strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Le ultime 24 ore

Domani, 2 Ottobre 2023, la guadie della Prihione di Facebook apriranno i cancelli, ed io sarò nuovamente libero di postare noi gruppi di cui sono membro-
Come forse riocroderete, in 2 di Settembre ho avuto la malaugurata idea di condividere una notizia che mi era arrivata su Facebook, riguardo l’uscita di un nuone documentario sui film di Dario Argento. Questa condivisione conteneva un’immagina da Suspiria che ha fatto squillare gli allarmi dell’algoritmo, che si è conmvinto che io stessi istigando all’auto-immolazione tutti i membri di Paura Y Delirio WTF. Immediatamente, la solerte intelligenza artificiale di Zuckerberg mi ha consigliato di rivolgermi a una struttura di supporto psicologico (niente battute, grazie) e poi mi ha sospeso per un mese, informandomi che andare avanti in questo senso avrebbe avuto “delle serie conseguenze”.

Così per un mese non ho potuto postare nei gruppi che ho creato o che co-amministro per restare in contatto con chi mi conosce, e magari segue in mio lavoro, e nei gruppi di cui sono parte e che coprono i miei diversi interessi.
Ho perso l’opportunità di condividere, ad esempio, i post fatti per il Cimmerian September con la comunità degli appassionati di sword & sorcery, o l’uscita del mio romanzo Dreams of Fire nei gruppi di appassionati di fantasy.
Questo, perché un fotogramma di un film vecchio di cinquant’anni avrebbe potuto spingere qualcuno a farsi del male, ed io ho evidentemente postato quel fotogramma proprio con questo scopo.

D’altra parte, sono tre anni che sono sotto osservazione dopo essere stato segnalato e bloccato con questo blog, in quanto diffondo l’odio. Quindi qualunque mia attività è sospetta, e come dicevamia nonna “dove c’è il sospetto c’è il difetto”.
Colpevole fino a prova contraria.
Il blog non può essere condiviso su Facebook, e non avendo idea dei criteri usati dall’Algoritmo, ogni attività su FB potrebbe portare a una nuova incarcerazione, o magari “delle serie conseguenze”.
Ho già ampiamente discusso di come questo mi abbia causato un piccolo ma significativo danno economico – oltre a limitare la mia libertà di espressione (che quella, alla fine, non è che interessi a nessuno).

Ma guardiamo al lato positivo.
Chiuso fuori da Facebook perché sono, a quanto pare, una via di mezzo fra Thulsa Doom e Jim Jones, mi sono trovato ad avere un sacco di tempo libero.
Perché è difficile immaginare quanto tempo i social ci possono sottrarre per pura erosione.

Così in settembre ho chiuso la prima traduzione su cui stavo lavorando, e sono partito con la seconda.
Ho firmato un contratto per due romanzi e ho scritto 12.000 parole del primo.
Sono finalmente tornato alla pratica di leggere due libri alla settimana. E contemporaneamente ho riletto tutte le storie di Conan scritte da Bob Howard, e ne ho scritto su Karavansara.
Ho sperimentato un paio di nuove ricette per variare la dieta.
Ho ripreso a camminare con regolarità, cercando di rimettere in sesto la salute traballante.
Ho ripreso a postere con una certa regolarità sul mio Patreon, ridando vita al Piano Bar del Fantastico e cominciando a postare le mie annotazioni a vari manuali e libri relativi alla scrittura, creando una sorta di corso di scrittura destrutturato che pare sia interessante.

[e qui potrei aggiungere che con solo un euro al mese potete avere accesso a tutto questo e molto altro, ma sarebbe di estremo cattivo gusto, vero?]

E nel frattempo ho ricevuto un sacco di segnali, da vari angoli del mondo, da persone che conosco o che seguo che dopo aver abbadonato Twitter (che in effetti ormai mi inonda di spam), hanno lasciato anche Facebook e Instagram, e lasciato Tik Tok agli adolescenti.
E la tentazione è forte.
Questo mese senza Facebook mi ha dimostrato abbondantemente che la mia presenza non è richiesta e non desta interesse. I social possono fare ampiamente a meno di me, dei miei lavori, delle mie opinioni.

Quindi, cosa succederà domani, quando si apriranno i cancelli della prigione di mister Zuckerberg?

Non lo so.
Ma probabilmente cambierà qualcosa.
Qualcosa è già cambiato.


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Castelnuovo Beach

L’espressiono Castelnuovo Beach l’ho sentita la prima volta al supermercato, forse cique anni or sono. L’usò una cassiera, quando le dissi da dove venivamo per fare la spesa.
“È un posto adatto all’estate,” disse.
Più che altro, naturalmente, è il fatto che “Castelnuovo” è abbastanza lungo, come nome, e quindi sulla segnaletica stradale, viene spesso indicato come “Castelnuovo B.” … il che causa una certa confusione quando ci si ritrova, magari di sera, in macchina, sotto la pioggia, in quel ristretto settore di Appennino Ligure in cui si può scegliere se andare a Castelnuovo Belbo o a Castelnuovo Bormida, entrambi segnalati come Castelnuovo B. perché nell’Appennino Ligure ancora si ricordano dei pirati barberi che pasavano di qui nel sedicedimo secolo, e non voglino facilitargli le razzie qualora dovessero ritornare,

Comunque, Castelnuovo Beach.


Non so se ve ne siete resi conto, ma fa caldo.
Molto caldo.
Fa talmente caldo, in effetti, che se non ci fossero questioni più pressanti, come ad esempio il fatto che se chiamata Peirugo il vostro cihuahua poi non fate più bambini, se non ci fossero problemi più pressanti, dicevo, il nostro governo certamente ci farebbe qualcosa.
Ma niente, voi insistete a dare dei nomi da cristiani ai vostri animali domestici, e quindi il problema del caldo ce lo dobbiamo risolvere da soli, come possiamo.

Ora, qui in campagna è un pò più facile – c’è del verde, degli alberi, e questo aiuta.
Non siamo ancora andati sopra i 40°.
Ma sopra i 35° sì, e con una umidità del 60%, grazie (si fa per dire) al torrente Belbo che dà il suo nome al paese, ls situazione è difficile, anche senza contare i quattro gatti randagi che hanno colonizziato il nostro cortile, e che malauguratamente sone stati chiamati Frida, Agneta, Bjorn e Banny.
In questo momento sono le cinque di sera, e ci sono 36°.

L’unica soluzione è viveve come astronauti su Marte – ci si chiude in case dall’una del pomeriggio alle otto di sera, e durante la mattinata si sbrigano le commissioni essenziali e poi ci si rifugia in un posto dove ci sia ombra e aria corrente,
Per un particolare accidente topologico, un posto del genere è sull’angolo dove Via Mazzini diventa traversa di se stessa – dieci metri di strada asfaltata che durante la mattina sono all’ombra, e con un bella corrente d’aria fresca.
Dieci metri di strada in cui non ché nulla, se non muri di cinta e un solitario portone – ce ne sarebbe un secondo, me è l’accesso di una casa sfitta, quindi non conta.
Dieci metri.
Non una panca, o un posto in cui sedere.
A forse venti metri dalla mia porta di casa.

È così che negli ultimi giorni, vista l’impossibilita di fare qualsiasi cosa per via dell’afa (sto facenda una fatica mortale a scrivere questo post, per via della calura che mi instupidisce)… vista l’inattività forzata, quindi, prendo una sedia da giardino, e mi vado a sedere a bordo strada, grossomedo dalle dieci del mattino all’una, quando mi ritiro in casa,
Ma la mattina, maglietta, calzoncini da naufrago, ciabatte, sedia e qualcosa da leggere … e come molti, al mare, escono di casa per scendere in spiaggia, io esco di casa e vado in via Mazzini.
Castelnuovo Beach.
Niente ragazzini che schiamazzano e giocano a pallone, niente tipi da spiaggia, niente venditori ambulanti…

Stamattina da una radio da qualche parte arrivava Huey Lewis and the News.
Stuck With You.
Perfetto.

Credo di aver attirato un paio di occhiate strane, da autisti di furgoni ed i rari passanti, ma non ostruisco il traffico e non causo scandalo nonostante la tenuta da naufrago – anche se il libro che stavo leggendo stamani, intitolato The Sex Lives of Cannibals, qualche perplessità l’ha provocata.
Leggo in media un libro ogni due giorni.
Finché non si mette al fresco, non c’è altro da fare.


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È colpa del dissesto

Un paio di giorni or sono ho ricevuto un messaggio da un contatto in Giappone, che era preoccupato per la mia salute. Aveva visto in TV la notizia di inondazioni in Italia, e voleva assicurarsi che io stessi bene.
È stato così che ho scoperto cosa era successo a Faenza – con 250 mm di pioggia scaricati in trentasei ore, la quantrità di pioggia di solito riversata in quell’area durante l’intero periodo primaverile.

Si tratta dei famosi “fenomeni climatici estremi”, la cui frequenza – stando agli studi sul clima – si sarebbe intensificata con l’aggravarsi della crisi climatica.

Una volta rassicurati i miei amici, un rapido giro sul web mi ha motrato immagini del disastro.
E poi, uno sconosciuto, condividendo le foto delle strade di Faenza allagate, osserva che certi eventi si faranno sempre più frequenti e più disastrosi fintanto che continueremo a bruciare barili di petrolio.

Un’affermazione sostanzialmente corretta – nessuno, a meno che non sia pagato dalla Sette Sorelle, dubita ormai del fatto che le attività umane legate alla combustione di idrocarburi siano legate al cambiamento climatico.
Più CO2 liberiamo nell’atmosfera, più l’equilibrio del nostro clima verrà compromesso, e assisteremo semmpre più spesso ad eventi come quello avvenuto a Faenza.
Assisteremo, se saremo fortunati.
È più probabile che non saremo semplici spettatori, ma protagonisti.

E tuttavia, sotto alle foto di quello sconosciuto, ecco che si susseguono gli insulti.

Cosa c’entra tutto questo col petrolio?
Sono solo fregnacce.
La colpa è del dissesto idrogeologico!

Ora, questo è stupido.
Il dissesto idrogeologico non è una causa, ma un effetto.
Il dissesto, che si puiò esprimere sotto forma di frane, crolli, inondazioni, è il prodotto di una serie di cause.
Incuria e mancata manutenzione?
Possibile.
Ma senza quei duecento e cinquanta millimetri di pioggia in trentasei ore, non sarebbe successo nulla.

E tuttavia, la propaganda ha funzionato talmente bene, che basta dire “crisi climatica” o “combustibili fossili” per scatenare la furia del pubblico.
Come è possibile?

Da una parte, certamente, c’è la reazione istintiva e “di pancia” che porta ad infuriarsi quando ci si senter dire che abbiamo sbagliato. Ce l’ha insegnato la scuola, che sentirsi dire “hai sbagliato” è come essere accusati di un crimine.
Dall’altra, c’è che è passata con successo questa idea che l’interò corpo di indagini e risultati relativi alla crisi climatica siano una colossale truffa, ordita dagli scienziati malvagi per ingannare i bravi ed onesti cittadini.

Ed ecco fatto – non solo vi stanno mentendo, ma vi rinfacciano anche di aver sbagliato.
E via con gli insulti.

Intanto le case di Faenza sono a mollo, e stando alle previsioni del meteo, qui dove sono seduto ci aspettano cinque giorni di pioggia.

Il che è forse rassicurante – perché ciò che rende questi eventi pericolosi è come concentrano precipitazioni catastrofiche in tempi molto brevi.
Cinque giorni di pioggia possono essere assorbiti dal sistema più facilmente della stessa quantità d’acqua riversata in sole trentasei ore.

E intanto, non è curioso che anche coloro che negano i risultati delle ricerche sul clima, si fidino normalmente delle app per le previsioni meteo?


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Trecento e quaranta

Pochi giorni or sono, Neil Clarke, editor della rivista Clarkesworld, ha postato un articolo (che se vi interessa trovate QUI) su come nei primi quindici giorni del mese di febbraio di quest’anno, la sua rivista avesse ricevuto 340 racconti generati da Intelligenza Artificiale – usando ChatGPT o software affini.
Trecento e quaranta racconti.
Tutti bocciati, e gli indirizzi email dai quali provenivano, messi in blacklist.
Editor di altre riviste hanno segnalato situazioni simili.

Una settimana dopo, arriva la notizia che Clòarkesworld ha momentaneamente chiuso alle submissions, perché il diluvio di racconti evidentemente non si è interrotto – e valutare e bocciare le ciascuna storia scritta a macchina richiede comunque il lavoro di un editor.
Allo stato attuale, gli editor a disposizione della rivista non bastano.
Quindi fermiamo tutto e cerchiamo una soluzione.

Ora, la prima reazione che mi è capitato di sentire, riguardo a questa incresciosa faccenda, fa più o meno così…

gli autori umani saranno sempre superiori alle intelligenze artificiali che si limitano a campionare testi già scritti, per cui non è il caso di preoccuparsi

Ora, questa è una posizione per molti versi condivisibile – io sono fermamente convinto di riuscire, almeno per ora, a scrivere qualcosa di meglio di ciò che potrebbe fare una AI – ma anche molto romantica e, in ultima analisi, irrilevante.

Le persone che hanno utilizzato ChatGPT per generare racconti da mandare a Clarkesworld non sono assolutamente interessate al valore letterario del materiale che hanno inviato.
Sono interessate al fatto che Clarkesworld accetta storie da 1000 a 22000 parole, e paga 12 centesimi a parola.

Non sono poveri sfigati incapaci di mettere tre parole in fila, e che tuttavia ambiscono a mettere “Scrittore” dopo il nome nel profilo Facebook, che stanno usando ChatGPT per coronare il loro sogno.
Sono scammer, gli stessi che fino a pochi mesi or sono “scrivevano” ebook da postare su Amazon copiando da Wikipedia, o “traducevano” classici fuori copyright con Google Translate, e che in generale gonfiavano il numero di pagine per pompare gli introiti di Kindle Unlimited.
Quelli che hanno inondato Amazon di quaderni con le pagine bianche e le copertine fatte con immagini di dipinti fuory copyright.
Quelli che gestiscono le clickfarm.
Li chiamano book stuffer.

Ora, un testo di 6000 parole che dovesse passare il filtro degli editor di Clarkesworld mi frutterebbe 720 dollari.
Io ne genero 100 con un click, e ci provo.
Se anche mi costa un pomeriggio, ogni storia che passa sono 720 euro.
Se nessuna passa, ne genero altre 100.
E così via.

Quindi ciò di cui stiamo parlando con la letteratura – e tutte le idee più o meo romantiche ad essa connesse – non c’entra nulla.

Il risultato è stato correttamente paragonato ad un attacco Denial of Service – si inonda il destinatario di ciarpame, e quello a un certo punto si blocca.
E infatti, dopo tre settimane di attacco, Clarkesworld ha momentaneamente chiuso le porte ad ogni storia – anche a quelle scritte da normali esseri umani.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a molte discussioni online sull’effetto che le Intelligenze Artificiali potrebbero avere sulla possibilità di autori, musicisti e artisti grafici di guadagnarsi da vivere come hanno fatto finora.
E sempre è venuto fuori il discorso che “humans do it better” – perché preoccuparsi, quando gli esseri umani hanno quella scintilla in più, la creatività, l’istinto, la musa, l’ispirazione…?

La risposta a queste obiezioni è duplice.

Al primo livello resta valido il punto che esistono persone alle quali della scintilla creatrice umana non frega niente se l’alternativa è riuscire a non pagare scrittori, traduttori e artisti.
E prima che ve ne dimentichiate, noi viviamo in un paese in cui a suo tempo un editore si vantò pubblicamente di avere un grande successo semplicemente perché “io non pago nessuno”.

Ma il secondo livello è più sottile, e meno evidente – almeno finché non guardiamo a Clarkesworld, ed alla coda di lettura momentaneamente chiusa.

Filtrare il ciarpame sovraccarica di lavoro extra gli editor, che invece di doversi leggere 20 racconti ne devono leggere 200. Questo significa che, se non si cambia il sistema, i tempi di accettazione per le storie valide si allungano.
Clarkesworld (che nel corso degli ultimi tre anni, incidentalmente, ha rifiutato una dozzina mie storie), di solito spedisce la lettera di rifiuto nel giro di tre giorni.
Questo è bene, perché vuol dire che dopo soli tre giorni posso provare a vendere la storia che mi hanno rifiutato a qualcun altro, che magari la compra, e io pago la bolletta della luce.
Se i tre giorni dovessero diventare trenta, o novanta, la mia storia rimarrebbe bloccata molto più a lungo – e per me sarebbe un danno economico, perché avrei le mie opportunità di vendita molto più diluite nel tempo.

Una alternativa, ovviamente, è assumere più editor e più lettori.
Che tuttavia devono essere pagati – e devono essere in gamba, per mantenere il livello qualitativo della rivista. Vogliamo anche evitare che un editor sovraccarico di lavoro o meno che competente bocci una storia autentica scambiandola per una storia farlocca – anche se l’adozione di criteri di valutazione più restrittivi resta probabile, e quindi il rischio di venire esclusi per errore aumenta (un altro problema che danneggia gli autori).
Più editor in gamba da pagare può significare tre cose, tre diverse possibilità:

1 . restando immutati i fondi, si pagano di meno gli autori; e questo mi danneggia sul piano economico.

2 . per coprire le nuove spese, tocca aumentare il costo della rivista o dell’abbonamento, con una possibile flessione delle vendite – il che significa che non è una soluzione, e rischia di limitare la circolazione della rivista, o addirittura portarla alla chiusura; e questo per me è un danno, sia per le mie entrate che per il mio brand, che per il fatto che il numero di mercati a cui spedire le mie storie si riduce.

3 . si chiede un contributo di lettura agli autori – il che significa che mi tocca pagare per sapere se la mia storia verrà acquistata e pubblicata oppure no; e per me questo è chiaramente un danno economico, perché capovolge la direzione del mio flusso di cassa (spesa certa a fronte di entrata incerta).

Il punto tre è stato anche proposto come modo per limitare le submission farlocche – se il mio scammer deve spedire 100 storie, e per ciascuna deve spendere 5 euro, non le spedisce.
Il bene trionfa.

Ma che dire di tutte le persone che verrebbero danneggiate da una simile policy?
Perché io 100 storie al mese non le spedisco, ma magari 5 sì.
E magari per me 25 euro vanno e vengono. Ma ci sono persone che vivono in posti o si trovano in situazioni per cui anche solo 5 euro sono tanti.
Si tratta di un ostacolo in più – grande o piccolo che sia – e che non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità della scrittura.

Divago un secondo: io ho cominciato a scrivere racconti quando avevo 15 anni, e ho cominciato a ragionare sull’idea di spedire le mie storie all’estero quando ne avevo circa 18.
Ma era un’epoca in cui i cavalli andavano ancora a carbone, per cui spedire una storia ad Asimov’s (per dire) richiedeva che il dattiloscritto venisse spedito fino a New York, con acclusa una busta col mio indirizzo per la risposta/restituzione del manoscritto, e 4 International Reply Coupon o Buoni di Risposta Internazionale. Che all’epoca a Torino si poteva acquistare solo alla Posta Centrale, e spesso toccava ordinarli e aspettare che arrivassero.
Era una spesa, un notevole dispendio di tempo, ed un rischio – ed io non avevo (giustamente) una fiducia sufficiente nelle mie storie per buttare tutto quel lavoro e quei (pochi) soldi.
Con l’avvento di internet è cambiato tutto – e la mia prima vendita professionale risale al 1998, quando avevo da un paio d’ani una connessione a internet e di anni ne avevo 31.
Click, e poi dita incrociate.
Una serie di ostacoli essenzialmente economici e logistici hanno frenato la mia “carriera” per tredici anni. Non una tragedia, o forse sì – chi può dire?
Però non voglio che altri vadano a sbattere contro freni del genere.

Richiedere un pagamento – così come l’altra idea, chiedere che i testi siano dattiloscritti o scritti a mano anziché in formato digitale – frenerebbe forse le AI e gli scammer che le usano, ma renderebbe la vita molto difficile a un sacco di gente … e ad un sacco di gente in situazioni già critiche: i poveri, coloro che vivono in nazioni meno che illuminate, persone con diversi tipi di disabilità fisiche…

E qui qualcuno potrebbe dirmi, ma questi, poveri e disabili che vivono in un paese di merda, avrebbero anche il tempo per scrivere e la presunzione di pubblicare?
Non hanno preoccupazioni più urgenti?

Ed è così che la scrittura diventa un giocattolo per i ricchi.
Che poi i ricchi in questoi caso saremmo poi noi, vale a dire coloro che si possono permettere l’euro, o i cinque euro, o i dieci, per spedire la storia agli editor.
E senza voler essere offensivo nei confronti di nessuno dei presenti, saremmo tutti dei ricchi abbastanza miserabili.

Però piace, a molti, questa idea del fatto che scrivere sia un hobby per spacciarsela, e non un lavoro per pagare i conti.
Magari un giorno ne parleremo.

La soluzione più probabile, naturalmente, è quella di usare un’AI contro le AI – adottare dei software antiplagio, che filtrino i racconti e cestinino in automatico le storie fasulle.
Ma attenzione – non dimentichiamo che software simili hanno a suo tempo bloccato il file audio del miagolio di un gatto identificandolo come musica coperta dal copyright della EMI.
Un filtro alimentato da una AI non garantisce risultati corretti al 100%, specie all’inizio.
Storie scritte da autori umani verrebbero certamente scambiate per storie fatte a macchina, e cestinate.

Non se ne esce, e come spero sia chiaro da ciò che ho scritto qui sopra, le meravigliose qualità umane della creatività e dell’ispirazione, che rendono le nostre opere sempre superiori all’output di un software, non c’entrano assolutamente nulla.

Stiamo semplicemente assistendo allo sversamento di una quantità enorme di spazzatura all’interno di quello che era, finora, un ecosistema sano.
L’effetto è quello solito, di danneggiare l’ecosistema e i suoi abitanti.
E poi per ripulire il sistema dalla spazzatura, toccherà spendere un sacco di soldi, e fare dei sacrifici.


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Un magnete per l’avidità

To Space-Age man, every mystery is a greed-magnet.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Pare che dall’inizio dell’anno prossimo saranno disponibili commercialmente i primi software “efficienti” per la scrittura di narrativa.
Non nel senso di cose come Scrivener, che se si adatta al vostro approccio alla scrittura, vi permette di organizzare il vostro manoscritto. No, dei programmi che, usando il machine learning, potrenno campionare in tempi rapidissimi un intero corpus di testi e poi produrre, a partire da alcuni “semi”, un racconto o un romanzo.

AI per la narrativa – l’equivalente di ciò che Midjourney è per la grafica.
Li avete visti, in giro, ne sono certo, tutti quei post sui social con delle immagini un po’ legnose di gente con troppe dita, e sotto scritto, “Conan il Barbaro diretto da Wes Anderson”.

Che valanga di risate, eh?
Certo, dopo la sedicesima volta diventa un po’ noioso, ma il futuro è così brillante che devo mettermi gli occhiali da sole.

Quando, nelle settimane passate, un editore di prima fascia come la Tor ha messo una immagine AI-generated su una copertina, c’è stata una levata di scudi generale nel mondo della grafica e nel campo degli autori.
I problemi sono due.
Il primo, il più ovvio, è che ovviamente usando una AI per generare una copertina, non si paga un artista. E le persone che si guadagnano da vivere disegnando, sono comprensibilmente preoccupate, nel vedere una contrazione possibile del loro mercato.
Il secondo problema è dato da come una AI tipo Midjourney opera – sulla base delle parole chiave esegue una ricerca in rete per immagini taggate in quella maniera, le campiona, e le utilizza per sintetizzare un certo numero di nuove immagini. Questo significa che i lavori di chiunque abbia una galleria online del proprio lavoro come illustratore sono preda libera, in barba al copyright. Ancora una volta, chi si guadagna da vivere con la propria arte viene penalizzato.

È per questo che a me quasto eterno carosello di “Titanic diretto da F.W. Murnau”, “Flash Gordon diretto da Zack Snyder” e compagnia danzante dà abbastanza fastidio.
Non solo perché, onestamente, chissenefrega di come sarebbe King Kong diretto da Kubrik o Casablanca diretto da John Waters. Ma soprattutto perché è l’altra faccia del machine learning.
Se da una parte è necessario educare le macchine a campionare e sintetizzare sempre meglio le fonti – ed è ciò che coloro che creano e condividono quelle immagini stanno facendo – dall’altra è anche necessario educare il pubblico ad accettare l’AI art come la più gran figata dai tempi delle caverne di Altamira.

Ora, programmi che generano testi a partire da un seme di concetti, nomi e situazioni, esistono già – due anni or sono ho partecipato alla presentazione online di uno di questi software, sviluppato per produrre pornografia.
Perché pornografia?
Perché nel settore dell’autopubblicazione, è la categoria che paga di più, ed è un genere di narrativa che utilizza delle formule elementari, ripetitive e molto rigide (no, non è un doppiosenso), per un pubblico facilmente fidelizzabile e decisamente di bocca buona (ancora una volta, non un doppiosenso).
E quindi ecco un software nel quale io posso settare una manciata di parametri, e ricavarne un file con un testo del numero di pagine richieste, che necessita solo un’editata.
Poi ci metto il mio nome, e lo vendo.
Bello liscio.

Ciò che mi colpì in particolare di quella presentazione, fu il tono con cui la persona che aveva prfogrammato questo software descriveva la propria creazione.
Il concetto reiterato di continuo in quelle due ore era

Pensate a quanti soldi potrete fare, senza bisogno di saper scrivere.

Perché l’idea non era solo quella di presentare il software, naturalmente, ma anche di venderlo.
Un fisso per il programma principale, e un abbonamento annuale per gli upgrade.

Non c’era nulla, in quella presentazione, che facesse riferimento alla possibilità, francamente straordinaria, di avere una macchina che crea storie.
L’unico segno di passione mostrato dalla persona che aveva creato quella macchina era la passione per i soldi.
L’unica considerazione per i lettori era in funzione di quanti quattrini avrebbero pagato.

La frase con cui si apre questo post è presa da Le Argentee Teste d’Uovo, di Fritz Leiber – un romanzo satirico su un futuro in cui la narrativa viene creata dai “mulini”, a partire da input inseriti dagli “autori”, il cui lavoro principale è apparire bene in fotografia e fare cose per comparire negli articoli dei giornali.

Nel 1962, Fritz Leiber vide che l’avidità avrebbe prevalso.
Perché ai vecchi tempi, nella fantascienza, l’idea era che le macchine in futuro si sarebbero sobbarcate tutti i lavori noiosi, lasciando gli esseri umani liberi di dedicarsi all’arte, alla filosofia.

A just machine to make big decisions
Programmed by fellows with compassion and vision
We’ll be clean when their work is done
We’ll be eternally free, yes, and eternally young, ooh

Donald Fagen, I.G.Y., 1982

E invece no.
Che si fotta la filosofia, hanno detto alcuni.
Possiamo vendere l’arte fatta dalle macchine, e non dobbiamo pagarle.
È tutto profitto.
I lavori noiosi possono farli quei disgraziati là fuori, pagati il meno possibile.
E che ringrazino di avere un lavoro.
Se lavoreranno abbastanza duro potranno avere qualche spicciolo per comperare l’arte fatta a costo zero dalle macchine, che noi venderemo loro.
Si fottano la compassione e la visione – noi vogliamo i quattrini!

Leiber lo aveva previsto.

È accaduto, molti anni or sono, con i software di traduzione.
Oh, ve lo garantisco – provare a tradurre un romanzo con Google Translate darà dei risultati fra il grottesco ed il ridicolo, ma la sola comparsa sul mercato del vecchio, orribile Italian Assistant, negli anni ’90, fece crollare le tariffe dei traduttori.
Ora sta succedendo ai grafici.
Presto toccherà agli scrittori.

C’è stata una levata di scudi, si diceva, riguardo all’uso di AI art per le copertine della Tor.
Autori di successo come John Scalzi e Kaitlin R. Kiernan hanno dato disposizioni che i loro lavori non vengano mai pubblicati con illustrazioni generate da macchine.
Hanno il potere contrattuale per farlo.
Ma presto si potrà aggirare il problema pubblicando romanzi composti da macchine a partire da un campione di testi preesistenti. E le macchine non protesteranno per le copertine.

Le AI di scrittura seguirenno le regole del manuale alla lettera, per la gioia dei guru – che non potranno più tenere corsi di scrittura, certo, ma probabilmente si metteranno a vendere software, o corsi di programmazione e machine learning, perché gli eredi di P.T. Barnum cascano sempre in piedi.

E i sostenitori dell’idea che il successo di un testo dipenda dall’editor, e non dall’autore, saranno finalmente vendicati – perché l’unico lavoro disponibile per gli esseri umani, per un po’ almeno, sarà quello di ripulire e infondere un minimo di vita in testi fatti a macchina.
Ma se le regole sono chiare, anche l’editing può essere svolto da un software, per il solo costo dell’energia elettrica necessaria ad alimentare i processori.

È luddismo, il mio?
No.
Le intelligenze artificiali possono fare grandi cose – nella diagnosatica, sia in ambito medico che in ambito ingegneristico. Nella ricerca. Nella risposta alle crisi ambientali che diverranno sempre più frequenti nel nostro futuro prossimo.
Le AI possono fare moltissimo per migliorare la condizione umana.
Ma qui non è di migliorare la condizione umana, che stiamo parlando.
Qui parliamo del solito vecchio problema di cui parlava la buonanima di Harlan Ellison in quel vecchio video che io riposto spesso – pagare l’artista, pagare lo scrittore.

E, per contro, l’idea di massimizzare i profitti pagando il meno possibile il lavoro altrui.

Le macchine non eguaglieranno mai l’immaginazione e la creatività umana, si potrebbe obiettare.
Vero.
O per lo meno probabile, per qualche anno ancora.
Ma siamo interessati, davvero interessati, all’immaginazione, alla creatività ed all’originalità dell’essere umano?
Voglio dire, avete visto queste immagini fighissime di come sarebbe Yojimbo se l’avesse diretto Sergio Leone, o I Sette Samurai se l’avesse diretto John Sturgess?
Pensate che storia, avere la possibilità di leggere un nuovo romanzo proprio come quelli di Stephen King, uno nuovo, ogni anno, per l’eternità, anche dopo che il vecchio imbecille sarà morto e sepolto.
Meglio degli originali.

E quei palloni gonfiati che per anni si sono dati delle arie ed hanno fatto soldi standosene seduti a scrivere e a disegnare dovranno ffinalmente trovarsi un lavoro vero.
Così imparano.

Humans aren’t as you idealized them, Blanda. Humans are dream-killers. They took the bubbles out of soapsuds, Blanda, and called it detergent. They took the moonlight out of romance and called it sex.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Dal punto di vista di una persona che invidia profondamente chi è capace a disegnare, che ama leggere, e che si guadagna da vivere scrivendo storie e facendo traduzioni, il panorama è desolante.
Il consiglio che si sente ripetere nei forum delle associazioni professionali di scrittori è di fare cassa e prepararsi a un lungo inverno.

Lo so, è una visione molto pessimistica di ciò che ci aspetta.
Ma a volte è necessario guardare alle meraviglie del progresso con una sana dose di diffidenza, e sperare che queste visioni oscure di avidità rampante e creatività umiliata siano delle self-preventing prophecies.


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Mille euro e una gita fra i monti

Nell’ultima settimana, attraverso il meraviglioso strumento dei post sponsorizzati su Facebook mi sono stati offerti cinque (CINQUE) corsi di scrittura – più una fantomatica “masterclass” sullo stesso argomento.
I corsi vanno dall’estremamente generico (“scopri il piacere della scrittura!”) al ridicolmente specifico (“scrivi fantasy come Brandon Sanderson”), ed hanno un costo che oscilla dai 350 ai 2000 euro.
Sono tutti offerti da scuole di scrittura con nomi tra il roboante e l’accattivante, e tenuti da persone che coprono lo spettro cha va da “e questo chi è?” alle risate isteriche, “ma che, davvero?!”
Uno dei corsi prevede che io parta con tenda canadese e sacco a pelo per andare a scrivere fra le montagne con una banda di sconosciuti “aspiranti scrittori” … e se non è l’incipit di un film horror indipendente questo, non so davvero cosa sia.

E potrei anche dire che, dopo sei anni ormai passati a pagarmi i conti scrivendo, essere martellato da questo continuo “impara a scrivere!” … “vieni a imparare come si scrive!” … “pubblica finalmente il tuo romanzo!” … ecco, non è che faccia benissimo alla mia sindrome dell’impostore … oddio oddio hanno scoperto che non ho idea di come si faccia.
Ma è un momento, e poi mi ricordo che no, ho una buona idea di come si faccia, e la mia banca lo può confermare (sono, in effetti, i miei più grandi fan – specie l’ufficio mutui e finanziamenti).
Lo possono confermare i miei lettori, i miei editori.

Ora, naturalmente, la strada che porta alla scrittura è diversa per ciascuno di noi, e magari c’è davvero qualcuno che, sperduto fra i monti con un paio di migliaia di euro in meno sul conto, alla disperata ricerca di una toilette che non sia una tana di marmotta e braccato dai montanari mutanti cannibali, trova la propria realizzazione come narratore.
E chi sono io per criticare queste persone?

Alla fine è come la persona che, colpita da una malattia odiosa e incurabile, fallito l’intervento di medici e specialisti, alla fine prova anche ad andare dallo stregone, dal guaritore omeopatico di scuola ayurvedica, dal settimino che gli impone le mani. Nessuno può biasimarlo, perché è un suo diritto provare qualunque cosa, davanti alla prospettiva di dover morire.

Possiamo però biasimare, e molto, chi approfitta di questa che è una necessità psicologica di una persona disperata, per farci dei soldi.

I corsi di scrittura – e credetemi, ne ho tenuti, quindi sono stato dall’altra parte della barricata – rispondono ad una forma di disperazione. Meno drammatica certo del sentirsi dire che non c’è cura e non c’è speranza, ma qui non stiamo facendo a gara su chi abbia la disperazione “più importante”.

Ciò che possiamo fare quando teniamo questi corsi è spiegare che non esiste una soluzione uguale per tutti – che l’incertezza è normale, e che esistono pratiche che possono aiutarci a tenerla sotto controllo.
Ma promettere la via, la verità e la luce è disonesto.

All’origine di questa che è ormai palesemente una industria è il problema centrale di chi scrive, ed un problema che tutti hanno affrontato quando hanno messo per la prima volta delle parole in fila su una pagina – “come faccio a sapere che quello che ho scritto è giusto“?

E giusto assume significati diversi per diverse persone – ma negli ultimi anni “scrivere giusto” ha assunto il significato di “seguire le regole”.
Seguire le regole è in fondo la risposta a quella paura che si diceva.
“Ho scritto giusto perché ho seguito le regole. Ergo, il mio è un buon libro.”

È interessante, in effetti, che molti di coloro che, per anni, su blog e forum, hanno insistito sull’importanza suprema delle regole (sempre e solo quelle quattro o cinque regole, non starò a ripetervele), poi si siano messi a offrire corsi di scrittura.
“Solo io posso insegnarti le regole per scrivere giusto. Vieni con me fra le montagne, ma prima caccia i danari…”

Sorvoleremo qui sul fatto che spesso queste persone non hanno alcuna esperienza di prima mano dell’atto della scrittura, ma sono semplicemente lettori – ed è un po’ come se l’essere assidui spettatori di gare di Formula 1 li qualificasse ad insegnare la guida ad alta velocità.

Ma no, restiamo focalizzati su questo fatto, che esiste una persona o, sempre più spesso, una organizzazione, che a fronte di un pagamento in denaro – un pagamento salato ma non inavvicinabile, perché sennò nessuno abbocca – vi insegnerà a scrivere.

Loro sanno come si fa, e sono disposti a insegnarvelo.
E se alla fine doveste fare un buco nell’acqua, e i vostri racconti dovessero venire usati come esca per il camino dagli editori, beh, siete voi che non vi siete impegnati abbastanza.
E poi, certo, c’è il corso avanzato di scrittura, al quale potreste iscrivervi avendo seguito il corso di base…

Dovremmo porci delle domande.
È davvero solo una questione di soldi e di applicare una serie di regole?
Conta la spesa? Scriverò meglio, seguendo un corso da 980 euro più IVA, di quanto scriverei se seguissi un corso da 350 euro tutto compreso?
Ma più importante, c’è davvero una formula, e alcuni che la possiedono sono disposti a condividerla con noi, e dopo tutto andrà bene?
È alla fine scrivere un libro come preparare una teglia di lasagne – basta seguire la ricetta e rispettare i tempi di cottura?
E se è così, perché ci sono al mondo così tanti ricettari, con così tante ricette diverse per le lasagne, e comunque nostra nonna ride di loro e fa a modo suo e le sue lasagne sono un sogno?

Ma certo, le lasagne sono una cosa diversa – mi basta assaggiarle per sapere se le ho preparate “giuste” oppure no.
Ma ciò che scrivo?
Come faccio a sapere che la mia storia funziona, che non mi rideranno in faccia, che qualcuno sul suo blog non la smonterà riga per riga dandomi del ritardato mentale davanti a un pubblico che nei commenti farà a gara a chi riesce ad essere più odioso?
Posso farla leggere alla mamma, o alla fidanzata, o agli amici, ma cosa ne sanno, quelli?
Ho bisogno di qualcuno che sia autorevole, e che mi liberi da questa paura.
Qualcuno che, metaforicamente, assaggi le mie lasagne dall’alto della sua esperienza, e a fronte di un pagamento e magari una gita fra i monti insieme ad altri aspiranti creatori di lasagne, mi dica come aggiustarle, metaforicamente, di noce moscata…

Il punto alla fine è questo – tutti hanno paura.
Nessuno sa come si scriva “giusto” … nessuno sa davvero cosa sia giusto o sbagliato.
Stiamo tutti improvvisando.
Ciascuno di noi sfrega assieme due idee, decide (forse) una struttura, buttagiù un paio di dialoghi, prova a vedere dove andrà questa storia… Magari riscrive, magari decide di buttare tutto e ricominciare da capo.
L’unica cosa che conta davvero è la pratica.
È la pratica che ci dice quali regole applicare, e dove, e quali ignorare. La pratica che ci dice che queste due idee sono promettenti mentre quelel altre dodici sono belle, sì, ma non funzionano, non qui, non ora, magari la prossima volta.
È la pratica che ci dice che, arrivati alla fine, sì, è una storia decente – e ci spinge a superare l’orrore di spedirla a uno sconosciuto che valuterà se pubblicarla oppure no.

Ciò che un corso di scrittura può fare è mettere ordine nelle nostre esperienze, e fornirci degli esempi, e degli strumenti (le più volte reiterate regole) che tuttavia starà a noi decidere – sul campo e a seconda delle circostanze – come, e quando, e perché usare. Se vogliamo usarli.
I corsi servono ad evitare che noi si debba reinventare la ruota, ma se poi usarla per costruire una carriola o per aprire una bottega di ceramista, quello sta a noi deciderlo.
Il resto è pura improvvisazione, una certa dose di incoscienza, ed una buona quantità di paura.

Questi corsi ci promettono la libertà da questa paura.
Ci promettono di liberarci dall’incertezza e dal dubbio.
Hai spuntato tutte le caselle giuste, puoi stare tranquillo.
Alla prova dei fatti, non basta.
Quell’incertezza e quel dubbio sono parte dell’esperienza, esattamente come il divertimento e i momenti di frustrazione.

Volete seguire un corso?
Perché no.
Ce ne sono tanti in giro, per tutti i prezzi – come mi ha dimostrato Facebook nell’ultima settimana – incluso uno che vi insegnerà a scrivere fantasy come Brandon Sanderson.
Brandon Sanderson che, in effetti, ha pubblicato gratis su Youtube il suo corso di scrittura tenuto alla Brigam Young University.

L’importante è essere consapevoli che i corsi, così come i manuali, servono solo a fornirci gli strumenti, e starà poi a noi decidere come usarli.
Le regole della scrittura, come dice un mio buon amico, sono solo convenzioni – e quindi si possono cambiare. Cambieranno, che ci piaccia o no.
Conoscerle è utile, usarle è una questione di esperienza e di pratica, non di formule precotte.

Qualche anno addietro ho postato sul mio blog in inglese un corso di scrittura gratuito in una sola pagina – ed ha avuto un certo successo, anche se alcuni l’hanno considerato uno scherzo o una parodia.
Ho una mezza idea di ampliarlo, tradurlo e distribuirlo di nuovo gratis.
Poche pagine, che potrete portare comodamente con voi in montagna…


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La preghiera di Shorr Kan

Leviamoci subito la notizia dai piedi, prima che i soliti canali se ne impossessino e la facciano deragliare: due membri di una organizzazione che afferisce alla galassia della “climate rebellion” è andata alla National Gallery di Londra, e ha gettato della zuppa di pomodoro Heinz su I Girasoli di Van Gogh lì esposti.

Il motivo del gesto, dalle loro dichiarazioni, era sensibilizzare il pubblico sul fatto che il pianeta sta andando all’inferno in un secchio e un sacco di gente sta male.

“Cosa vale di più? L’arte o vita? Vale più del cibo? Vale più della giustizia? Siete più preoccupati per la protezione di un dipinto o per la protezione del nostro pianeta e delle persone?”

Incredibile dictu, alla National Gallery di Londra, davanti a I Girasoli di Van Gogh, c’è un vetro antiproiettile, che ora sappiamo essere impenetrabile anche alla zuppa di pomodoro.

Si tratta di un gesto estremamente stupido – che ci siano musei che prerservano le opere d’arte non incide sui problemi ambientali e sociali. Non è che se bruciassimo tutte le tele in tutti i musei i problemi si risolverebbero.
Non è che si potrebbe dire, beh, OK, ora che non dobbiamo più finanziare i musei qui soldi li spendiamo in aiuti ai bisognosi.
I soldi per i bisognosi ci sono, ma non sono i musei a sottrarli dal sistema.

Si tratta perciò semplicemente di un gesto che fornisce munizioni a quelle persone (li conosciamo) che ora potranno farsi scudo dell’essere “moderati”, e puntando il dito accusare chiunque si occupi di crisi ambientale o diritti civili p che protesti in qualunque modi per qualunque cosa, di essere uno che vuole buttare zuppe diverse su capolavori dell’arte.

Per questo motivo, più che per ogni altro, si è trattato di un gesto stupido.
Perché è innegabile che le vite umane, e l’ambiente, e i diritti, siano estremamente importanti.
Ma questo gesto è inutile, e stupido, perché è completamente slegato dalle preoccupazioni – più che legittime – che si suppone lo abbiano animato.

E già che ci siamo, facciamo anche un po’ di difesa preventiva – perché li sento quelli là fuori che “ah, ma ai tempi delle proteste di Black Lives Matter, eri dalla parte di quelli che hanno abbattuto la statua di Edward Colston a Bristol!”

Sì, e sono ancora dalla loro parte, e vorrei approfittare della vostra attenzione per sottolineare la differenza fra i due eventi – perché presto li vedrete accomunati su qualche canale populista, e potreste non avere una visione completa dei fatti.

Il 7 giugno 2020, a Bristol (UK) i manifestanti per i diritti civili scesi in piazza con il movimento Black Lives Matter hanno abbattuto la statua di bronzo di Edward Colston, filantropo del 17°/18° secolo, e mercante di schiavi, e l’hanno letteralmente gettata a fiume. Un uomo che ha fatto un sacco di cose buone, Colston, scuole e case popolari ed ospedali, coi soldi ricavati dalla vendita di altri esseri umani.

Per gli amanti del dato statistico, parliamo di 84.000 uomini, donne e bambini, trasportati dall’Africa ai Caraibi. Per lo meno 19.000 morirono di stenti durante il transito.

Da circa vent’anni, l’amministrazione di Bristol ricevevava regolarmente petizioni perché la statua venisse rimossa, e ritirata in un museo, con una scheda di accompagnamento che spiegasse ai visitatori che sì, esiste questa contraddizione – uno può causare soffferenze indicibili con una mano, e fare del bene con l’altra.
L’amministrazione aveva sempre ignorato le petizioni.
Poi il 7 giugno la statua di Colston finì a mollo.

I manifestanti vennero accusati – di solito da gente che non sapeva fino al giorno prima chi fosse Colston, o che a Bristol ci fosse una sua statua – di voler “cancellare la memoria storica”, e di “non rispettare l’arte”.
Li ho sentiti.
“Abbattere le statue è sempre sbagliato!”
Davvero?

Incredibile dictu, il bronzo non soffre particolarmente per una breve immersione in acqua.
L’11 giugno 2020 la statua è stata ripescata, ed esposta in un museo.
Le petizioni della popolazione sono state finalmente accolte (bastava insistere un po’).

Paragonare questo evento a due pirlotti che gettano della passata di pomodoro su un quadro è scorrertto e tendenzioso – da una parte abbiamo una protesta per i diritti umani, che abbatte la statua di una persona che sulla negazione di quei diritti ha cotruito una fortuna, una statua che continua ad essere lì nonostante le ripetute e civili richieste della popolazione.

I due pirlotti con la loro latta di zuppa Heinz che si mettono in posa per le fotografie fanno un sacco di baccano in un museo per qualcosa che con i musei – e con Van Gogh e con i girasoli in genere – ha poco o nulla a che vedere.

Non ci risulta che Vincent Van Gogh abbia particolarmente inciso sul clima, e la spesa per il mantenimento dei musei è una goccia nel mare della spesa pubblica, e ci sono soldi spesi dagli stati che sono molto più discutibili e moralmente dubbi del tenere le luci accese nei musei.

Il “gesto di protesta” è solo un modo per attirare l’attenzione – e se l’idea era quella di attirare l’attenzione su un problema serio e pressante, c’erano infinite maniere più costruttive, e di maggiore impatto, e che non forniscono munizioni a chi cerca sempre e comunque una buona scusa per delegittimare le proteste.
C’erano infinite alternative.
Ma certo, comportavano rischi maggiori che un richiamo all’ordine per disturbo della quiete.
I super-ricchi si imbizzarriscono molto quando gli si vandalizzano le automobili o quando si pubblicano i loro rendiconti bancari, ad esempio – molto più dei dipendenti dei musei quando li si obbliga a smontare un vetro protettivo e metterlo in lavastoviglie.

Perciò no, le due proteste – come potete vedere anche dalle fotografie – sono due cose diverse.
Però ve le presenteranno come sintomi degli stessi problemi.
Magari ci butteranno dentro anche Greta Thumberg, e il fatto che dovrebbe tacere e andare a scuola.

E davvero, non mi interessa da che parte stiate in queste faccende, riguardo a Colton, a van Gogh, alla Thumberg e a tutto il resto.
Ma vorrei ricordare a voi, in questo momento di confusione, la Preghiera di Shorr Kan:

O signore, dammi dei nemici intelligenti ma non degli amici stupidi.


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Anime & Politica

Molti anni or sono – ma davvero tanti, era il 1993 – un tale che conoscevo nell’ambiente dei magmamaniaci, che avevano da qualche tempo preso ad autodefinirsi otaku, mi venne a dire che alle prossime elezioni politiche avremmo dovuto votare un certo personaggio, imprenditore e proprietario di tre reti televisive, “perché è quello che ha portato più cartoni animati giapponesi nel nostro paese.”
Sarebbe stato un voto utile, mi spiegò.
Più anime per tutti.

Io avevo altro a cui pensare, ma l’idea mi parve al contempo ridicola, offensiva e pericolosa.
Ricordavo le foto di Reagan di pochi anni prima, con gli adesivi “Rambo is a Republican”, e dissi a quel tale di farsi un giro.
Gli citai anche, ne sono certo, i Campi Hobbit.

Ed ora, quasi trent’anni dopo, in occasione di questa tornata elettorale, ho sentito dire che sarebbe stata una buona idea votare per una certa candidata “perché almeno è una fan di Tolkien”.
E in comizio si è citato il film di Peter Jackson, e si è andati anche a scomodare il povero George R.R. Martin.

Qualunque cosa, pur di trovare un appiglio al nostro immaginario, ed usarlo.

Rambo, Capitan Harlock e Sailor Moon, Conan il Barbaro, Cthulhu, Aragorn figlio di chi sappiamo, Daenerys Targaryen…

È un po’ come quando viene fatto l’ennesimo remake, o il quinto sequel/reboot di un film su un personaggio dei fumetti – perché correre dei rischi proponendo qualcosa di nuovo, quando possiamo far leva su qualcosa che c’è già, nella testa e nell’anima del pubblico?

E quindi in politica, perché avere un programma quando possiamo arruolare i fan di un qualche grosso franchise semplicemente dicendogli “noi e voi siamo uguali, e quindi voi la pensate come noi”?

Ho sempre trovato sottilmente tragico che John Rambo, un veterano traumatizzato ed abbandonato dal sistema, che cerca un posto dove mangiare un boccone e invece viene bastonato e braccato dalla polizia, sia diventato il poster-boy per il partito Repubblicano.

Ho sempre torvato profondamente grottesco che l’opera di Tolkien sia stata dirottata dal lavoro di un critico al quale la buonanima di Tolkien disse “tu non hai capito nulla del mio lavoro”, e che quasi certamente non aveva mai letto i libri.

E trovo profondamente offensivo che un politico di qualsivoglia colore o inclinazione provi ad appropriarsi del mio immaginario al fine di potermi arruolare.

Però succede.
Continua a succedere.
Ed ho l’orrenda impressione che una certa percentuale di persone continui a cascarci.

Sotto il governo Reagan, le politiche a favore dei veterani vennero drasticamente ridimensionate.

A partire dagli anni ’90, le reti Mediaset ridussero drasticamente l’importazione di nuovi titoli di animazione giapponese, e cominciarono a censurare massicciamente le serie che rimasero in programmazione.

E io ho dei forti dubbi che una nuova apertura nei confronti degli elfi di Lothlorién avrà un impatto positivo sulla situazione internazionale, e sullo stato dell’ambiente.
Però, certo, gli elfi sono tutti biondi…