strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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L’algoritmo non perdona

Sta per uscire un nuovo documentario sulla filmografia di Dario Argento.
Avvistata la notizia su un gruppo di Facebook, ho pensato sarebbe stato bello condividerla sul gruppo Paura & Delirio WTF, su cui si riuniscono gli ascoltatori del podcast Paura & Delirio.
Una semplice condivisione, il link all’articolo e la foto che lo accompagna.
Questa foto.

Si tratta di Suspiria, del 1977.

L’algoritmo entra automaticamente in azione, e io ricevo un messaggio fra il preoccupato e il minaccioso che mi consiglia di chiedere aiuto a uno specialista se provo il desiderio di farmi del male.

Uh?

Il mio cervello gira a vuoto per un paio di minuti.
Che ho fatto, ora?
Poi mio metto a ridere. OK che la produzione di Argento è calata molto come qualità negli ultimi anni, ma da qui a parlare di autolesionismo…

Ma non c’è niente da ridere.
Intanto l’algoritmo contunua a macinare, e avendo deciso che io sto istigando i membri del gruppo di cui sono amministratore a suicidarsi, mi blocca per un mese, oltre a servirmi una piccata ramanzina sul perché certe cose non si fanno.

Per aver postato una immagine di un film horror in un gruppo dedicato ai film horror.
Condividendola da un post su Facebook.

Non ho modo di protestare e chiedere una revisione.

Sarebbe comico se io non usassi alcuni gruppi di Facebook per tenermi in contatto con gli editor di rivista a cui vendo le mie storie.
Un mese di esilio potrebbe danneggiarmi economicamente.
Ma hey, ho istigato le persone a vedere un documentario su Dario Argento… è già tanto che non mi abbiano condannato a dieci scudisciate davanti a tutto il battaglione…

Per fortuna posso ancora postare sul mio blog… che è bloccato su Facebook perché sparge (a quanto pare) odio e pubblicità fuorvianti.

Ho finalmente coronato il sogno di essere un fuorilegge.


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Un magnete per l’avidità

To Space-Age man, every mystery is a greed-magnet.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Pare che dall’inizio dell’anno prossimo saranno disponibili commercialmente i primi software “efficienti” per la scrittura di narrativa.
Non nel senso di cose come Scrivener, che se si adatta al vostro approccio alla scrittura, vi permette di organizzare il vostro manoscritto. No, dei programmi che, usando il machine learning, potrenno campionare in tempi rapidissimi un intero corpus di testi e poi produrre, a partire da alcuni “semi”, un racconto o un romanzo.

AI per la narrativa – l’equivalente di ciò che Midjourney è per la grafica.
Li avete visti, in giro, ne sono certo, tutti quei post sui social con delle immagini un po’ legnose di gente con troppe dita, e sotto scritto, “Conan il Barbaro diretto da Wes Anderson”.

Che valanga di risate, eh?
Certo, dopo la sedicesima volta diventa un po’ noioso, ma il futuro è così brillante che devo mettermi gli occhiali da sole.

Quando, nelle settimane passate, un editore di prima fascia come la Tor ha messo una immagine AI-generated su una copertina, c’è stata una levata di scudi generale nel mondo della grafica e nel campo degli autori.
I problemi sono due.
Il primo, il più ovvio, è che ovviamente usando una AI per generare una copertina, non si paga un artista. E le persone che si guadagnano da vivere disegnando, sono comprensibilmente preoccupate, nel vedere una contrazione possibile del loro mercato.
Il secondo problema è dato da come una AI tipo Midjourney opera – sulla base delle parole chiave esegue una ricerca in rete per immagini taggate in quella maniera, le campiona, e le utilizza per sintetizzare un certo numero di nuove immagini. Questo significa che i lavori di chiunque abbia una galleria online del proprio lavoro come illustratore sono preda libera, in barba al copyright. Ancora una volta, chi si guadagna da vivere con la propria arte viene penalizzato.

È per questo che a me quasto eterno carosello di “Titanic diretto da F.W. Murnau”, “Flash Gordon diretto da Zack Snyder” e compagnia danzante dà abbastanza fastidio.
Non solo perché, onestamente, chissenefrega di come sarebbe King Kong diretto da Kubrik o Casablanca diretto da John Waters. Ma soprattutto perché è l’altra faccia del machine learning.
Se da una parte è necessario educare le macchine a campionare e sintetizzare sempre meglio le fonti – ed è ciò che coloro che creano e condividono quelle immagini stanno facendo – dall’altra è anche necessario educare il pubblico ad accettare l’AI art come la più gran figata dai tempi delle caverne di Altamira.

Ora, programmi che generano testi a partire da un seme di concetti, nomi e situazioni, esistono già – due anni or sono ho partecipato alla presentazione online di uno di questi software, sviluppato per produrre pornografia.
Perché pornografia?
Perché nel settore dell’autopubblicazione, è la categoria che paga di più, ed è un genere di narrativa che utilizza delle formule elementari, ripetitive e molto rigide (no, non è un doppiosenso), per un pubblico facilmente fidelizzabile e decisamente di bocca buona (ancora una volta, non un doppiosenso).
E quindi ecco un software nel quale io posso settare una manciata di parametri, e ricavarne un file con un testo del numero di pagine richieste, che necessita solo un’editata.
Poi ci metto il mio nome, e lo vendo.
Bello liscio.

Ciò che mi colpì in particolare di quella presentazione, fu il tono con cui la persona che aveva prfogrammato questo software descriveva la propria creazione.
Il concetto reiterato di continuo in quelle due ore era

Pensate a quanti soldi potrete fare, senza bisogno di saper scrivere.

Perché l’idea non era solo quella di presentare il software, naturalmente, ma anche di venderlo.
Un fisso per il programma principale, e un abbonamento annuale per gli upgrade.

Non c’era nulla, in quella presentazione, che facesse riferimento alla possibilità, francamente straordinaria, di avere una macchina che crea storie.
L’unico segno di passione mostrato dalla persona che aveva creato quella macchina era la passione per i soldi.
L’unica considerazione per i lettori era in funzione di quanti quattrini avrebbero pagato.

La frase con cui si apre questo post è presa da Le Argentee Teste d’Uovo, di Fritz Leiber – un romanzo satirico su un futuro in cui la narrativa viene creata dai “mulini”, a partire da input inseriti dagli “autori”, il cui lavoro principale è apparire bene in fotografia e fare cose per comparire negli articoli dei giornali.

Nel 1962, Fritz Leiber vide che l’avidità avrebbe prevalso.
Perché ai vecchi tempi, nella fantascienza, l’idea era che le macchine in futuro si sarebbero sobbarcate tutti i lavori noiosi, lasciando gli esseri umani liberi di dedicarsi all’arte, alla filosofia.

A just machine to make big decisions
Programmed by fellows with compassion and vision
We’ll be clean when their work is done
We’ll be eternally free, yes, and eternally young, ooh

Donald Fagen, I.G.Y., 1982

E invece no.
Che si fotta la filosofia, hanno detto alcuni.
Possiamo vendere l’arte fatta dalle macchine, e non dobbiamo pagarle.
È tutto profitto.
I lavori noiosi possono farli quei disgraziati là fuori, pagati il meno possibile.
E che ringrazino di avere un lavoro.
Se lavoreranno abbastanza duro potranno avere qualche spicciolo per comperare l’arte fatta a costo zero dalle macchine, che noi venderemo loro.
Si fottano la compassione e la visione – noi vogliamo i quattrini!

Leiber lo aveva previsto.

È accaduto, molti anni or sono, con i software di traduzione.
Oh, ve lo garantisco – provare a tradurre un romanzo con Google Translate darà dei risultati fra il grottesco ed il ridicolo, ma la sola comparsa sul mercato del vecchio, orribile Italian Assistant, negli anni ’90, fece crollare le tariffe dei traduttori.
Ora sta succedendo ai grafici.
Presto toccherà agli scrittori.

C’è stata una levata di scudi, si diceva, riguardo all’uso di AI art per le copertine della Tor.
Autori di successo come John Scalzi e Kaitlin R. Kiernan hanno dato disposizioni che i loro lavori non vengano mai pubblicati con illustrazioni generate da macchine.
Hanno il potere contrattuale per farlo.
Ma presto si potrà aggirare il problema pubblicando romanzi composti da macchine a partire da un campione di testi preesistenti. E le macchine non protesteranno per le copertine.

Le AI di scrittura seguirenno le regole del manuale alla lettera, per la gioia dei guru – che non potranno più tenere corsi di scrittura, certo, ma probabilmente si metteranno a vendere software, o corsi di programmazione e machine learning, perché gli eredi di P.T. Barnum cascano sempre in piedi.

E i sostenitori dell’idea che il successo di un testo dipenda dall’editor, e non dall’autore, saranno finalmente vendicati – perché l’unico lavoro disponibile per gli esseri umani, per un po’ almeno, sarà quello di ripulire e infondere un minimo di vita in testi fatti a macchina.
Ma se le regole sono chiare, anche l’editing può essere svolto da un software, per il solo costo dell’energia elettrica necessaria ad alimentare i processori.

È luddismo, il mio?
No.
Le intelligenze artificiali possono fare grandi cose – nella diagnosatica, sia in ambito medico che in ambito ingegneristico. Nella ricerca. Nella risposta alle crisi ambientali che diverranno sempre più frequenti nel nostro futuro prossimo.
Le AI possono fare moltissimo per migliorare la condizione umana.
Ma qui non è di migliorare la condizione umana, che stiamo parlando.
Qui parliamo del solito vecchio problema di cui parlava la buonanima di Harlan Ellison in quel vecchio video che io riposto spesso – pagare l’artista, pagare lo scrittore.

E, per contro, l’idea di massimizzare i profitti pagando il meno possibile il lavoro altrui.

Le macchine non eguaglieranno mai l’immaginazione e la creatività umana, si potrebbe obiettare.
Vero.
O per lo meno probabile, per qualche anno ancora.
Ma siamo interessati, davvero interessati, all’immaginazione, alla creatività ed all’originalità dell’essere umano?
Voglio dire, avete visto queste immagini fighissime di come sarebbe Yojimbo se l’avesse diretto Sergio Leone, o I Sette Samurai se l’avesse diretto John Sturgess?
Pensate che storia, avere la possibilità di leggere un nuovo romanzo proprio come quelli di Stephen King, uno nuovo, ogni anno, per l’eternità, anche dopo che il vecchio imbecille sarà morto e sepolto.
Meglio degli originali.

E quei palloni gonfiati che per anni si sono dati delle arie ed hanno fatto soldi standosene seduti a scrivere e a disegnare dovranno ffinalmente trovarsi un lavoro vero.
Così imparano.

Humans aren’t as you idealized them, Blanda. Humans are dream-killers. They took the bubbles out of soapsuds, Blanda, and called it detergent. They took the moonlight out of romance and called it sex.

Fritz Leiber, The Silver Eggheads, 1962

Dal punto di vista di una persona che invidia profondamente chi è capace a disegnare, che ama leggere, e che si guadagna da vivere scrivendo storie e facendo traduzioni, il panorama è desolante.
Il consiglio che si sente ripetere nei forum delle associazioni professionali di scrittori è di fare cassa e prepararsi a un lungo inverno.

Lo so, è una visione molto pessimistica di ciò che ci aspetta.
Ma a volte è necessario guardare alle meraviglie del progresso con una sana dose di diffidenza, e sperare che queste visioni oscure di avidità rampante e creatività umiliata siano delle self-preventing prophecies.


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Una vita in Goblin Mode

Come accade da un certo numero di anni, i principali editori di dizionari nel mondo anglosassone hanno votato la loro “parola dell’anno”.
I risultati ottenuti da Oxford e Collins sono particolarmente interessanti.

Per gli editor dell’Oxford Dictionary, l’a parola l’espressione dell’anno 2022 è Goblin Mode:

“un tipo di comportamento che è impenitentemente autoindulgente, pigro, sciatto o avido, tipicamente in un modo che rifiuta le norme o le aspettative sociali”

Il termine ha fatto la sua comparsa nel lontano 2009, ma è diventato popolare dopo il 2020 – e sì, è stata una risposta al lockdown.

Goblin Mode è vivere in pigiama, senza pettinarsi, guardando film sullo stesso PC che usiamo per lavorare, su una scrivania ingombra di tazze sporche, lattine di bibitre usate, al di sopra di un tappeto di sacchetti squarciati di patatine.
In altre parole, la mia vita negli ultimi anni, se ci mettete anche un paio di gatti e pile alte così di libri che periodicamente franano.

Il Goblin Mode ha varie ramificazioni e connessioni con altre pratiche che hanno un nuovo nome nel ventunesimo secolo – come cluttercore, che è l’aspetto tipico del luogo in cui vive chi è in Goblin Mode, probabilmente alcoolizzandosi a basa di quarantini e coronaritas durante le virtual happy hours con gli amici su Zoom.
Una cosa che ho sentito chiamare Aperizoom.
Sì, è orribile.
Ma il Goblin Mode è anche imparentato con lo slow quitting, vale a dire lavorare facendo solo ciò che prescrive il contratto, senza dare quel “qualcosa in più” che al capo piace tanto, e che è diventato qualcosa di dovuto e non retribuito.
Sono segnali che stiamo cambiando – o che siamo cambiati.

Tutto questo assume un significato diverso – non necessariamente migliore o peggiore – quando consideriamo che questi cambiamenti sono una risposta a qualcosa che viene descritto dall’altra parola dell’anno, quella selezionata dagli editor del Dizionario Collins: permacrisis.

È una testimonianza dell’adattabilità del linguaggio, e della nostra specie.
Ed anche un segno che dopo i nerd, ora sono i goblin che hanno vinto.
Ricordatevi che lo avete sentito qui per la prima volta, quando cercheranno di vendervi una maglietta e organizzare una convention…


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Perché non me ne sono andato da Twitter (come se a qualcuno importasse qualcosa)

Stephen Jay Gould e Richard Dawkins – che erano spesso ai ferri corti in ambito scientifico, ma si rispettavano a livello umano e intellettuale – crearono, una trentina di anni or sono, un protocollo per gestire i dibattiti pubblici con i creazionisti.
Il protocollo Dawkins-Gould dice più o meno

Rifiutate il confronto, perché servirebbe solo a dare dignità alle opinioni di persone le cui opinioni non hanno dignità.

Nel corso degli anni ho usato spesso un approccio di questo genere.
Io, potendo, me ne vado.
Inutile stare a discutere con persone che mi disprezzano, e che non hanno comunque interesse a instaurare una discussione costruttiva.

È stata una lunga e continua ritirata.
E mentre da una parte potevo osservare che i creazionisti continuavano ad avere una piattaforma, e ad andare a braccetto con tutta una serie di altri fenomeni da baraccone come terrapiattisti e complottari assortiti, tutti a reclamare la dignità delle loro opinioni in barba a tutti quelli che li hanno ignorati, dall’altra ho visto le comunità dalle quali mi ero allontanato per cercare di conservare la mia (ipotetica) integrità deragliare lentamente ma decisamente.
Non starò qui a fare un elenco.

Il che ci porta a Twitter.
Che, come forse avrete sentito, è stato acquistato da Elon Musk, che ha proceduto, in capo a pochi giorni, a licenziare 7500 dipendenti, a ripristinare l’account sospeso del 45° presidente degli USA, e a fare la figura del pezzente mettendosi a mercanteggiare con Stephen King per farsi pagare la certificazione dei profili degli utenti.
E tanto altro.
È di oggi la notizia che forse riuscirà a farsi fare causa anche da Milo Manara.

Le azioni di Musk hanno innescato una diaspora degli utenti di Twitter verso altre piattaforme – Hive, Mastodon, Counter Social… altri hanno ripristinato i loro vecchi account di Tumblr, o apero forum su Goodreads. Altri ancora si stanno preparando a chiudere tutto e tornare a postare sui loro vecchi blog.
Le diverse piattaforme hanno visto un picco di abbonamenti nell’ordine dei 100.000 nuovi utenti al giorno, nello scorso weekend.

Ed ha un senso – col rischio che il servizio venga sospeso, o deragliato, è ragionevole crearsi una via d’uscita.
Un piano B.
Una scialuppa di salvataggio.

Però…

Mi è capitato negli anni passati di vedere Twitter descritto come “una fogna”.
Il luogo dove i Social Justice Warriors spingono la loro agenda woke.
Il posto dove la lobby gay sta distruggendo Dungeons & Dragons.

Ora, in tanti anni su Twitter – a parte l’accusa di fare gatekeeping “come tutti voi stronzi europei” quando ho fatto presente che quella che fanno a Chicago non è pizza… beh, a parte quello, non ho mai avuto problemi.


Mi sono tenuto in contatto con amici e conoscenti, con editori ed editor e agenti.
Ho conosciuto persone, ho fatto chiacchiere interessanti.

Non un salotto, forse, ma certo non una fogna.
Ma come diceva Ike Asimov, chi pensa di trovarsi in una giungla, sentirà i suoni della giungla anche in Central Park.

Ma il fatto è che Twitter è anche stato, finora, uno strumento potente per dare voce a un sacco di persone.
Il genere di persone che quelli che usano termini come “Social Justice Warrior” o “woke” o “lobby gay” o “nazifemministe” vorrebbero molto volentieri veder sparire.

Non sto dicendo che le azioni di Elon Musk siano studiatamente mirate a generare la diaspora alla quale stiamo assistendo.
Ma è certo che ci sono elementi, che da sempre cercano di monopolizzare ogni possibile spazio sociale per zittire ogni altra voce, che vedono nell’attuale situazione una opportunità.
Non importa quindi, se sia un bug o ujna feature – di sicuro l’attuale dioaspora sta lasciando il campo apersone chenon hanno mai esitato ad usare qualunque strumento per metytere atacere le opinioni altrui, al contempo invocando la libertà di espressione.

Ed è per questo, che non me ne sono ancora andato da Twitter.
Perché è vero, forse un modo per segnalare la propria indignazione è quello di voltare le spalle e andarsene.
L’ho fatto spesso, come dicevo, ed ora posso contemplare le macerie di tante cose che un tempo mi piacevano.
Non ha funzionato al meglio.
Per cui no, in questo caso voglio provare a vedere cosa succede se si smette di ritirarsi e cedere il terreno a quelli che ci disprezzano, e che della nostra (ipotetica) integrità non sanno cosa farsene, se non riderne coi loro amici, e trovare un modo per approfittarne.

Se proprio ci si dovrà arrendere, a questo giro lo faremo dopo aver provato a resistere.
Cosa potrebbe mai andare storto?


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Cose che succedono

Stanno succedendo delle cose.
Il programma Artemis ha compiuto il primo passo per riportarci sulla Luna.
L’uomo che voleva fondare una colonia su Marte e portarci la gente a credito, poi facendosi ripagare in lavoro da loro e dai loro discendenti mentre intanto gli vendeva l’ossigeno, si sta dimostrando incapace di gestire una piattaforma social.
Io ho firmato il contratto per un nuovo romanzo – da consegnare all’editore ai primi di Marzo.
E ieri, per diversi motivi, ho vissuto l’avventura di prendere la corriera da Castelnuovo Belbo a Nizza Monferrato – un’esperienza che è garantita per sorprendere e terrificare ad ogni occasione.

In questo caso, la sorpresa è stata che la corriera non ferma più alla stazione di Nizza, ma in po’ più in là – circa un chilometro e mezzo più in là – che vuol dire dieci minuti, visti il trafico e i semafori.
Due signore trafelate protestano con il conducente – rischiano di perdere la coincidenza col treno che le porterà ad Asti.
“Non fermiamo più in stazione,” dice lui.
“Ma vi siete sempre fermati in stazione!”
“Da questa settimana non ci fermiamo più in stazione.”
“Ma nessuno ce lo ha detto!”
Il tono del conducente si fa irritato. “Signora, se lei non telefona per informarsi, io non so cosa farci.”

Ascoltare le conversazioni altrui sui mezzi pubblici è un vizio di chi scrive.
Si sentono frasi curiose che potrebbero darci delle idee per delel storie.
Si sente il ritmo del parlato quotidiano delle persone a piede libero per il mondo.

Per cui io sono qui sulla corriera, e in teoria sto leggendo un pezzo di Douglas Rushkoff su un progetto in cui alcuni milionari americano vogliono ritirarsi in una comunità protetta per sopravvivere all'”Evento” (che sarebbe la cessazione della nostra civiltà per via del collasso climatico) e ipotizzano di utilizzare collari esplosivi per garantire la lealtà dei mercenari armati che dovranno difenderli dai poveracci affamati (che, senza offesa, saremmo voi ed io).

Ma invece di leggere, eccomi qui che ascolto la gente che parla attorno a me.

E sento questa cosa.
C’è un tizio, vedere, che sta spiegando ad un altro che tutta questa faccenda del cambiamento climatico è chiaramente una cospirazione per infinocchiarci e venderci dei condizionatori.
Perché, sostiene il tipo (che sta seduto alle mie spalle e io non vedo – ma devo usarmi violenza per non voltarmi e guardarlo in faccia) … perché, sostiene il tipo, se fosse vero che l’ambiente è al collasso e che rischiamo di morire tutti malissimo, “i ricchi”, sapendolo, farebbero qualcosa per evitarlo, per salvare se stessi, e così salvando anche noi.

Poi il pullman non si ferma alla stazione.
C’è un momento di panico, poi le due signore vanno a parlare al conducente.

Io butto un occhio alla pagina.
Collari esplosivi per garantire che le guardie armate non si ribellino.
Omae, “i ricchi” ci stanno facendo qualcosa.
Collari esplosivi, o forse robot armati a pattugliare il perimetro.


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Buon Natale, Tom

Un paio di mesi or sono, chiaccierando con un’amica in Nord Africa, il discorso è girato sul tema dei Pirati di Barberia, i corsari ottomani che per alcuni decenni operarono lungo le coste del Mediterraneo. Ed essendo la mia amica un’esperta in storia ottomana, le ho chiesto di consigliarmi un buon testo sull’argomento.
E lei mi ha consigliato Pirates of Barbary – Corsairs, Conquests, and Captivity in the 17th Century Mediterranean, di Adrian Tinniswood.
Un bel saggio pubblicato da Riverhead Books nel 2010.

Ora, il problema dei saggi è che, rispetto alla narrativa, costano molto più cari.
Mentre è abbastanza facile, con un po’ di pazienza ed attenzione, scucire un buon romanzo per meno di cinque euro, i saggi raramente viaggiano sotto ai dieci – e il volume in questione è un buon esempio di questo: 13 euro in paperback, 8.35 in ebook.
Un po’ troppo, per togliersi una curiosità volante, considerando che ho una pila alta così di altri libri da leggere.
Però, però…

Trovo il volume usato a tre euro, spedizione gratuita.
E allora, perché no.
Tocca aspettare una vita per il recapito, ma non è che sia una cosa urgente.

Ed oggi il postino mi consegna la busta con dentro il libro.
Ottime condizioni.
La carta un po’ ingiallita, ma per il resto il libro è perfettamente sano.
Ottimo colpo.

All’interno della copertina c’è una dedica, in penna rossa.

A Tom
Un altro per la tua collezione.
Con amore
Mamma
Natale 2011

Ed io ora sono qui che penso a Tom, che nel 2011 collezionava libri sui pirati – o forse sul Mediterraneo, o sull’Impero Ottomano, o sulla storia del 18° secolo.
Tom, al quale la mamma regalò questo libro pochi mesi dopo la sua uscita (l’edizione in paperback è del Settembre 2011).
Con amore.
Per Natale.
Undici anni or sono.

Come ha fatto questo libro ad arrivare qui a casa mia?
È stato donato a un negozio dell’usato, per beneficenza, che poi lo ha messo in vendita, certo. Fin qui è chiaro. Ma come, e perché?

Non ci si disfa di un regalo della propria madre.
Non credo, per lo meno.
Anche se il volume è doppio, non dai via quello che ha la dedica di tua mamma.
E anche se sbaracchi la biblioteca perché stai traslocando, i libri con la dedica della mamma te li porti dietro. O li metti in uno scatolone e li conservi.
Credo.

Cosa ne è stato di Tom?
Cosa ne è stato della sua collezione?
Chi ha deciso di liberarsene?
E perché?

È facile immaginare il peggio.
Spesso mi domando se questo sarà il destino della mia biblioteca, quando sarà il momento.
Verrà venduta a peso? O semplicemente mandata al macero?

Mi fa sentire strano, stringere questo libro, che stranamente connette quattro persone lontanissimo fra loro – io qui in fondo all’Astigianistan e la mia amica in Nord Africa, Tom e la sua mamma da qualche parte negli Stati Uniti.
Mi domando cosa ne sia stato, di Tom, e della sua mamma, in questi undici anni.

E non c’è null’altro che io possa fare, ora, se non leggere questo libro, e conservarlo.
Buon Natale, Tom.
Dovunque tu sia.