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ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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La fine del Book Depository

È di queste ultime ore la notizia che The Book Depository, negozio online di libri con sede a Gloucester, UK, chiuderà i battenti a fine mese.
Fondato nel 2004 da un ex dipendente di Amazon, il Book Depository era una interessante alternativa alla bottega digitale del signor Bezos – con un colossale catalogo di libri cartacei, inclusa una vastissima selezione di titoli usati, spediti gratuitamente ovunque nel mondo.

È noto che io acquisto molto volentieri libri usati – che sono spesso più a buon mercato delle versioni in ebook degli stessi titoli, e hanno il valore aggiunto di contenere spesso note, sottolineature ed altre meraviglie dei precedenti lettori.
È mia abitudine acquistare solo di seconda mano i libri sullo zen e sul taoismo – per un vezzo, e perché trovo che le stropicciature e il logorio della carta ben si adattino al contenuto dei volumi, ed all’idea che si stia passando di mano in mano la conoscenza.

Ed uno dei libri che sto leggendo ora – Pirates of Barbary, Corsairs, Conquest and Captivity in the 17th century Mediterranean, di Adrian Tinniswood – arriva proprio dal Book Depository, dove l’ho pagato 3.99 euro contro i quasi tredici che mi avrebbe chiesto Amazon.

I libri del Book Depository mi sono sempre arrivati sempre in ottime condizioni, spesso nuovi di pacca nonostante il prezzo e lo status di “Usato in ottime condizioni”, e a prezzi molto vantaggiosi – si potevano acquistare direttamente dal loro sito, o su eBay, o persino attraverso Amazon.
La filosofia di fondo era che il Book Depository avrebbe reso disponibile ciò che Amazon non aveva in catalogo, o che restava comunque penalizzato dagli algoritmi del colosso delle vendite online, che tendono a spingere una selezione di bestseller.
Il Book Depository, in altre parole, era dove si andavano a cercare a poco prezzo i libri introvabili.

Con la fine del mese di Aprile, tutto questo finirà.
Il 26 del mese è l’ultima data utile per fare degli ordini. Le consegne proseguiranno fino al 23 di Giugno.

Per quale motivo, questa chiusura?

Book Depository era stato acquistato nel 2011 proprio da Amazon, che ora, dopo dodici anni di onorata attività, ha deciso di fargli chiudere i battenti.
A parte una generica nota relativa alla “uncertain economy” ed il dare la priorità alla salute dell’azienda ed alla soddisfazione dei clienti (ovvero il solito bla bla aziendale), i motivi della decisione non sono stati divulgati, ma a inizio anno il negozio online di mister Bezos aveva lasciato a casa oltre 18.000 dipendenti – e molti vedono nella dismissione del Book Depository una delle strategie per ridurre le spese, e limitare quella che è, di fatto, una forma di concorrenza interna.
I costi di gestione del Depository erano oltretutto aumentati negli ultimi due anni – i magazzini sono infatti in Gran Bretagna, e nel dopo-brexit i costi e le tasse per le spedizioni internazionali (gratuite in 160 paesi, ovvero a carico dell’azienda) erano lievitati notevolmente – al punto che le spedizioni in alcuni paesi erano state cancellate perché antieconomiche.

In generale, è una grave perdita per chi ama la lettura – e se è vero che esistono varie alternative, è altrettanto vero che il panorama si è notevolmente ridotto con la chiusura del Depository.
Ci possiamo domandare quale sarà il prossimo passo.
L’impressione è che le cose stiano per cambiare in peggio su un sacco di fronti.


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L’ultimo (libro) dell’anno

la cosa è partita da una discussione, qualche giorno addietro, col mio amico Germano, riguardo a Bruce Lee ed al Jeet Kune Do.
Le conseguenze di questa discussione emergeranno, probabilmente, con l’anno che viene, ma per intanto io mi sono fatto un giro sul catalogo della Shambhala Press, e saltando da una categoria all’altra, mi sono ordinato, per tre euri croccanti, una copia “usata ma in buone condizioni” di Writing Down the Bones, di Natalie Goldberg.

Il libro della Goldberg lo lessi, nell’edizione italiana pubblicata da Ubaldini (la memoria mi dice Astrolabio, ma Google mi dice Ubaldini), ai tempi dell’università, e rimane probabilmente il librosulal scrittura che è più probabile che io consigli se mi viene chiesta un’opinione a riguardo.
L’ho riletto spesso, in questi anni, e mi pareva una buona idea, ora, quasi trent’anni dopo la prima volta, ridargli un’occhiata in originale.
E poiché io i libri sullo zen li compro sempre e solo di seconda mano, ecco la mia copia “usata ma in buone condizioni”.
Questo significa, purtroppo o per fortuna, a seconda di come la volete vedere, che non mi sono potuto procurare l’edizione dle 30° anniversario, ma una copia vetusta della prima edizione.

Nel caso specifico, “usato ma in buone condizioni” significa con la copertina decisamente malandata, con pieghe e sfregi diversi. Le pagine sono ingiallite, piegate e macchiate dall’umidità – la copia è una prima edizione del 1986, ed ha visto un bel po’ d’azione in questi trentasei anni.
Ad una prima occhiata non pare ci siano annotazioni a margine – un peccato, per molti versi.

Writing Down the Bones, che in italiano si intitola Scrivere Zen, è un libro sulla pratica della scrittura come pratica di meditazione, e mira a rimuovere le barriere che eisstono fra la nostra mente e lapagina bianca.
Non perde tempo con lo show-don’t-tell e l’infodump, non tira in ballo Aristotele o Jacques Cousteau, ma si focalizza sull’idea di scrittura come esperienza e come pratica. Sottolinea non solo gli aspetti intellettuali ma anche quelli fisici, dell’atto della scrittura.
È disordinato e sorprendente, perché è stato scritto seguendo i precetti che va ad illustrare.
Ha una voce unica, e delle idee molto interessanti.
Pone una grande enfasi sulla scrittura a mano, con la penna ed il quaderno.
La mano non deve mai fermarsi è uno dei precetti centrali del libro.
Ed è un libro che parla davvero di filosofia zen, a differenza di quell’altro, che c’ha lo zen nel titolo ma non c’entra assolutamente nulla.

Focalizzato com’è sull’atto di scrivere, Writing Down the Bones non fa riferimento a generi, stili, scuole. È adatto allo stesso modo per chi scrive racconti o romanzi, saggi o articoli, per chi vuol semplicemente tenere un diario o scrivere poesie.
È ridotto all’osso, non promette successi commerciali, fama, fortuna e gloria.
Scrivete quello che vi pare, vi dice, e come vi pare. L’importante è continuare a scrivere.
È praticamente perfetto.

È, a modo suo, il primo volume di una trilogia – che comprende anche Wild Mind e The True Secret of Writing … altri due libri usatissimi, qui sul mio scaffale. Mi manca Thunder and Lightning, che scopro esistere solo ora, scrivendo questo post.
Presto, spero… magari come primo libro dell’anno.

È l’ultimo libro del 2022, e paserò qualche ora a rileggerlo, mentre aspetto la mezzanotte.
Poi, magari, nel 2023, parleremo di Jeet Kune Do.
O forse no.

E sì, ci sono link commerciali in questo post, coi proventi dei quali acquisterò, probabilmente, altri libri di seconda mano sulla filosofia zen – o magari sul Jeet Kune Do.


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Buon Natale, Tom

Un paio di mesi or sono, chiaccierando con un’amica in Nord Africa, il discorso è girato sul tema dei Pirati di Barberia, i corsari ottomani che per alcuni decenni operarono lungo le coste del Mediterraneo. Ed essendo la mia amica un’esperta in storia ottomana, le ho chiesto di consigliarmi un buon testo sull’argomento.
E lei mi ha consigliato Pirates of Barbary – Corsairs, Conquests, and Captivity in the 17th Century Mediterranean, di Adrian Tinniswood.
Un bel saggio pubblicato da Riverhead Books nel 2010.

Ora, il problema dei saggi è che, rispetto alla narrativa, costano molto più cari.
Mentre è abbastanza facile, con un po’ di pazienza ed attenzione, scucire un buon romanzo per meno di cinque euro, i saggi raramente viaggiano sotto ai dieci – e il volume in questione è un buon esempio di questo: 13 euro in paperback, 8.35 in ebook.
Un po’ troppo, per togliersi una curiosità volante, considerando che ho una pila alta così di altri libri da leggere.
Però, però…

Trovo il volume usato a tre euro, spedizione gratuita.
E allora, perché no.
Tocca aspettare una vita per il recapito, ma non è che sia una cosa urgente.

Ed oggi il postino mi consegna la busta con dentro il libro.
Ottime condizioni.
La carta un po’ ingiallita, ma per il resto il libro è perfettamente sano.
Ottimo colpo.

All’interno della copertina c’è una dedica, in penna rossa.

A Tom
Un altro per la tua collezione.
Con amore
Mamma
Natale 2011

Ed io ora sono qui che penso a Tom, che nel 2011 collezionava libri sui pirati – o forse sul Mediterraneo, o sull’Impero Ottomano, o sulla storia del 18° secolo.
Tom, al quale la mamma regalò questo libro pochi mesi dopo la sua uscita (l’edizione in paperback è del Settembre 2011).
Con amore.
Per Natale.
Undici anni or sono.

Come ha fatto questo libro ad arrivare qui a casa mia?
È stato donato a un negozio dell’usato, per beneficenza, che poi lo ha messo in vendita, certo. Fin qui è chiaro. Ma come, e perché?

Non ci si disfa di un regalo della propria madre.
Non credo, per lo meno.
Anche se il volume è doppio, non dai via quello che ha la dedica di tua mamma.
E anche se sbaracchi la biblioteca perché stai traslocando, i libri con la dedica della mamma te li porti dietro. O li metti in uno scatolone e li conservi.
Credo.

Cosa ne è stato di Tom?
Cosa ne è stato della sua collezione?
Chi ha deciso di liberarsene?
E perché?

È facile immaginare il peggio.
Spesso mi domando se questo sarà il destino della mia biblioteca, quando sarà il momento.
Verrà venduta a peso? O semplicemente mandata al macero?

Mi fa sentire strano, stringere questo libro, che stranamente connette quattro persone lontanissimo fra loro – io qui in fondo all’Astigianistan e la mia amica in Nord Africa, Tom e la sua mamma da qualche parte negli Stati Uniti.
Mi domando cosa ne sia stato, di Tom, e della sua mamma, in questi undici anni.

E non c’è null’altro che io possa fare, ora, se non leggere questo libro, e conservarlo.
Buon Natale, Tom.
Dovunque tu sia.


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Lo scrittore che vende

Ricordo ancora con un misto di affetto malato e desiderio di morte il blogger che, una decina di anni or sono, aveva preso l’abitudine di recensire i miei ebook senza leggerli, ed appioppando a tutti loro dei giudizi pessimi. Non aveva bisogno di leggere ciò che scrivevo, spiegava, per sapere che era terribile, in quanto sapeva che “Mana non crede nelle regole della scrittura.”
Talvolta mi domando, nelle lunghe notti di luna piena, cosa ne sia stato di quel tale.
Ma capita di rado, e presto mi dimentico di lui.
Però…
In realtà quella frase, quel “non crede nelle regole della scrittura” era asinina ed imprecisa – sono fermamente convinto che esistano delle regole, ma concordo anche con la buonanima di Rudyard Kipling…

“There are nine and sixty ways of constructing tribal lays,
And every single one of them is right!”

Kipling, In the Neolithic Age, Stanza 5, 1892

In altre parole, esistono delle regole, una quantità di regole, e sono tutte giuste; e quelle che vanno bene per me potrebbero non andare bene per altri. E anche, le regole che si applicano al mio lavoro attuale potrebbero non funzionare per il mio prossimo lavoro.
Chi vi dice il contrario probabilmente non sa di cosa sta parlando, ma vuole vendervi un corso di scrittura.

Ora, nel mio post di ieri citavo la faccenda degli avverbi e di Stephen King

La strada per l’inferno è lastricata di avverbi

Stephen King, On Writing, 2000

… ed illuminata dai crani fiammeggianti di sedicenti editor, aggiungo io.

E il libro di King è certo uno dei manuali di scrittura più venduti al mondo, e compare con regolarità sugli scaffali di un sacco di autori affermati, e di un sacco di aspiranti scrittori.
La cosa interessante è che tuttavia non si tratta del manuale più popolare in quella fascia intermedia di scrittori che campano scrivendo, spesso a malapena, sfornando racconti e novelle per le riviste di genere di medio livello. I cosiddetti midlister, categoria in via di estinzione da vent’anni almeno – ma ragazzi, siamo ancora qui, più coriacei e duri a morire del celacanto.
Nel caso di questa gente, il manuale che è normalmente in mostra sullo scaffale non è On Writing.
È Techniques of the Selling Writer, di Dwight V. Swann.
Conosco di persona un sacco di gente che giura e spergiura su questo libro.

Dwight Vreeland Swain, classe 1915, aveva la faccia del genere di persona che vive vendendo assicurazioni sulla vita e tronchesine per unghie, ma era in realtà uno scrittore. Negli anni del crepuscolo dei pulp pubblicò un buon numero di storie, su riviste come Fantastic Adventures e Imagination, storie con titoli improbabili come Henry Horn’s X Ray Eye Glasses (1942) o Bring Back My Brain! (1957).
Ma voi potete ridere quanto vi pare – Dwight V. Swain scriveva e ci pagava i conti, e questo era ciò che importava.
Negli anni ’50 si allargò al campo della sceneggiatura, specializzandosi nello scrivere documentari e video didattici – dobbiamo a lui la struttura narrativa standard dei documentari in uso ancora oggi.
Nel 1965, mentre insegnava scrittura all’Università dell’Oklahoma, Swain scrisse Techniques of the Selling Writer, e da allora il volume è andato un paio di volte fuori catalogo, ma è rimasto nel cuore di una vasta comunità di scrittori, che se lo sono procurato di riffa o di raffa – di seconda mano, ristampato in ebook, rubato dalla biblioteca…
Altri manuali seguirono, soprattutto sul tema della sceneggiatura, ma Techniques rimane, a 57 anni dalla sua uscita, il testo di riferimento di un sacco di gente, ed il best-seller nel catalogo di Swain.

Lo scrittore che vende, in quanto professionista orientato ad una attività commerciale, non può permettersi di scrivere testi che non siano gradevoli e/o eccitanti.
Poiché sono principalmente arnesi del mestiere, queste tecniche hanno poco o niente a che vedere con la qualità letteraria o l’assenza della medesima. Nessuno scrittore le usa tutte. Nessuno scrittore può evitare di usarne alcune. Quanto bene vi potranno servire dipende da voi stessi. Sono, in poche parole, trucchi e tecniche dello scrittore che vende. Sono tutto ciò che questo libro ha da offrire.

Dwight V. Swain, prefazione, Techniques of the Selling Writer, 1965

Mi è venuto in mente, il libro di Swain, perché dopo aver parlato della sintassi come stile, nel lavoro di Virginia Tufte, mi sono ricordato che Swain, nel suo manuale sostiene che ci sono solo quattro cose che uno scrittore deve saper fare per scrivere una buona storia – e la prima di queste quattro cose è disporre le parole in un ordine tale da creare “unità di motivazione ed azione”. In altre parole, la sintassi come stile.
Bello liscio – e sei anni prima che Virginia Tufte pubblicasse il suo infinitamente più accademico ma altrettanto influente e popolare saggio.

Pragmatico fin dalla copertina, il testo di Swain è asciutto, didascalico – sembra davvero un manuale di istruzioni per fare la manutenzione di un motore. Ho visto ricettari scritti con più eleganza e più ricchezza artistica. Swain non usa lo stile colloquiale e aneddotico di King. È freddo e diretto, fatto di liste numerate e di istruzioni che sono, sì, davvero degli strumenti, degli arnesi … cacciaviti e piedi di porco, chiavi inglesi e grimaldelli. Il genere che con il tempo e l’uso si adatterà alla mano di chi li utilizza.
Non c’è nulla di romantico, in questo libro, e nell’attività che descrive.
Scrivere è un duro lavoro, ed esistono attrezzi che ci permettono di renderlo meno faticoso, meno frustrante. Questo libro è la scatola degli attrezzi.

Per cui sì, il manuale di King è certamente molto più divertente da leggere.
Ma noi, ci piega Dwight Swain, non siamo qui per divertirci.

Con buonapace di antichi blogger dimenticati, ho letto decine e decine di manuali di scrittura. E Techniques of the Selling Writer non è probabilmente il mio manuale preferito, ma è certo uno di quelli per i quali provo il maggior rispetto, insieme con Creating Characters, How to Build Story People, che il settantacinquenne Swain scrisse nel 1990, due anni prima della propria morte, espandendo uno dei capitoli di Techniques.
Perché era uno scrittore commerciale, e quindi non buttava via nulla.

Amazon (e sì, c’è un link commerciale in questa pagina) ha ancora una singola copia cartacea dell’edizione del 1981 di Techniques, a un prezzo salato ma accettabile. L’ebook ha un prezzo da capestro, ma è perché si tratta di uno di quei libri che, se scrivete, dovete leggere.
E poi avanti, costa infinitamente meno di molti corsi di scrittura tenuti da personaggi alquanto dubbi, che vi rigurgiteranno in gola King e Vogler malamente digeriti.


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Stile e Grammatica

Ho scopertosolo oggi, con terribile ritardo, della morte, avvenuta nel marzo del 2020, di Virginia Tufte.
Aveva 101 anni. Una bella corsa, ma mi mancherà ugualmente.

Virginia Tufte era una studiosa di letteratura, ed insegnò a lungo all’Università della California a Los Angeles, come esperta di poesia rinascimentale e dell’opera di Milton in particolare, e come studiosa e storica dell’evoluzione della grammatica della lingua inglese. Fu in questo ruolo che nel 1971 Virginia Tufte pubblicò un volume intitolato Grammar as Style, in cui esplorava la relazione fra grammatica, sintassi e stile in letteratura.
Il volume, molto accessibile nonostante il taglio accademico, rimase un fenomeno di nicchia per quasi trent’anni – per venire riscoperto all’inizio del nuovo secolo. Oggi Jeff Bezos ve ne propone una copia usata per la modica cifra di 490 euro – e non sperate di trovare il secondo volume, quello con gli esercizi, per sempre scomparso negli abissi del tempo.

L’idea alla base del lavoro della Tufte era che il modo in cui le frasi vengono costruite, le scelte non solo lessicali ma grammaticali e sintattiche influiscono sul significato di ciò che stiamo scrivendo. Le stesse parole, poste in un ordine diverso, possono convogliare lo stesso significato o significati radicalmente diversi, e la scelta consapevole dell’ordine in cui disponiamo le parole è una componente essenziale di ciò che chiamiamo “lo stile” … di un autore, di un movimento, di un genere letterario.

Grammar as Style è un volume “trasversale”, che può interessare tanto gli studiosi di grammatica e linguistica quanto coloro che scrivono, ed è uno dei pochi volumi sulla piazza che si possono considerare manuali “avanzati” per scrittori … non i soliti bla bla su infodump, show don’t tell e sulla velenosità degli avverbi, ma l’analisi consapevole di come disponiamo le parole – anche gli avverbi (fattene una ragione, Stephen) – sulla pagina, e perché, per ottenere quale effetto.

Il successo tardivo del volume del ’71, che come si diceva era diventato nel frattempo una sorta di sacro graal per chi praticava la scrittura in lingua inglese, spinse Virginia Tufte a scrivere un nuovo libro, Artful Sentences: Syntax as Style, pubblicato nel 2006, quando l’autrice aveva ormai 88 anni.
Rispetto al testo del ’71, Artful Sentences è meno accademico, più leggero sulla teoria e molto ricco di esempi … decine e decine di frasi tratte da lavori di autori celebri, su un arco di quasi 400 anni, per mostrare come certe scelte sintattiche incidano sul significato delle frasi, sul ritmo del testo, e permettano di identificare elementi di uno stile.
È anche un manuale che mostra come la lingua inglese – ma, in effetti, qualunque lingua – offra una straordinaria varietà di soluzioni possibili al problema di trasmettere non solo idee, ma anche emozioni, al lettore.
Ancora una volta, non il vostro solito manualino per “aspiranti scrittori”, con il PoV e la struttura in tre atti e il Viaggio dell’Eroe. Artful Sentences è un libro per chi i rudimenti li ha appresi – di solito leggendo un sacco di romanzi, e non due manuali zeppi di errori e banalità – ed ora vuole cominciare a ragionare su quelle che Hemingway chiamava “le parole giuste”. Come sceglierle, e in che ordine disporle sulla pagina. Un libro per chi sa scrivere, e vuole provare a capire perché scrive in un certo modo, e cosa può fare di più, di meglio, di diverso.

Scoprii Artful Sentences poco dopo che era stato pubblicato – sul catalogo della Graphic Press, piccola casa editrice messa in piedi da Edward R. Tufte, figlio di Virginia, artista, scultore e grande studioso della comunicazione scientifica attraverso l’analisi grafica, il cosiddetto information design. All’epoca tenevo corsi di analisi dati, e i libri di Edward Tufte erano la Bibbia, o il Codice di Hammurabi, per quel tipo di studi. Annidato in un catalogo che comprendeva testi scientifici belli come libri d’arte, stampe artistiche di grafici statistici e pamphlet come Lo stile cognitivo di Power Point, c’era un libro sulla scrittura.
E io mi dissi, perché no?

Rileggo Artful Sentences di tanto in tanto, anche una volta o due l’anno, in certi periodi, andando a rivedermi un capitolo o due, tanto per mettere in movimento il cervello e rinfrancarmi dopo una brutta esperienza con un editor (succede, anche se grazie al cielo non di frequente).
Perché uno degli aspetti interessanti del lavoro di Virginia Tufte è che ci sgancia dalla formula cara a molti, che viene spesso applicata supinamente, col solo effetto di annientare qualunque parvenza di stile un testo possa avere. Avete mai avuto l’impressione che tutto ciò che leggete sia stato scritto dalla stessa mano? Con lo stesso ritmo delle frasi, la stessa allergia ai doppi aggettivi e la stessa assenza di avverbi – che pure usate nel vostro parlato quotidiano, e nessuno pare morire per questo….

È stato appunto durante una di queste riletture, mentre buttavo un occhio per vedere se per caso ci fosse in commercio una copia a prezzo civile del libro del ’71, che ho scoperto che Virginia Tufte se ne era andata nel 2020.

La scomparsa di Virginia Tufte mi ha causato un momento di autentica tristezza – non che mi aspettassi che restasse con noi per l’eternità … aveva 101 anni, dopotutto. Ma è un po’ come scoprire con criminale ritardo la dipartita di una zia preferita, che ci prendeva sul serio e ci trattava da adulti, e che ci incoraggiava a vivere una vita un po’ più avventurosa, anche se solo sulla pagina bianca.

Artful Sentences è fuori stampa, ma Amazon ne ha una manciata di copie usate a un prezzo decisamente abbordabile, motivo per cui vi ho messo un link commerciale, con tutto ciò che questo comporta. Una versione digitale di Grammar as Style si trova invece nell’Internet Archive, in consultazione gratuita. ;eglio che niente.


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Falso allarme

Il libro usato in “condizioni accettabili” è arrivato con un giorno di anticipo – misteri delle poste nazionali ed estere.
È arrivato in un pacco celere che è stato preso a calci da qualche parte durante il tragitto, e dentro, il volume era imbustato in una busta di plastica spessa termosaldata, con sopra una patacca nella quale Amazon si profondeva in scuse addirittura imbarazzanti per lo stato del volume.

E tuttavia, eliminata la busta protettiva, il volume risulta pressocché perfetto – se escludiamo un angolo della copertina che è stato piegato, ma davvero, una cosa da nulla. Per il resto, niente da segnalare – il libro è palesemente nuovo di pacca, mai letto o aperto, la costola è integra, le pagine sono pulite, di carta buona color crema.
È una sorpresa scoprire che la copertina è stampata su cartoncino a mano ruvido, e con un effetto vagamente iridescente. In fotografia è abbastanza bruttarella, ma dal vivo fa la sua sporca figura.

Insomma, tanto rumore per nulla.

Ora resta solo da vedere se riuscirò a farci ciò che volevo farci – che per il momento è una serie di idee bislacche annotate in un quaderno.

Vi farò sapere.


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Condizioni: Accettabili

Ho ordinato un libro usato – perché avevo una mezza idea molto poco definita di una cosa che mi sarebbe piaciuto fare, qui sul blog, o più probabilmente su Patreon, magari come podcast.
Era un’idea molto vaga.
Erano 4 euro di libro, anziché 15 per il volume nuovo.

Lo sciopero delle poste britanniche sta ritardando la consegna, ma è OK – non è che avessi proprio un’urgenza dannata di leggerlo. Pare verrà recapitato martedì.
Ma nel frattempo Amazon mi ha informato della qualità del volume, le condizioni nelle quali il libro si trova, che all’atto dell’acquisto venivano descritte come “Accettabili”. E lo sono ancora, descritte in quel modo…

Usato – Condizioni accettabili – Il prodotto potrebbe non contenere eventuali articoli media ad esso originariamente associati. Grosso danno sulla copertina. Piccolo danno sul dorso. Grosso danno alle pagine.

“Grosso danno alle pagine” mi affascina e mi terrorizza.
Perché OK, passi la copertina danneggiata – la copertina di questo volume nello specifico non è bellissima – e il dorso è destinato a danneggairsi se il libro lo leggiamo, ma le pagine?
Perché di solito uno un libro lo prende per ciò che si trova sulle pagine.
Cos’è un “grosso danno”?
Macchie di caffé?
Fori? Lacerazioni? Bruciature? Pagine mancanti del tutto?
Scarabocchi coi pastelli cera?

È un mistero, e resterà tale fino a martedì.

Perciò ora sono qui, alla mercé delle poste britanniche e poi di quelle nazionali, e sono davvero curioso di vedere cosa diamine mi verrà recapitato.
E poi sì, dovrò vedere se quiella mezza idea possa comunque svilupparsi in qualcosa di interessante.

Vi farò sapere.


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“Ora tutto può accadere”

Quando il tenente di vascello Oliver Manning scoprì sua figlia che leggeva il Times Literary Supplement, la riprese con estrema fermezza, dicendole che

ai giovanotti non piacciono le donne che leggono quel genere di giornali

Oliver aveva lasciato la scuola giovanissimo, si era arruolato come marinaio semplice nella marina britannica, e nell’arco di vent’anni era diventato comandante della sua unità; amava la poesia, conosceva a memoria molte opere di Gilbert & Sullivan ed era un impenitente donnaiolo. Nel 1904, all’età di 45 anni, aveva sposato la trentunenne Olivia Morrow, la figlia del gestore di un pub di Belfast. Olivia veniva descritta di solito come inflessibile e dotata di un caratere d’acciaio, forse con un accenno di nevrosi (o forse erano solo la rabbia e l’umiliazione).
Nel 1908, Oliver e Olivia ebbero una bambina, e la chiamarono Olivia.
E qualche anno dopo, Olivia cominciò a leggere il Times Literary Supplement e quel genere di giornali.

E questa potrebbe essere la Storia Fatta coi Cialtroni, ma non lo è…

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