sfrega assieme due idee, decide (forse) una struttura, buttagiù un paio di dialoghi, prova a vedere dove andrà questa storia… Magari riscrive, magari decide di buttare tutto e ricominciare da capo. L’unica cosa che conta davvero è la pratica. È la pratica che ci dice quali regole applicare, e dove, e quali ignorare. La pratica che ci dice che queste due idee sono promettenti mentre quelel altre dodici sono belle, sì, ma non funzionano, non qui, non ora, magari la prossima volta. È la pratica che ci dice che, arrivati alla fine, sì, è una storia decente – e ci spinge a superare l’orrore di spedirla a uno sconosciuto che valuterà se pubblicarla oppure no.
Ciò che un corso di scrittura può fare è mettere ordine nelle nostre esperienze, e fornirci degli esempi, e degli strumenti (le più volte reiterate regole) che tuttavia starà a noi decidere – sul campo e a seconda delle circostanze – come, e quando, e perché usare. Se vogliamo usarli. I corsi servono ad evitare che noi si debba reinventare la ruota, ma se poi usarla per costruire una carriola o per aprire una bottega di ceramista, quello sta a noi deciderlo. Il resto è pura improvvisazione, una certa dose di incoscienza, ed una buona quantità di paura.
Questi corsi ci promettono la libertà da questa paura. Ci promettono di liberarci dall’incertezza e dal dubbio. Hai spuntato tutte le caselle giuste, puoi stare tranquillo. Alla prova dei fatti, non basta. Quell’incertezza e quel dubbio sono parte dell’esperienza, esattamente come il divertimento e i momenti di frustrazione.
L’importante è essere consapevoli che i corsi, così come i manuali, servono solo a fornirci gli strumenti, e starà poi a noi decidere come usarli. Le regole della scrittura, come dice un mio buon amico, sono solo convenzioni – e quindi si possono cambiare. Cambieranno, che ci piaccia o no. Conoscerle è utile, usarle è una questione di esperienza e di pratica, non di formule precotte.
Qualche anno addietro ho postato sul mio blog in inglese un corso di scrittura gratuito in una sola pagina – ed ha avuto un certo successo, anche se alcuni l’hanno considerato uno scherzo o una parodia. Ho una mezza idea di ampliarlo, tradurlo e distribuirlo di nuovo gratis. Poche pagine, che potrete portare comodamente con voi in montagna…
E torniamo a parlare di memoria, in un certo senso. Me ne sto seduto qui, in attesa di iniziare a registrare la nuova puntata di Chiodi Rossi, e faccio scorrere la pagina di Facebook. Mi capita sotto gli occhi il post di un editore che si congratula con se stesso per il successo di una sua antologia. Il nostro bestseller e tutto quel genere di cose.
Ed io ricordo quando venni contattato dall’editor di quella antologia, che mi disse che avevano chiamato tutti quelli veramente in gamba, e io non ero uno di loro. Però ora uno di quelli in gamba aveva dato picche, e loro erano a corto di una storia. Per cui serviva qualcuno che scrivesse un racconto, su un tema predeterminato sul quale sarebbe stato necessario documentarsi alla svelta. E consegnare il lavoro in un mese. Meglio prima. “Non c’è budget, ma sarebbe l’occasione per pubblicare con un grande editore.”
Nel caso non foste avvezzi al linguaggio che si usa “nell’ambiente”, “non c’è budget” significa “non verrai pagato.”
Io dissi picche. In primis perché non lavoro gratis, se non per beneficenza – nei limiti del possibile cerco di dare una mia storia a qualche progetto di raccolta fondi ogni anno. E secondariamente perché la mia storia avrebbe certamente abbassato il livello dell’antologia in cui c’erano tutti quelli veramente in gamba.
Ed ora il volume è un best seller. E sottolineo seller.
Com’è facile, in questo paese, perdere delle grandi occasioni, eh?
Quando una recensione così fa la sua comparsa – e capita, naturalmente – la reazione dell’autore va più o meno così.
1 . Trenta secondi di profondo dolore. È un racconto sul quale hai lavorato per due settimane a tempo pieno, e ci hai messo il meglio di quel che sai fare. Che venga liquidato in due paragrafi fa male.
2 . Un breve ed acuto attacco di panico. I tuoi racconti sono il biglietto da visita. Questo è un disastro. La tua credibilità è distrutta. Questo editor non ti comprerà mai più una storia. Poi si spargerà la voce. La tua carriera è finita. Come farai ora a pagare i conti?
3 . Cinque di minuti di consapevolezza. Le recensioni negative succedono – non possiamo piacere a tutti. Ed essere considerata la storia più debole in una antologia popolata di autori eccellenti non è una condanna a morte, per quella storia. E naturalmente l’editor ha approvato la storia, ha suggerito modifiche che hai apportato, e l’ha comprata – è ragionevole che sia delusa almeno quanto lo sei tu, ma sarebbe poco professionale a fartene una colpa. E tu lo sai che è un’ottima professionista. La prossima storia verrà passata al pettine fine ma – attenzione – questo è bene. È interese di tutte le persone coinvolte produrre il miglior racconto possibile, per la miglior raccolta possibile. Quindi niente liste nere o defenestrazioni. Prendi un bel respiro. Non è successo nulla di troppo grave. E tra l’altro…
4 . La recensione è onesta, equilibrata e motivata. Puoi solo imparare da ciò che ha detto il recensore.
E quindi niente, fine attacco di panico, fine dolori momentanei, fine preoccupazioni sciocche: la recensione c’è, e la si condivide come si condividono tutte le altre. Anche perché la copertina è fantastica, e la collezione è davvero ottima. E intanto, si lavora alla prossima storia.
5 . Dannazione, questo racconto non potrà concorrere allo Scribe l’anno prossimo! Vorrà dire che proveremo a concorrere con un romanzo.
6 . Pensa le risate degli haters. Già. Datti una pacca sulla spalla: anche oggi abbiamo portato un raggio di luce nella vita miserabile di questi poveri disgraziati.
Ricordo ancora con un misto di affetto malato e desiderio di morte il blogger che, una decina di anni or sono, aveva preso l’abitudine di recensire i miei ebook senza leggerli, ed appioppando a tutti loro dei giudizi pessimi. Non aveva bisogno di leggere ciò che scrivevo, spiegava, per sapere che era terribile, in quanto sapeva che “Mana non crede nelle regole della scrittura.” Talvolta mi domando, nelle lunghe notti di luna piena, cosa ne sia stato di quel tale. Ma capita di rado, e presto mi dimentico di lui. Però… In realtà quella frase, quel “non crede nelle regole della scrittura” era asinina ed imprecisa – sono fermamente convinto che esistano delle regole, ma concordo anche con la buonanima di Rudyard Kipling…
“There are nine and sixty ways of constructing tribal lays, And every single one of them is right!”
Kipling, In the Neolithic Age, Stanza 5, 1892
In altre parole, esistono delle regole, una quantità di regole, e sono tutte giuste; e quelle che vanno bene per me potrebbero non andare bene per altri. E anche, le regole che si applicano al mio lavoro attuale potrebbero non funzionare per il mio prossimo lavoro. Chi vi dice il contrario probabilmente non sa di cosa sta parlando, ma vuole vendervi un corso di scrittura.
Ora, nel mio post di ieri citavo la faccenda degli avverbi e di Stephen King
La strada per l’inferno è lastricata di avverbi
Stephen King, On Writing, 2000
… ed illuminata dai crani fiammeggianti di sedicenti editor, aggiungo io.
E il libro di King è certo uno dei manuali di scrittura più venduti al mondo, e compare con regolarità sugli scaffali di un sacco di autori affermati, e di un sacco di aspiranti scrittori. La cosa interessante è che tuttavia non si tratta del manuale più popolare in quella fascia intermedia di scrittori che campano scrivendo, spesso a malapena, sfornando racconti e novelle per le riviste di genere di medio livello. I cosiddetti midlister, categoria in via di estinzione da vent’anni almeno – ma ragazzi, siamo ancora qui, più coriacei e duri a morire del celacanto. Nel caso di questa gente, il manuale che è normalmente in mostra sullo scaffale non è On Writing. È Techniques of the Selling Writer, di Dwight V. Swann. Conosco di persona un sacco di gente che giura e spergiura su questo libro.
Dwight Vreeland Swain, classe 1915, aveva la faccia del genere di persona che vive vendendo assicurazioni sulla vita e tronchesine per unghie, ma era in realtà uno scrittore. Negli anni del crepuscolo dei pulp pubblicò un buon numero di storie, su riviste come Fantastic Adventures e Imagination, storie con titoli improbabili come Henry Horn’s X Ray Eye Glasses (1942) o Bring Back My Brain! (1957). Ma voi potete ridere quanto vi pare – Dwight V. Swain scriveva e ci pagava i conti, e questo era ciò che importava. Negli anni ’50 si allargò al campo della sceneggiatura, specializzandosi nello scrivere documentari e video didattici – dobbiamo a lui la struttura narrativa standard dei documentari in uso ancora oggi. Nel 1965, mentre insegnava scrittura all’Università dell’Oklahoma, Swain scrisse Techniques of the Selling Writer, e da allora il volume è andato un paio di volte fuori catalogo, ma è rimasto nel cuore di una vasta comunità di scrittori, che se lo sono procurato di riffa o di raffa – di seconda mano, ristampato in ebook, rubato dalla biblioteca… Altri manuali seguirono, soprattutto sul tema della sceneggiatura, ma Techniques rimane, a 57 anni dalla sua uscita, il testo di riferimento di un sacco di gente, ed il best-seller nel catalogo di Swain.
Lo scrittore che vende, in quanto professionista orientato ad una attività commerciale, non può permettersi di scrivere testi che non siano gradevoli e/o eccitanti. Poiché sono principalmente arnesi del mestiere, queste tecniche hanno poco o niente a che vedere con la qualità letteraria o l’assenza della medesima. Nessuno scrittore le usa tutte. Nessuno scrittore può evitare di usarne alcune. Quanto bene vi potranno servire dipende da voi stessi. Sono, in poche parole, trucchi e tecniche dello scrittore che vende. Sono tutto ciò che questo libro ha da offrire.
Dwight V. Swain, prefazione, Techniques of the Selling Writer, 1965
Mi è venuto in mente, il libro di Swain, perché dopo aver parlato della sintassi come stile, nel lavoro di Virginia Tufte, mi sono ricordato che Swain, nel suo manuale sostiene che ci sono solo quattro cose che uno scrittore deve saper fare per scrivere una buona storia – e la prima di queste quattro cose è disporre le parole in un ordine tale da creare “unità di motivazione ed azione”. In altre parole, la sintassi come stile. Bello liscio – e sei anni prima che Virginia Tufte pubblicasse il suo infinitamente più accademico ma altrettanto influente e popolare saggio.
Pragmatico fin dalla copertina, il testo di Swain è asciutto, didascalico – sembra davvero un manuale di istruzioni per fare la manutenzione di un motore. Ho visto ricettari scritti con più eleganza e più ricchezza artistica. Swain non usa lo stile colloquiale e aneddotico di King. È freddo e diretto, fatto di liste numerate e di istruzioni che sono, sì, davvero degli strumenti, degli arnesi … cacciaviti e piedi di porco, chiavi inglesi e grimaldelli. Il genere che con il tempo e l’uso si adatterà alla mano di chi li utilizza. Non c’è nulla di romantico, in questo libro, e nell’attività che descrive. Scrivere è un duro lavoro, ed esistono attrezzi che ci permettono di renderlo meno faticoso, meno frustrante. Questo libro è la scatola degli attrezzi.
Per cui sì, il manuale di King è certamente molto più divertente da leggere. Ma noi, ci piega Dwight Swain, non siamo qui per divertirci.
Con buonapace di antichi blogger dimenticati, ho letto decine e decine di manuali di scrittura. E Techniques of the Selling Writer non è probabilmente il mio manuale preferito, ma è certo uno di quelli per i quali provo il maggior rispetto, insieme con Creating Characters, How to Build Story People, che il settantacinquenne Swain scrisse nel 1990, due anni prima della propria morte, espandendo uno dei capitoli di Techniques. Perché era uno scrittore commerciale, e quindi non buttava via nulla.
Amazon (e sì, c’è un link commerciale in questa pagina) ha ancora una singola copia cartacea dell’edizione del 1981 di Techniques, a un prezzo salato ma accettabile. L’ebook ha un prezzo da capestro, ma è perché si tratta di uno di quei libri che, se scrivete, dovete leggere. E poi avanti, costa infinitamente meno di molti corsi di scrittura tenuti da personaggi alquanto dubbi, che vi rigurgiteranno in gola King e Vogler malamente digeriti.