strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Automatici e Industriali

Mi è capitato di leggere una cosa, su Facebook.
E sì, lo so, su Facebook bisogna andare per le foto delle modelle discinte e per i test per scoprire se siamo più ninja o più pirata, o quale dei personaggi di One Piece ci assomiglia di più.
Lo so, avete ragione.
Ma a me è capitato di leggere un pezzo in cui ciò che scrivo – fantascienza, fantasy, thriller, horror – veniva definito “narrativa industriale” ed io, che da qualche anno orma mi giuadagno da vivere (a malapena) scrivendo, ricadrei nella categoria degli “scrittori automatici”, che sfornano a tempo di record valanghe di ciarpame.
Un modello americano, a quanto pare, che si va affermando anche da noi.
Chi pratica questa forma di creatività è obbligato a correre per stare nello stesso posto, e conduce quindi un’esistenza miserabile.

Da qui si è passati a stigmatizzarte il vezzo dei “giovani scrittori” di voler vivere di scrittura, e a lamentarsi del fatto che non ci riescono – quando tutti i grandi nella nostra antologia delle medie facevano altro e scrivevano nel tempo libero, oppure si facevano mantenere dal consorte, e spessissimo si pubblicavano a proprie spese.
In Italia quindi non si può vivere di scrittura, fatevene una ragione.

E ammattiamolo, trovo molto dumasiana l’idea di sposare una ricca vedova per poi poter impunemente perseguire i miei malaugurati sogni di scrittura.

Trovo anche profondamente stupido e arrogante il discorso nel suo insieme, e sommamente insensato il suo richiamo al passato.
È sempre stato così, bimbi, rassegnatevi.

È un discorso doppiamente elitario.
È elitario nel sostenere che la letteratura di intrattenimento è priva di valore. Poco importa se nel leggere un romanzo piliziesco, una storia di fantascienza, un’avventura fantastica, una persona trova un minimo di piacere durante la sua giornata. Questo non ha alcun valore. È “narrativa industriale”.
Ed è elitario perché considerando la scrittura un’attività per chi ha già una fonte di reddito (o una persona che paghi i conti), limita questa attività a certe fasce privilegiate. Gli “scrittori automatici” sono un’aberrazione, gente troppo povera per poter scrivere davvero, e che ricorre quindi all’escamotage di scrivere in fretta, e in questo modo sì, pagano i conti, ma non fanno certo la bella vita.

Perché in fondo è questa, l’immagine che risiede nella testa di queste persone – lo scrittore come aristocratico che crea opere eccelse e le pubblica a spese della moglie ricca, mentre lui passa da un vernissage a una cena elegante, fumando sigarette turche e sorseggiando laphroaig.
Ed i lettori per riflesso sono membri della stessa ipotetica cultura.

Aristocratici che scrivono per gli aristocratici (autori che creano letteratura), quindi, oppure poveracci che scrivono per i poveracci (scrittori automatici che creano narrativa industriale).

C’è quasi il dubbio che i miserabili non potrebbero comunque scrivere altro che ciarpame, anche se non fossero obbligati a farlo per pagare i conti.
Perché, sapete, quelli così non possono farte altro.
Lo sapete anche voi, come sono quelli lì, vero?

È una posizione che dimostra disprezzo tanto per chi scrive che per chi legge, per l’atto creativo e per la dignità del lavoro di scrittura, e paradossalmente getta una luce positiva sull’editoria a pagamento, che garantisce la pubblicazione a quei fini intelletuali che non hanno bisogno di scrivere per pagarsi i conti.

Non so se io provi più raccapriccio per chi propone certe teorie o per chi entusiasta applaude… sì, è proprio così. Ci sono troppi scrittori. C’è troppa libertà…

Forse è la forma mentale di chi si è scordato il piacere di leggere, ed ormai legge per segnalare la propria appartenenza a una elite.
Leggere per sentirsi superiori.

Sono atteggiamenti che mi fanno infuriare, perché segnalano un ambiente in cui io non solo non posso esistere, ma non ho il diritto di esistere.

Ma che t’importa?, mi direte voi.
Tu scrivi per il mercato di lingua inglese. Questa gente neanche ti vede.
Ma io vedo loro, e tanto basta.

Torno a scrivere il mio romanzo coi soldati giapponesi zombie, che verrà pubblicato senza bisogno che io faccia ricorso alle casse di una ricca vedova…


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Lavori in Corso & Cose a Venire

Secoli addietro, quando ancora esisteva una blogsfera e la vita intelligente non era ancora migrata su TikTok per morire, succedeva che una volta o due all’anno venissero postati sui blog degli aggiornamenti sulle attività dei blogger.
Ma se è vero che la blogsfera è estinta, strategie – complice l’isolamento imposto da Fecebook – esiste in una sorta di valle perduta, come la Terra Dimenticata dal Tempo o la Terra Cava.
Qui la vita intelligente (o un’accettabile imitazione di essa) esiste ancora, e quasto è un post di aggiornamento, con un paio di iniziative pianificate per il futuro.


Il mese di Luglio è stato caratterizzato da una pessima accoppiata di temperature torride (mai meno di 35°) e umidità da spavento (anche 80%), e scrivere è stato un tormento.
Ma ora siamo scesi attorno ai 30°, è un po’ più ventilato, e ci siamo presi tutti un fastidioso raffreddore.
Possiamo ricominciare a scrivere.

Al momento ho tre storie in preparazione (una weird, una sword and sorcery e una di fantascienza) , per coprire altrettante call con scadenza a fine agosto.
La settimana passata ne ho chiusa appena in tempo una horror – speriamo che piaccia all’editore.

Intanto, sparo di iniziare a breve – appena firmato il contratto – un lavoro di traduzione su due romanzi, che promette di tenermi impegnato almeno fino a gennaio.
Ma ne riparleremo a contratto firmato, per scaramanzia.

A settembre parteciperò, come outsider, alla Conan Readathon.
L’idea è di rileggere tutti i racconti di Conan scritti da Howard, e postare a riguardo – un post a racconto, o un post ogni due/tre racconti.
L’evento principale è su Youtube, ma io farò la mia parte, credo postando in esclusiva su Karavansara, con degli extra per i miei Patron (le persone più pazienti della terra).


Al momento, su Karavansara, sto facendo una serie di post dal titolo My summer with Yoko – nei giorni in cui il caldo era soffocante, ho iniziato a (ri)leggere i fumetti di Yoko Tsuno, del belga Roger LeLoup, come modo per spolverare il francese. E già che c’ero, per ciascun albo ci faccio un post (originariamente a tarda notte, per sfuggire alla calura).


Sempre su Karavansara, vorrei anche riprendere a parlare di film di avventura basati sulle Mille e Una Notte (anche detti Tits and Sand) a di Indiana Clones.
Ho qui la mia copia di Kim Newman’s Video Dungeon che ha un ricco capitolo intitolato “High Adventure” che potrei usare come lista della spesa – sperando che i film listati da Newman siano facilmente reperibili.

Frattanto, considerando che sono come un naifrago in un paese senza pulman dall’ultime settimana di luglio fino alla fine di agosto, ho iniziato un diario irregolere su Patreon, intitolate 40 Giorni.
Così, tanto per farmi compatire dai miei Patron e sentirmi meno solo.

Sempre per Patreon (dove non l’ho ancora neanche annunciato – ne parlo qui ed ora per la prima volta) sto per avviare un progetto che chiamerò, credo, Marginalia (a meno che non mi venga in mente qualcosa di ancora più pretenzioso).
La cosa funzionerà così – intendo rileggere (spulciare sarebbe forse il termine più esatto) i vari testi sulla scrittura che ho qui per casa, sottolineando e annotando i passaggi che ritengo più utili e interessanti. Perché se è vero che credo di non avere, al momento, nulla da insegnare sulla scrittura, posso comunque compilare un mio compendio di consigli altrui, con note e riflessioni mie.
Un corso di scrittura destrutturato, se volete.
Con il twist (perché ci vuole un twist) che non mi limitero ai manuali di scrittura – perchè si possono trovare idee utili alla scrittura nei manuali di cucina, nei libri per prestigiatori, a nei testi sulle arti marziali (per tacere dei libri sul taoismo).
I miei appunti verranno pubblicati (mi piacerebbe due volte la settimana) come dicevo, su Patreon – così se qualcuno se li volesse riciclare per i suoi corsi di scrittura che vende a caro prezzo, almeno mi dovrà pagare un abbonamento.

E a questo punto di carne al fuoco credo di averne a sufficienza.
Ma sono sicuro che mio verranno altre idee.
Le idee sono la merce più a buon mercato, nella Valle Perduta dei Blogger.

PS: quasi dimenticavo di dirvi che ci sono dei link commerciali in questo post, coi quali intendo carpire i vostri preziosi centesimi.
Per fortuna me ne sono ricordato, sennò qualcuno mi segnalava di nuovo al Gran Dio Facebook, dicendo che sono un malvagio…


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Contro ogni regola

L’aristocratico Paarfi di Roundwood è uno scrittore e sedicente storico, appartenente ad un ramo cadetto del clan del Falco, in Dragaera, il cui catalogo al momento include una duologia, una trilogia ed un romanzo stand-alone, e la cui opera sembra studiata a tavolino per la dannazione di tutti coloro che hanno speso un certo numero di banconote da cento euro in corsi di scrittura ed un certo numero di ore a spulciare blog e canali Youtube nei quali si parla delle regole della buona prosa.
Paarfi di Roundwood è prolisso ed ampolloso, inutilmente dispersivo e particolarmente ripetitivo. Non manca di infliggere ai suoi lettori lunghi passaggi espositivi, spesso per divagare su questioni personali ed assolutamente irrilevanti (il modo in cui l’autore viene maltrattato dai critici, le proprie vicissitudini accademiche, i propri piccoli drammi sentimentali). Molti dei passaggi espositivi (o infodump, come li chiamano quelli bravi) servono a spiegare ciò che il dialogo ha appena esposto o, peggio, anticipano i contenuti del dialogo che stiamo per leggere.
Ed i dialoghi di Paarfi sono lunghi, legnosi ed inutili, privi di carattere e a volte paiono messi lì solo per allungare il brodo.

“Cosa significa tutto questo?”
“Me lo domandi?”
“Certamente sì.”
“Allora ti risponderò.”
“Ed io te ne sono grato.”
“Eccoti dunque la mia risposta–“
“Non attendo altro.”

Ed ovviamente, Paarfi di Roundwood non manca di raccontare anziché mostrare, ed è – col suo vezzo di rivolgersi direttamente al lettore – un esempio da manuale di narratore onniscente della peggior specie.

Aggiungiamo a coronamento di tutto ciò che i romanzi di Paarfi di Roundtree saranno anche riccamente documentati da fonti storiche – che l’autore non manca di riprodurre sulla pagina nei momenti meno opportuni, spezzando il ritmo dei suoi libri – ma sono e restano dei plagi di Alessandro Dumas.
Paarfi ed il suo editore negano,naturalmente, ma qualunque lettore smaliziato non può non accorgersene.

The Phoenix Guards, originariamente pubblicato nel 1991 nella traduzione di Steven Brust, è la storia di quattro spadaccini in un corpo di elite (le Guardie del titolo) al servizio del loro sovrano, ed è zeppo di intrighi, doppigiochi, duelli e altre cialtronate. Il secondo volume della duologia si intitola Five Hundred Years Later – e vede la riunione dei quattro protagonisti, che si erano divisi alla fine del primo libro; varrà a questo punto la pena ricordare che i romanzi si svolgono in un mondo popolato da creature per le quali cinquecento anni sono, più o meno, come vent’anni per noi.

Eccetera.

La cosa che mi interessa, a questo punto, nel discutere della serie dei “Romanzi di Khaavren” (anche noti come “Romanzi di Paarfi”) di Steven Brust, non è tanto che siano dei fantasy estremamente divertenti, costruiti su trame riciclate dai classici di Dumas, quanto il modo in cui Brust riesca a scrivere dei romanzi che funzionano perfettamente pur contravvenendo a tutte le buone regole della scrittura come ci sono state ripetutamente cacciate in gola da infiniti pedanti.

Nell’assumere la voce di Paarfi di Roundtree – di fatto, un altro personaggio dei romanzi, la cui personalità e la cui storia personale emergono dai suoi continui pistolotti fuori luogo – Brust può infischiarsene del Decalogo del Bravo Scrittore ed usare il testo per ottenere tutta una serie di effetti che, nelle mani di un bravo scrittore (e Steven Brust è certamente un bravo scrittore) contribuiscono all’effetto generale: inorridiamo per i capricci dell”autore”, scrolliamo la testa alle sue incontinenze, ma contemporaneamente siamo sufficientemente coinvolti dai protagonisti e dalla trama da non riuscire a fermarci.
A conferma della validità di questo approccio, i romanzi di Paarfi di Steven Brust sono entrati tutti nella lista dei bestseller, hanno venduto a carrettate, ed hanno anche raccattato il plauso della critica.

È quasi come se – orrore e raccapriccio! – le Regole avessero una importanza assolutamente relativa.

Ora, si dirà, quella di Brust è una scelta consapevole, la scelta di un autore che ha imparato ad usare tutti gli strumenti classici nella cassetta degli attrezzi della narrativa e poi ha deciso di farne a meno, ed usarne invece una serie vecchia ed arrugginita, in disuso da secoli.
Una cosa diversa è l’autore alle prime armi, un pretenzioso semi-analfabeta a malapena capace di mettere tre parole in fila, e che quindi deve ringraziare il proprio dio che qualcuno migliore di lui gli abbia impartito una serie di regole tali da rendere leggibile la sua storia.
Brust sta facendo Meta-fiction, mentre l’imbelle autore qualunque pasciutosi ai corsi di quelli bravi probabilmente pensa che Meta sia quello che rimpiazzerà Facebook.

È possibile.

Ma qui, vedete, sorge il vero problema – perché una conseguenza sinistra della prevalenza delle solite quattro regole per principianti, non solo come linee guida per autori alle prime armi, ma anche e soprattutto come standard di valutazione dei lettori e modello imposto dagli editor, significa che tutta la narrativa che abbiamo qualchjje speranza di vedere arrivare sui nostri scaffali è scritta nello stile di un semianalfabeta alle prime armi, al quale qualcuno migliore di lui ha imposto uno schema predefinito.

Da giorni si dibatte, su giornali e riviste che nessuno legge, e su profili facebook e canali Youtube che nessuno segue, di come certi classici siano noiosi, e come converrebbe invece ristrutturare i programmi scolastici, imponendo ai giovinastri la lettura di testi più brevi e scorrevoli, più attuali e meno noiosi – possibilmente i testi degli autori che suggeriscono certi cambiamenti.
Lontano dalle sale dell’accademia e dai media vecchi e nuovi, i romanzi di Paarfi sembrano suggerirci che l’importante sia, quando si affronta la lettura, evitare le standardizzazioni e le ultrasemplificazioni, e cercere invece storie coinvolgenti, stili diversi, differenti voci.
La capacità di apprezzare cibi diversi cucinati in maniere diverse – una capacità alla quale Paarfi di Roundwood dedica un lungo e completamente superfluo capitolo di The Baron of Magister Valley – potrebbe essere desiderabile.

Ma naturalmente, tutto questo è di secondaria importanza, considerando che i romanzi di Steven Brust (una trentina di titoli) nel nostro paese non sono mai stati tradotti – cosa che ci ha perlomeno risparmiato il trauma di vedere il povero Paarfi di Roundtree presentato come Paarfi di Boscotondo.
Niente Brust, niente infrazioni alle regole.
I bambini possono continuare a dormire sonni tranquilli, scevri di infodump e narratori onniscenti…


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#StoryADayMay 2023

Ho accennato in un post precedente al senso di panico che si prova, completato un lavoro e spedito il manoscritto all’editore, all’idea che non si presentino altre opportunità, che il lavoro appena consegnato sia l’ultimo che riusciremo a vendere, e che la miseria e la disperazione siano in arrivo, appena oltre l’orizzonte.

Una paura legata al fatto che vivere scrivendo èp una miscela di duro lavoro (però divertente) e di fortuna – e nel panorama corrente i segnali sono spesso sconfortanti.

È anche per lasciarmi alle spalle questa angoscia strisciante che anche quest’anno prenderò parte allo #StoryADayMay, una iniziativa in cui i partecipanti si impegnano a scrivere e finire una storia al giorno, per tutta la durata del mese di maggio.

Come ho spiegato altrove, è gratis, è una eccellente opportunità per provare generi, temi e stili diversi dal solito, e mi permette di rifornire il mio serbatoio di racconti da spedire in giro e provare a vendere.
E sì, tiene a bada la paura.

È possibile per i partecipanti definire le proprie regole di campo, e nel mio caso, ho deciso che

a . per “storia” intendo sia narrativa che articoli

b . i post sui miei blog non contano come storie

c . le flash fiction sono accettabili

d . mi impegnerò a scrivere almeno 5 storie alla settimana (insomma, mi tengo i weekend liberi) pur mirando a scrivere e finire 31 storie.

E questo è quanto.
Stiamo a vedere cosa succede.


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Trecento e quaranta

Pochi giorni or sono, Neil Clarke, editor della rivista Clarkesworld, ha postato un articolo (che se vi interessa trovate QUI) su come nei primi quindici giorni del mese di febbraio di quest’anno, la sua rivista avesse ricevuto 340 racconti generati da Intelligenza Artificiale – usando ChatGPT o software affini.
Trecento e quaranta racconti.
Tutti bocciati, e gli indirizzi email dai quali provenivano, messi in blacklist.
Editor di altre riviste hanno segnalato situazioni simili.

Una settimana dopo, arriva la notizia che Clòarkesworld ha momentaneamente chiuso alle submissions, perché il diluvio di racconti evidentemente non si è interrotto – e valutare e bocciare le ciascuna storia scritta a macchina richiede comunque il lavoro di un editor.
Allo stato attuale, gli editor a disposizione della rivista non bastano.
Quindi fermiamo tutto e cerchiamo una soluzione.

Ora, la prima reazione che mi è capitato di sentire, riguardo a questa incresciosa faccenda, fa più o meno così…

gli autori umani saranno sempre superiori alle intelligenze artificiali che si limitano a campionare testi già scritti, per cui non è il caso di preoccuparsi

Ora, questa è una posizione per molti versi condivisibile – io sono fermamente convinto di riuscire, almeno per ora, a scrivere qualcosa di meglio di ciò che potrebbe fare una AI – ma anche molto romantica e, in ultima analisi, irrilevante.

Le persone che hanno utilizzato ChatGPT per generare racconti da mandare a Clarkesworld non sono assolutamente interessate al valore letterario del materiale che hanno inviato.
Sono interessate al fatto che Clarkesworld accetta storie da 1000 a 22000 parole, e paga 12 centesimi a parola.

Non sono poveri sfigati incapaci di mettere tre parole in fila, e che tuttavia ambiscono a mettere “Scrittore” dopo il nome nel profilo Facebook, che stanno usando ChatGPT per coronare il loro sogno.
Sono scammer, gli stessi che fino a pochi mesi or sono “scrivevano” ebook da postare su Amazon copiando da Wikipedia, o “traducevano” classici fuori copyright con Google Translate, e che in generale gonfiavano il numero di pagine per pompare gli introiti di Kindle Unlimited.
Quelli che hanno inondato Amazon di quaderni con le pagine bianche e le copertine fatte con immagini di dipinti fuory copyright.
Quelli che gestiscono le clickfarm.
Li chiamano book stuffer.

Ora, un testo di 6000 parole che dovesse passare il filtro degli editor di Clarkesworld mi frutterebbe 720 dollari.
Io ne genero 100 con un click, e ci provo.
Se anche mi costa un pomeriggio, ogni storia che passa sono 720 euro.
Se nessuna passa, ne genero altre 100.
E così via.

Quindi ciò di cui stiamo parlando con la letteratura – e tutte le idee più o meo romantiche ad essa connesse – non c’entra nulla.

Il risultato è stato correttamente paragonato ad un attacco Denial of Service – si inonda il destinatario di ciarpame, e quello a un certo punto si blocca.
E infatti, dopo tre settimane di attacco, Clarkesworld ha momentaneamente chiuso le porte ad ogni storia – anche a quelle scritte da normali esseri umani.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a molte discussioni online sull’effetto che le Intelligenze Artificiali potrebbero avere sulla possibilità di autori, musicisti e artisti grafici di guadagnarsi da vivere come hanno fatto finora.
E sempre è venuto fuori il discorso che “humans do it better” – perché preoccuparsi, quando gli esseri umani hanno quella scintilla in più, la creatività, l’istinto, la musa, l’ispirazione…?

La risposta a queste obiezioni è duplice.

Al primo livello resta valido il punto che esistono persone alle quali della scintilla creatrice umana non frega niente se l’alternativa è riuscire a non pagare scrittori, traduttori e artisti.
E prima che ve ne dimentichiate, noi viviamo in un paese in cui a suo tempo un editore si vantò pubblicamente di avere un grande successo semplicemente perché “io non pago nessuno”.

Ma il secondo livello è più sottile, e meno evidente – almeno finché non guardiamo a Clarkesworld, ed alla coda di lettura momentaneamente chiusa.

Filtrare il ciarpame sovraccarica di lavoro extra gli editor, che invece di doversi leggere 20 racconti ne devono leggere 200. Questo significa che, se non si cambia il sistema, i tempi di accettazione per le storie valide si allungano.
Clarkesworld (che nel corso degli ultimi tre anni, incidentalmente, ha rifiutato una dozzina mie storie), di solito spedisce la lettera di rifiuto nel giro di tre giorni.
Questo è bene, perché vuol dire che dopo soli tre giorni posso provare a vendere la storia che mi hanno rifiutato a qualcun altro, che magari la compra, e io pago la bolletta della luce.
Se i tre giorni dovessero diventare trenta, o novanta, la mia storia rimarrebbe bloccata molto più a lungo – e per me sarebbe un danno economico, perché avrei le mie opportunità di vendita molto più diluite nel tempo.

Una alternativa, ovviamente, è assumere più editor e più lettori.
Che tuttavia devono essere pagati – e devono essere in gamba, per mantenere il livello qualitativo della rivista. Vogliamo anche evitare che un editor sovraccarico di lavoro o meno che competente bocci una storia autentica scambiandola per una storia farlocca – anche se l’adozione di criteri di valutazione più restrittivi resta probabile, e quindi il rischio di venire esclusi per errore aumenta (un altro problema che danneggia gli autori).
Più editor in gamba da pagare può significare tre cose, tre diverse possibilità:

1 . restando immutati i fondi, si pagano di meno gli autori; e questo mi danneggia sul piano economico.

2 . per coprire le nuove spese, tocca aumentare il costo della rivista o dell’abbonamento, con una possibile flessione delle vendite – il che significa che non è una soluzione, e rischia di limitare la circolazione della rivista, o addirittura portarla alla chiusura; e questo per me è un danno, sia per le mie entrate che per il mio brand, che per il fatto che il numero di mercati a cui spedire le mie storie si riduce.

3 . si chiede un contributo di lettura agli autori – il che significa che mi tocca pagare per sapere se la mia storia verrà acquistata e pubblicata oppure no; e per me questo è chiaramente un danno economico, perché capovolge la direzione del mio flusso di cassa (spesa certa a fronte di entrata incerta).

Il punto tre è stato anche proposto come modo per limitare le submission farlocche – se il mio scammer deve spedire 100 storie, e per ciascuna deve spendere 5 euro, non le spedisce.
Il bene trionfa.

Ma che dire di tutte le persone che verrebbero danneggiate da una simile policy?
Perché io 100 storie al mese non le spedisco, ma magari 5 sì.
E magari per me 25 euro vanno e vengono. Ma ci sono persone che vivono in posti o si trovano in situazioni per cui anche solo 5 euro sono tanti.
Si tratta di un ostacolo in più – grande o piccolo che sia – e che non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità della scrittura.

Divago un secondo: io ho cominciato a scrivere racconti quando avevo 15 anni, e ho cominciato a ragionare sull’idea di spedire le mie storie all’estero quando ne avevo circa 18.
Ma era un’epoca in cui i cavalli andavano ancora a carbone, per cui spedire una storia ad Asimov’s (per dire) richiedeva che il dattiloscritto venisse spedito fino a New York, con acclusa una busta col mio indirizzo per la risposta/restituzione del manoscritto, e 4 International Reply Coupon o Buoni di Risposta Internazionale. Che all’epoca a Torino si poteva acquistare solo alla Posta Centrale, e spesso toccava ordinarli e aspettare che arrivassero.
Era una spesa, un notevole dispendio di tempo, ed un rischio – ed io non avevo (giustamente) una fiducia sufficiente nelle mie storie per buttare tutto quel lavoro e quei (pochi) soldi.
Con l’avvento di internet è cambiato tutto – e la mia prima vendita professionale risale al 1998, quando avevo da un paio d’ani una connessione a internet e di anni ne avevo 31.
Click, e poi dita incrociate.
Una serie di ostacoli essenzialmente economici e logistici hanno frenato la mia “carriera” per tredici anni. Non una tragedia, o forse sì – chi può dire?
Però non voglio che altri vadano a sbattere contro freni del genere.

Richiedere un pagamento – così come l’altra idea, chiedere che i testi siano dattiloscritti o scritti a mano anziché in formato digitale – frenerebbe forse le AI e gli scammer che le usano, ma renderebbe la vita molto difficile a un sacco di gente … e ad un sacco di gente in situazioni già critiche: i poveri, coloro che vivono in nazioni meno che illuminate, persone con diversi tipi di disabilità fisiche…

E qui qualcuno potrebbe dirmi, ma questi, poveri e disabili che vivono in un paese di merda, avrebbero anche il tempo per scrivere e la presunzione di pubblicare?
Non hanno preoccupazioni più urgenti?

Ed è così che la scrittura diventa un giocattolo per i ricchi.
Che poi i ricchi in questoi caso saremmo poi noi, vale a dire coloro che si possono permettere l’euro, o i cinque euro, o i dieci, per spedire la storia agli editor.
E senza voler essere offensivo nei confronti di nessuno dei presenti, saremmo tutti dei ricchi abbastanza miserabili.

Però piace, a molti, questa idea del fatto che scrivere sia un hobby per spacciarsela, e non un lavoro per pagare i conti.
Magari un giorno ne parleremo.

La soluzione più probabile, naturalmente, è quella di usare un’AI contro le AI – adottare dei software antiplagio, che filtrino i racconti e cestinino in automatico le storie fasulle.
Ma attenzione – non dimentichiamo che software simili hanno a suo tempo bloccato il file audio del miagolio di un gatto identificandolo come musica coperta dal copyright della EMI.
Un filtro alimentato da una AI non garantisce risultati corretti al 100%, specie all’inizio.
Storie scritte da autori umani verrebbero certamente scambiate per storie fatte a macchina, e cestinate.

Non se ne esce, e come spero sia chiaro da ciò che ho scritto qui sopra, le meravigliose qualità umane della creatività e dell’ispirazione, che rendono le nostre opere sempre superiori all’output di un software, non c’entrano assolutamente nulla.

Stiamo semplicemente assistendo allo sversamento di una quantità enorme di spazzatura all’interno di quello che era, finora, un ecosistema sano.
L’effetto è quello solito, di danneggiare l’ecosistema e i suoi abitanti.
E poi per ripulire il sistema dalla spazzatura, toccherà spendere un sacco di soldi, e fare dei sacrifici.


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L’ultimo (libro) dell’anno

la cosa è partita da una discussione, qualche giorno addietro, col mio amico Germano, riguardo a Bruce Lee ed al Jeet Kune Do.
Le conseguenze di questa discussione emergeranno, probabilmente, con l’anno che viene, ma per intanto io mi sono fatto un giro sul catalogo della Shambhala Press, e saltando da una categoria all’altra, mi sono ordinato, per tre euri croccanti, una copia “usata ma in buone condizioni” di Writing Down the Bones, di Natalie Goldberg.

Il libro della Goldberg lo lessi, nell’edizione italiana pubblicata da Ubaldini (la memoria mi dice Astrolabio, ma Google mi dice Ubaldini), ai tempi dell’università, e rimane probabilmente il librosulal scrittura che è più probabile che io consigli se mi viene chiesta un’opinione a riguardo.
L’ho riletto spesso, in questi anni, e mi pareva una buona idea, ora, quasi trent’anni dopo la prima volta, ridargli un’occhiata in originale.
E poiché io i libri sullo zen li compro sempre e solo di seconda mano, ecco la mia copia “usata ma in buone condizioni”.
Questo significa, purtroppo o per fortuna, a seconda di come la volete vedere, che non mi sono potuto procurare l’edizione dle 30° anniversario, ma una copia vetusta della prima edizione.

Nel caso specifico, “usato ma in buone condizioni” significa con la copertina decisamente malandata, con pieghe e sfregi diversi. Le pagine sono ingiallite, piegate e macchiate dall’umidità – la copia è una prima edizione del 1986, ed ha visto un bel po’ d’azione in questi trentasei anni.
Ad una prima occhiata non pare ci siano annotazioni a margine – un peccato, per molti versi.

Writing Down the Bones, che in italiano si intitola Scrivere Zen, è un libro sulla pratica della scrittura come pratica di meditazione, e mira a rimuovere le barriere che eisstono fra la nostra mente e lapagina bianca.
Non perde tempo con lo show-don’t-tell e l’infodump, non tira in ballo Aristotele o Jacques Cousteau, ma si focalizza sull’idea di scrittura come esperienza e come pratica. Sottolinea non solo gli aspetti intellettuali ma anche quelli fisici, dell’atto della scrittura.
È disordinato e sorprendente, perché è stato scritto seguendo i precetti che va ad illustrare.
Ha una voce unica, e delle idee molto interessanti.
Pone una grande enfasi sulla scrittura a mano, con la penna ed il quaderno.
La mano non deve mai fermarsi è uno dei precetti centrali del libro.
Ed è un libro che parla davvero di filosofia zen, a differenza di quell’altro, che c’ha lo zen nel titolo ma non c’entra assolutamente nulla.

Focalizzato com’è sull’atto di scrivere, Writing Down the Bones non fa riferimento a generi, stili, scuole. È adatto allo stesso modo per chi scrive racconti o romanzi, saggi o articoli, per chi vuol semplicemente tenere un diario o scrivere poesie.
È ridotto all’osso, non promette successi commerciali, fama, fortuna e gloria.
Scrivete quello che vi pare, vi dice, e come vi pare. L’importante è continuare a scrivere.
È praticamente perfetto.

È, a modo suo, il primo volume di una trilogia – che comprende anche Wild Mind e The True Secret of Writing … altri due libri usatissimi, qui sul mio scaffale. Mi manca Thunder and Lightning, che scopro esistere solo ora, scrivendo questo post.
Presto, spero… magari come primo libro dell’anno.

È l’ultimo libro del 2022, e paserò qualche ora a rileggerlo, mentre aspetto la mezzanotte.
Poi, magari, nel 2023, parleremo di Jeet Kune Do.
O forse no.

E sì, ci sono link commerciali in questo post, coi proventi dei quali acquisterò, probabilmente, altri libri di seconda mano sulla filosofia zen – o magari sul Jeet Kune Do.


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Grammatica, stile e dizionari

Questo è un post di dubbia utilità, che nasce da una chiacchierata fatta un paio di giorni or sono, con un amico, riguardo al fatto che sto leggendo un libro di grammatica inglese – e non è il primo (e forse non sarà l’ultimo).
Questo ci ha portati a discutere di quali sono i libri che mi tengo a portata di mano quando scrivo, come materiale di riferimento.

Ed è qui che il post può essere di dubbia utilità – perché io ormai scrivo prevalentemente in inglese, e quindi i miei volumi di riferimento sono in inglese.
Io resto dell’idea che quando si tratta della nostra scrittura, sia importante fare riferimento a manuali relativi alla lingia in cui scriviamo – perché lingue diverse hanno regole diverse, strutture diverse, e i testi sui quali impariamo dovrebbero tenerne conto.
Questo vale per le grammatiche come per i manuali di scrittura – che di solito fanno riferimento alla lingua, al mercato ed all’ecologia editoriale, per così dire, oltre che alle esperienze personali, di chi li scrive.

È per questo che trovo alquanto dubbia la venerazione che tanti guru nostrani della scrittura – e per riflesso i loro assistiti – paiono avere per Strunk & White, Elements of Style.
Sì, lo so, Ike Asimov giurava e spergiurava sullo Strunk & White, e mi pare che anche Stephen King lo citi nel suo manuale, però il manuale di Strunk & White fa riferimento alla grammatica inglese, non a quella italiana. Ci sono delle diferenze.
Io, scrivendo in inglese, potrei forse usarlo ma, in primis, è zeppo di errori (usa una forma passiva per dirci di non usare forme passive, e poi porta alcuni esempi di forma passiva che non sono forme passive … e questo è solo uno dei molti esempi disponibili), ed è un manuale comunque mirato alla scrittura di relazioni e tesine per liceali e universitari, e la narrativa è una cosa diversa.

E allora cosa?
Il mio amico Germano, che fa l’editor per la lingua italiana, suggerisce di leggersi la grammatica italiana – edizione Zanichelli, mi pare – ed ha ragione. Tutte le convenzioni (perché questo sono le regole della grammatica) sono raccolte là dentro.
Potrebbe essere sufficiente.

Grammatica

Per la grammatica della lingua inglese, il testo più popolare – che ho qui sull’hard disk in versione elettronica, e del quale vi piazzo anche il link commerciale (sapete come vanno queste cose) – è Woe Is I: The Grammarphobe’s Guide to Better English in Plain English (Fourth Edition), di Patricia T. O’Conner, che risolve rapidamente tutti quei dubbi malsani che vengono scrivendo, e quegli errori barbini che spesso vengono segnalati dall’editor in fase di revisione – pronomi sbagliati, forme verbali farlocche, strutture che non vanno da nessuna parte.
È ben scritto, scorrevole, non troppo tecnico ed è facile trovare i diversi argomenti e farsi un ripasso veloce.

Io la grammatica dell’inglese l’ho studiata alle medie – e poi di nuovo al liceo – ma prima di cominciare a scrivere in inglese, nel lontano 1997, non ci avevo mai badato granché se non per passare le interrogazioni a scuola.
Anche per il latino era la stessa cosa, al liceo – traducevo abbastanza bene, pur senza ricordarmi nulla della grammatica.

Ma scrivere – o tradurre professionalmente – è una faccenda completamente diversa.
Bisogna conoscere le regole della grammatica ed applicarle.
Come dicevo sopra, si tratta di convenzioni – e mutano col tempo, per cui è necessario mantenersi aggiornati.

Oltre al volume della O’Conner, ho sulla scrivania una copia cartacea del Penguin Dictionary of English Grammar, che è infinitamente più arido e schematico, ma che è facile da sfogliare alla ricerca della risposta a qualche dubbio.
Vi ho piazzato un link commerciale – ma su Amazon conviene cercarne una qualche copia usata, che si può reperire a meno di un terzo del prezzo di copertina.

E sullo scaffale ho una copia del Deluxe Transitive Vampire, di Karen Elizabeth Gordon, un volume uscito nel ’93 che illustra tutte le parti più intricate della grammatica inglese con esempi tratti da romanzi gotici. la versione Deluxe è rilegata rigida e piacevolmente illustrata, ed è ormai un libro costosissimo. È alquanto bislacco – e parte di una serie che include una guida al lessico ed una all apunteggiatura – ma è anche un piacevole antidoto ai testi più paludati.
E di solito quando ci si diverte si memorizzano più facilmente i vari concetti, ed il vampiro transitivo È divertente.

Stile & Uso

La grammatica è essenziale per non commettere svarioni, e costituisce – ne parliamo fra un attimo – una forma di stile.
Ma esistono diversi stili e usi differenti, che fanno sorgere questioni come quale preposizione regga una certa forma verbale in una certa specifica circostanza – e qui spesso grammatica ed uso comune vanno in conflitto.
Può essere utile, perciò, un manuale di stile.

La Penguin, nella stessa collana del dizionario di grammatica, ha anche un Writer’s Handbook – che è poi una guida allo stile, come Strunk & White o il Chicago Manual of Stile – ma io uso invece una vetusta (e quindi probabilmente sorpassata) versione del Fowler’s Modern English Usage, edito da Oxford (e scritto, ovviamente, da Fowler). Ne ho una copia cartacea sulla scrivania, ed una digitale sull’hard disk.
A differenza di Strunk & White, il volume di Fowler non contiene errori di grammatica, si guarda bene dall’assumere quel tono vagamente autoritario che pare minacciarvi di rappresaglie fisiche se piazzate un avverbio fra il “to” ed il verbo all’infinito (to boldly go…) ed è scritto col tono abbastanza snob dell’Inghilterra degli anni ’30. È in effetti un manuale di stile ed uso comune della lingua inglese parlata nei paesi civili – e usarlo come riferimento può dare in alcuni casi dei problemi con gli editor americani.
Come dicevo, la mia copia oltretutto è vetusta – ed in effetti Oxford ne ha due nuove edizioni, una standard ed una “concisa”. Ora si chiama New Fowler’s Dictionary of Modern English Usage.
Un titolo, ne sono certo, che Fowler stesso avrebbe ironicamente criticato come troppo lungo e faticoso.

Spero sia chiaro che questo genere di “manuali di stile” non si propongono di insegnarci a sviluppare uno stile nostro, ma piuttosto quali convenzioni modifichino o alterino le regole dell agrammatica standard – rendendo ad esempio certe forme più accettabili di altre.
C’era una cosa simile, per la lingua italiana, negli anni ’80, intitolata Come Parlare e Scrivere Meglio, di Gabrielli & Salmaggi. Ha quarant’anni, e quindi non è certo al passo con l’attuale stato della lingua italiana, ma è una lettura estremamente divertente. Buona caccia.

La questione dell os tile e dell’uso viene anche affrontata da un testo che ho già citato più volte in passato, Artful Sentences: Syntax as Style, di Virginia Tufte – che è un colossale compendio ed analisi di diverse strutture sintattiche e di come l’ordine in cui disponiamo le nostre parole sulla pagina possaa alterare non solo il significato della frase, ma anche il ritmo, e la percezione del lettore.
Questo non lo tengo a portata di mano sulla scrivania – ma è sullo scaffale, di fianco al vampiro transitivo.

Dizionari & Affini

Computer e internetavrebbero reso – secondo alcuni – obsoleto il buon vecchio dizionario.
Ne abbiamo uno integrato nel nostro software di scrittura (insieme ad un autocorrettore e ad altre meraviglie), eattraverso la rete possiamo arrivare rapidamente a dizionari online, wikipiedia e quant’altro.

Io preferisco avere a portata di mano una copia cartacea di un buon Thesaurus – che sarebbe quello che noi chiamiamo Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari – per la lingua inglese.
Ne esistono una quantità, e sono particolarmente utili in fase di revisione, quando ci rendiamo conto che il notro testo è zeppo di ripetizioni.
Nello specifico, io uso il vecchio (2013) Oxford Paperback Thesaurus – che si può acquistare su Amazon usato per meno di tre euro.
Sul PC, Artha è un buon software gratuito e cross-platform che funziona come thesaurus per il desktop per la lingua inglese.

C’è poi il Dictionary of Phrase & Fable, che sarebbe un dizionario delle forme gergali, delle frasi fatte e dei riferimenti culturali. Molto utile sia per scrivere che per tradurre. Quello storico è il Brewer, ma anche in questo caso conviene recuperarne uno aggiornato – perché i riferimenti culturali, ovviamente, evolvono molto rapidamente (ma hanno anche una estrema persistenza).
Lo stesso vale per un dizionario delle forme idiomatiche.
La rete può ovviamente sopperire, ma il volume cartaceo è spesso più rapido.

Un buon investimento, infine – se si traduce o se si scrive narrativa – sono un paio di dizionari di slang.
Anche di questi, ne esistono dozzine – dai molto generici ai molto specifici (per epoca, regione, categoria).
Possono essere estremamente utili – ma anche qui, la rete offre abbondanti alternative.

E questo è, grossomodo, tutto.
Per riassumere – una buona grammatica, un manuale di stile e un dizionario dei sinonimi e dei contrari. Questo è l’indispensabile, per ciò che mi riguarda.
E questo, io credo – e soprattutto la grammatica – dovrebbe venire prima dei corsi di scrittura e dei seminari su come essere autori che scrivono giusto. Potrebbe persino permetterci di farne a meno.
Ma è, ovviamente, solo la mia opinione.


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Mille euro e una gita fra i monti

Nell’ultima settimana, attraverso il meraviglioso strumento dei post sponsorizzati su Facebook mi sono stati offerti cinque (CINQUE) corsi di scrittura – più una fantomatica “masterclass” sullo stesso argomento.
I corsi vanno dall’estremamente generico (“scopri il piacere della scrittura!”) al ridicolmente specifico (“scrivi fantasy come Brandon Sanderson”), ed hanno un costo che oscilla dai 350 ai 2000 euro.
Sono tutti offerti da scuole di scrittura con nomi tra il roboante e l’accattivante, e tenuti da persone che coprono lo spettro cha va da “e questo chi è?” alle risate isteriche, “ma che, davvero?!”
Uno dei corsi prevede che io parta con tenda canadese e sacco a pelo per andare a scrivere fra le montagne con una banda di sconosciuti “aspiranti scrittori” … e se non è l’incipit di un film horror indipendente questo, non so davvero cosa sia.

E potrei anche dire che, dopo sei anni ormai passati a pagarmi i conti scrivendo, essere martellato da questo continuo “impara a scrivere!” … “vieni a imparare come si scrive!” … “pubblica finalmente il tuo romanzo!” … ecco, non è che faccia benissimo alla mia sindrome dell’impostore … oddio oddio hanno scoperto che non ho idea di come si faccia.
Ma è un momento, e poi mi ricordo che no, ho una buona idea di come si faccia, e la mia banca lo può confermare (sono, in effetti, i miei più grandi fan – specie l’ufficio mutui e finanziamenti).
Lo possono confermare i miei lettori, i miei editori.

Ora, naturalmente, la strada che porta alla scrittura è diversa per ciascuno di noi, e magari c’è davvero qualcuno che, sperduto fra i monti con un paio di migliaia di euro in meno sul conto, alla disperata ricerca di una toilette che non sia una tana di marmotta e braccato dai montanari mutanti cannibali, trova la propria realizzazione come narratore.
E chi sono io per criticare queste persone?

Alla fine è come la persona che, colpita da una malattia odiosa e incurabile, fallito l’intervento di medici e specialisti, alla fine prova anche ad andare dallo stregone, dal guaritore omeopatico di scuola ayurvedica, dal settimino che gli impone le mani. Nessuno può biasimarlo, perché è un suo diritto provare qualunque cosa, davanti alla prospettiva di dover morire.

Possiamo però biasimare, e molto, chi approfitta di questa che è una necessità psicologica di una persona disperata, per farci dei soldi.

I corsi di scrittura – e credetemi, ne ho tenuti, quindi sono stato dall’altra parte della barricata – rispondono ad una forma di disperazione. Meno drammatica certo del sentirsi dire che non c’è cura e non c’è speranza, ma qui non stiamo facendo a gara su chi abbia la disperazione “più importante”.

Ciò che possiamo fare quando teniamo questi corsi è spiegare che non esiste una soluzione uguale per tutti – che l’incertezza è normale, e che esistono pratiche che possono aiutarci a tenerla sotto controllo.
Ma promettere la via, la verità e la luce è disonesto.

All’origine di questa che è ormai palesemente una industria è il problema centrale di chi scrive, ed un problema che tutti hanno affrontato quando hanno messo per la prima volta delle parole in fila su una pagina – “come faccio a sapere che quello che ho scritto è giusto“?

E giusto assume significati diversi per diverse persone – ma negli ultimi anni “scrivere giusto” ha assunto il significato di “seguire le regole”.
Seguire le regole è in fondo la risposta a quella paura che si diceva.
“Ho scritto giusto perché ho seguito le regole. Ergo, il mio è un buon libro.”

È interessante, in effetti, che molti di coloro che, per anni, su blog e forum, hanno insistito sull’importanza suprema delle regole (sempre e solo quelle quattro o cinque regole, non starò a ripetervele), poi si siano messi a offrire corsi di scrittura.
“Solo io posso insegnarti le regole per scrivere giusto. Vieni con me fra le montagne, ma prima caccia i danari…”

Sorvoleremo qui sul fatto che spesso queste persone non hanno alcuna esperienza di prima mano dell’atto della scrittura, ma sono semplicemente lettori – ed è un po’ come se l’essere assidui spettatori di gare di Formula 1 li qualificasse ad insegnare la guida ad alta velocità.

Ma no, restiamo focalizzati su questo fatto, che esiste una persona o, sempre più spesso, una organizzazione, che a fronte di un pagamento in denaro – un pagamento salato ma non inavvicinabile, perché sennò nessuno abbocca – vi insegnerà a scrivere.

Loro sanno come si fa, e sono disposti a insegnarvelo.
E se alla fine doveste fare un buco nell’acqua, e i vostri racconti dovessero venire usati come esca per il camino dagli editori, beh, siete voi che non vi siete impegnati abbastanza.
E poi, certo, c’è il corso avanzato di scrittura, al quale potreste iscrivervi avendo seguito il corso di base…

Dovremmo porci delle domande.
È davvero solo una questione di soldi e di applicare una serie di regole?
Conta la spesa? Scriverò meglio, seguendo un corso da 980 euro più IVA, di quanto scriverei se seguissi un corso da 350 euro tutto compreso?
Ma più importante, c’è davvero una formula, e alcuni che la possiedono sono disposti a condividerla con noi, e dopo tutto andrà bene?
È alla fine scrivere un libro come preparare una teglia di lasagne – basta seguire la ricetta e rispettare i tempi di cottura?
E se è così, perché ci sono al mondo così tanti ricettari, con così tante ricette diverse per le lasagne, e comunque nostra nonna ride di loro e fa a modo suo e le sue lasagne sono un sogno?

Ma certo, le lasagne sono una cosa diversa – mi basta assaggiarle per sapere se le ho preparate “giuste” oppure no.
Ma ciò che scrivo?
Come faccio a sapere che la mia storia funziona, che non mi rideranno in faccia, che qualcuno sul suo blog non la smonterà riga per riga dandomi del ritardato mentale davanti a un pubblico che nei commenti farà a gara a chi riesce ad essere più odioso?
Posso farla leggere alla mamma, o alla fidanzata, o agli amici, ma cosa ne sanno, quelli?
Ho bisogno di qualcuno che sia autorevole, e che mi liberi da questa paura.
Qualcuno che, metaforicamente, assaggi le mie lasagne dall’alto della sua esperienza, e a fronte di un pagamento e magari una gita fra i monti insieme ad altri aspiranti creatori di lasagne, mi dica come aggiustarle, metaforicamente, di noce moscata…

Il punto alla fine è questo – tutti hanno paura.
Nessuno sa come si scriva “giusto” … nessuno sa davvero cosa sia giusto o sbagliato.
Stiamo tutti improvvisando.
Ciascuno di noi sfrega assieme due idee, decide (forse) una struttura, buttagiù un paio di dialoghi, prova a vedere dove andrà questa storia… Magari riscrive, magari decide di buttare tutto e ricominciare da capo.
L’unica cosa che conta davvero è la pratica.
È la pratica che ci dice quali regole applicare, e dove, e quali ignorare. La pratica che ci dice che queste due idee sono promettenti mentre quelel altre dodici sono belle, sì, ma non funzionano, non qui, non ora, magari la prossima volta.
È la pratica che ci dice che, arrivati alla fine, sì, è una storia decente – e ci spinge a superare l’orrore di spedirla a uno sconosciuto che valuterà se pubblicarla oppure no.

Ciò che un corso di scrittura può fare è mettere ordine nelle nostre esperienze, e fornirci degli esempi, e degli strumenti (le più volte reiterate regole) che tuttavia starà a noi decidere – sul campo e a seconda delle circostanze – come, e quando, e perché usare. Se vogliamo usarli.
I corsi servono ad evitare che noi si debba reinventare la ruota, ma se poi usarla per costruire una carriola o per aprire una bottega di ceramista, quello sta a noi deciderlo.
Il resto è pura improvvisazione, una certa dose di incoscienza, ed una buona quantità di paura.

Questi corsi ci promettono la libertà da questa paura.
Ci promettono di liberarci dall’incertezza e dal dubbio.
Hai spuntato tutte le caselle giuste, puoi stare tranquillo.
Alla prova dei fatti, non basta.
Quell’incertezza e quel dubbio sono parte dell’esperienza, esattamente come il divertimento e i momenti di frustrazione.

Volete seguire un corso?
Perché no.
Ce ne sono tanti in giro, per tutti i prezzi – come mi ha dimostrato Facebook nell’ultima settimana – incluso uno che vi insegnerà a scrivere fantasy come Brandon Sanderson.
Brandon Sanderson che, in effetti, ha pubblicato gratis su Youtube il suo corso di scrittura tenuto alla Brigam Young University.

L’importante è essere consapevoli che i corsi, così come i manuali, servono solo a fornirci gli strumenti, e starà poi a noi decidere come usarli.
Le regole della scrittura, come dice un mio buon amico, sono solo convenzioni – e quindi si possono cambiare. Cambieranno, che ci piaccia o no.
Conoscerle è utile, usarle è una questione di esperienza e di pratica, non di formule precotte.

Qualche anno addietro ho postato sul mio blog in inglese un corso di scrittura gratuito in una sola pagina – ed ha avuto un certo successo, anche se alcuni l’hanno considerato uno scherzo o una parodia.
Ho una mezza idea di ampliarlo, tradurlo e distribuirlo di nuovo gratis.
Poche pagine, che potrete portare comodamente con voi in montagna…