Una decina di anni or sono (!) incontrai persone che sostenevano con una certa ilarità di aver venduto ad un certo editore le trascrizioni delleproprie partite a Dungeons & Dragons, ricavandone sceneggiature per un popolarissimo fumetto.
Probabilmente una storia fasulla, ma indicativa.
Più o meno in quel periodo, molte delle linee guida di riviste e case editrici cominciarono a includere un breve paragrafo sul fatto che non sarebbero state pubblicate trascrizioni di partite a Dungeons & Dragons – o a qualsivoglia altro gioco di ruolo – spacciate per narrativa.
Il che ha un certo senso, ma riduce il problema a termini molto molto banali.
Proviamo a cambiare marcia…
Tre giorni or sono, sul suo blog personale, la scrittrice, editor e insegnante di scrittura Holly Lisle ha postato un breve messaggio relativo al legame fra gioco e narrativa, ed in particolare all’uso costruttivo del gioco di ruolo come supporto alla scrittura.
I never got story ideas from the role playing, but I did use it as a way to test out my universe physics (the magic system, the map, the people and things that lived there) to see if anything could work better. Or worse.
Il post in questione ha suscitato, al momento in cui sto scrivendo, 102 risposte.
Inclusa la mia, che vado ad espandere qui sotto.
Have you ever role-played in relation to your writing? As a research tool, story generator, character development tool, or something else?
In venticinque anni di gioco di ruolo, non ho mai scritto storie basate sulle mie partite.
In parte perché non mi piace granché ambientare le mie storie in mondi inventati da altri, in parte perché lo percepirei semplicemente come “sbagliato” – mi costerebbe più tempo e più fatica che lavorare come al solito.
Or, è ben nota la mia antipatia per quei mondi fantastici costruiti a partire da una mappa – anche perché di solito le mappe dei romanzi fantasy sono piccoli capolavori di incoerenza geografica e geologica.
Allo stesso modo poco mi cale di dizionari di lingua elfica, e dell’ossessione con la tassonomia feticistica delle lame e delle bocche da fuoco, coi deliri alimentati da antichi manuali di scherma e con i trattati tattico-strategici di Braccio da Montone.
D’altra parte, è mia abitudine fare un sacco di verifiche sui fatti prima di mettere mano ad una storia – internet è una benedizione ed una maledizione, e molte mie ossessioni personali, testimoniate da scaffali carichi di strani libri, hanno trovato la strada per entrare nelle mie storie o, nate da un’idea per un racconto, si sono tramutate in interessi collaterali.
Io devo vedere ciò che accade per poterlo scrivere e così, se (per dire) nella Shanghai del 1936 il bieco Capitano Asamatsu spara al malcapitato Felice Sabatini, io voglio sapere se quella che impugna il nipponico è una Taisho 14 o se è qualcos’altro.
Faccio due ricerche, mi convinco che l’arma ideale per quella scena sia un clone cinese di una Mauser, e poi nel racconto dico che il nippo sfodera “una pistola”.
O magari “un’automatica”.
Il lettore a quel punto può aggiustarsi – il modello, la forma, la data di fabbricazione dell’arma, poco hanno a che vedere con la trama; ero io che avevo un problema di visualizzazione.
Ora, scrivendo in questo modo narrativa breve, è molto molto difficile che qualcosa di più di un 15% della mia ricerca finisca direttamente sulla pagina.
Il resto rimane lì, a darmi un vago senso di sicurezza.
Un buon modo per riciclare la ricerca fatta per creare o documentare un mondo o un’epoca consiste nell’utilizzare quelle informazioni per ambientarci un gioco di ruolo.
La cosa funziona particolarmente bene – nel mio caso – giocando RPG con ambientazioni storiche o pseudostoriche, dallo steampunk di Castle Falkenstein all’avventura pulp di Hollow Earth Expeditions.
Ho scritto abbastanza storie con cattivi sponsorizzati dalla Thulegesellschaft quando ero più attivo in Delta Green, da avere tuitto il necessario per alimentare sei mesi di gioco in puro stile Indiana Jones – basta aggiungerci un po’ del Kolosimo letto da ragazzo ed una buona guida turistica.
O cose del genere.
Nulla va sprecato.
E ambientando le mie partite nell’universo narrativo di cui scrivo, ho la possibilità di esplorare quegli angoli di “mondo” che la narrativa non mi ha permesso di esplorare.
Ma questa è solo parte dell’equazione.
Come nota la Lisle nel brano citato più sopra, un paio di serate al tavolo da gioco possono essere particolarmente utili per collaudare un’ambientazione o un’idea, per raffinare un personaggio attraverso l’interazione con personaggi che non sono sotto il mio diretto controllo.
Ciò che è importante – e traspare da alcune risposte al post di Holly Lisle – è non confondersi, e non permettere alle regole, al motore, al sistema di gioco di prendere il sopravvento.
Che è poi il problema per cui le riviste non accettano da dieci anni a questa parte storie palesemente tratte da partite a giochi di ruolo.
Per evitare storie nelle quali il flusso dell’azione è reso rigido e paradossale dal fatto che, quando l’azione si è svolta al tavolo, ci sono stati lanci di dadi, e consultazioni di tabelle, fra un colpo di spada ed il successivo; perché quando il gioco è al suo apice, e la tensione sale, ci può essere molta suspance nell’attendere l’esito di un lanciuo di dadi, ma nulla di quella suspance si trasla direttamente sulla pagina.
Questa ultima considerazione si lega ad un ulteriore uso del gioco in supporto della narrazione, è infine l’allenamento che deriva dal gioco, nell’improvvisare soluzioni narrative al di là delle regole.
Si acquisisce – specie quando si gioca come master – una quantità di informazioni su come il pubblico possa reagire a certi stimoli.
Come costruire la suspance.
Come caratterizzare unpersonaggio sulla base del modo di parlare o di quei dettagli che il pubblico tende a notare (e non degli altri).
Come far passare certe informazioni sotto al radar dei giocatori in modo che si possa arrivare alla scena “Ah! Lo sapevamo fin dall’inizio!”.
Un mio vecchio amico che recitava e giocava di ruolo osservò anni addietro che giocare non è per niente come recitare, ma aiuta la recitazione.
Allo stesso modo, giocare non è per niente come scrivere, ma aiuta la scrittura.
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6 ottobre 2009 alle 6:44 PM
Wow 🙂 ho sentito parlare spesso di legame tra RPG e scrittura e mi trovo d’accordo con la tua opinione.
Un combattimento negli RPG può durare ore, al contrario in un libro il combattimento attrae di meno e descriverlo minuziosamente annoia.
Sempre senza contare il fatto che un libro dove c’è un solo l’autore è molto più lineare e ordinato di una sessione RPG dove tutti i giocatori hanno una parte.
Secondo me in un RPG la storia secondo me è importante, ma secondaria. Sono molto più importanti i caratteri dei giocatori e le loro capacità, e anche le regole del gioco hanno un loro valore. Alla fine ci si può divertire anche senza una storia stratosferica.
Al contrario in un libro secondo me la storia è necessaria.
In compenso secondo me le regole per creare una storia sono simili (ad esempio lo sviluppo del background dei personaggi è simile se non uguale) ma il mondo in cui le si comunica è del tutto diverso.
7 ottobre 2009 alle 11:27 AM
Un RPG mediocre nelle regole può diventare ottimo se ha un ricco supporto narrativo a condensare, dettagliare e concretizzare l’universo in cui si svolge.
Non a caso molti RPG di successo sono Tie-in di opere letterarie.
Spesso poi, un RPG espande e arricchisce un’opera appagando la voglia di saperne di più che prende il lettore una volta terminato un libro, per esempio in un recente viaggio a NY mi è capitato per le mani l’insolito RPG “Mouseguard” che espande quanto narrato in una serie di fumetti inedita in Italia.
D’altro canto alcune opere letterarie sono nate da RPG (alcune da vere e proprie sessioni), come la famosa saga di Dragonlance di Margaret Weis e Tracy Hickman (ammetto di averla letta, a mia discolpa posso dire che avevo 20 anni) ma ci sono molti altri casi. Tuttavia la qualità di questi lavori è mediamente bassa, secondo me proprio per le ragioni che ha espresso Davide (alle quali si aggiunge il mero scopo commerciale di queste operazioni).
In ogni caso l’importante è che il supporto letterario serva solo da strumento per rendere coerente e ricca l’ambientazione, lasciando comunque ai giocatori ed al master il compito di creare tutto il resto. Troppo spesso vedo rpg dove personaggi e storia sono già predeterminati (con nei jrpg) e ciò rappresenta la morte del gioco di ruolo (imho!).
7 ottobre 2009 alle 12:32 PM
Ho visto “Mouseguard” e sono rimasto impressionato soprattutto dalla grafica – solo succesivamente scoprendo che era basato su un fumetto.
Sul piano della narrativa, D&D (in tutte le sue varie permutazioni) ha portato sugli scaffali alcune delle cose peggiori mai pubblicate – al punto che forse Dragonlance non è neanche il peggio (ammetto oltretutto di trovare Tracy Hickman abbastanza simpatico, sul piano personale).
Ma d’altra parte anche Star Trek e Star Wars hanno perpetratocrimini contro la letteratura.
La componente comerciale è innegabile – e mortalmente dannosa se accoppiata alla necessità di voler catturare sulla pagina le dinamiche del tavolo di gioco.
Devo però anche spezzare una lancia (+2 contro non-morti) in favore dei giochi di ruolo con un background ridotto all’osso.
Adoro Planescape, ma le partite migliori a D&D le ho fatte con l’accoppiata Scatola Rossa + Scatola Blu.
E ricordo con nostalgia il vecchio Manhunter, che in un centinaio di pagine forniva tutto per una solida space-opera… tranne l’ambientazione.
Un lavoro infame da masterare – ma la libertà di rubare al contempo da Vance, Banks e Clarke era impagabile.
8 ottobre 2009 alle 10:37 AM
E’ un’ottima riflessione. Sinceramente credo anch’io che usare il tavolo da gioco per approfondire i personaggi, l’ambientazione e le dinamiche di storia possano fornire più che altro spunti e riflessioni per un diverso utilizzo narrativo, invece di un becero copia-incolla brutale fatto dalla sessione giocata. Tuttavia personalmente, vuoi per indole o chissà che altro, alla fine proprio non sono mai riuscito a far rientrare nulla di quello sperimentato in gdr nei meandri di un mio racconto, e nei tentativi fatti i risultati si sono rivelati pessimi a dir la verità. Per quanto mi riguarda è più vicino a una palestra del “ora so cosa non devo fare” che altro…
8 ottobre 2009 alle 11:36 AM
Di sicuro il tavolo da gioco è un’ottima palestra per l’imprevisto – specie se si gioca con scenari delineati e non esageratamente strutturati.
Il gioco è anche un ottimo sistema per verificare quali cliché il pubblico sia disposto a tollerare per amore della narrativa, e quali invece siano semplicemente percepiti come sciocchezze prevedibili e accolti con risate, scherno o un semplice rifiuto.
8 marzo 2016 alle 10:30 AM
Lontano (2011)
Lontani sono i mondi che noi attraverseremo senza saper
bene dove l’inizio della nostra fine. Lontani, i mondi lassù,
ma non scorderemo il fine. Noi, figli di Yaf-het, di colui
che “prese dimora” a occidente, ora abitiamo sotto tende
di Sem, sotto le ali della Sua chiesa. Se solo sapessimo
del nostro passato per saper dove si volge il nostro passo!
Che potremmo mai ricordarcene non senza confusione?
Prosciugatesi antiche paludi, dal Mar Caspio giungemmo
al Mar Nero di terre incognite, sospese come nel sogno:
Hattilantis ne fu il nome, un’Atlantide di ceneri e lapilli
che ebbe a che fare con l’isola di Creta e dove fu fondata
la nostra Ilio. Ma i greci, antichi nemici di anatolici,
non conobbero veramente i minoici: di essi sì, ne narrano
alcuni miti, ma Minosse non era il diavolo. Esisteva,
agli inizi, lo strano culto del serpente e lì dove l’aratro
seminava primi indizi di civiltà direttamente nel solco
della storia. Nei pressi di Eridu, antica città di Shumer,
il Paese del Mare, si modellarono statuette ofidie, sotterra
furono rinvenuti gli ossi di esseri giganteschi, i dinosauri,
e l’Eden si collocava nel giardino di Guedinna, tra Umma
e Lagash; ma l’essere a noi più ostile un Neanderthal
come Lilith, allor quando Iddio rivestì l’uomo di pelli
e il lanoso pachiderma tuonava. Accadde poi il Diluvio,
e l’acque tumultuose dell’Eufrate inondarono il meridione
e tutte le terre feconde che videro poi la gloria di un re:
Ghilgamesh. Tra tutti i grandi che eressero megaliti
orientandoli secondo le cose di Padre Cielo e che presero
in moglie le figlie di una Madre Terra, anche l’Egitto,
fondato da Narmer, emerse dall’acque come un obelisco,
ai raggi del sole, ma più non vi regnava l’asiatico
che abbozzò le piramidi e quella sfinge poi raffigurata
nella Tavolozza del protofaraone, come immersa
in petrose sabbie lungo le belle rive di papiro. E quelle
genti che fecero il lavoro duro di erigerne i monumenti
son coloro che il biblista chiama i Figli di Misraim.
Ma Misraim non è Mis-Rê, l’Egitto dinastico non è
il pre-dinastico Popolo del papiro! Oltre al geroglifico,
lingua conosciuta di allora fu una sola, scritta da nazioni:
il cuneiforme. E le sue parole, incise nella cruda argilla,
si adattavano a ogni vulgata, come ci testimonia Ebla.
Persino Mosè la conobbe, altrimenti come lo avrebbe
inteso uno di Madian quando fuggì da corte? L’accàdico,
ossia l’assiro-babilonese, era la lingua internazionale
di cui acuti faraoni come Ekh-en-Aton si servirono
in diplomazia e sempre in questa Nefertari, una moglie
di Ramses, aveva ottimi rapporti con la consorte del re
ittita, anni dopo quella di Qadesh. Qui perdere il filo
del discorso è molto facile, visto che il Genesi biblico,
tra tanti fatti mitologici, ci parla soltanto di una sola
lingua conosciuta ai tempi delle prime ziqqurat sì alte
come quella di Saqqara, ma nel labirinto di specchi
che è la parola, il nome Arianna significava Colei
che fu bella, poiché Ari significava avvenente e Ann
era suffisso del passato remoto del verbo essere. A noi,
pronipoti di un Noè di nome Deucalione, oggi dispersi
in ogni dove sulla faccia delle terre emerse, dette impulso
anche stirpe d’intrepidi Arii, che conquisero Hariyupeya,
una Harappā dei Rig-Veda. Tutto giusto fin qui? Il canto
mio è desolato, or più non siamo gli stessi di uno ieri,
e dove ritroveremo le nostre radici per guardare anche
alle verdi foglioline? Tutto è caduco, eracliteo “panta rei”
colma ogni buco. Smemoreremo? Si è fatta oscurità, ora,
sulla Terra, a causa di molte calamità l’Oriente soffre.
Chi, senza peccato d’orgoglio, ci guiderà su vie d’eternità,
a chi attingeremo vere perle di saggezza? Da coloro
che ballano la samba sugli altari e ti adescano ragazzini?
Vita, sinonimo di luce, ma molti preferiscono le tenebre
alla vera lampada di un’umanità interiore, si prendono
gioco del loro prossimo, perché adorano un vitello d’oro.
Lontani sono i mondi che noi attraverseremo, lassù,
senza saper bene dove l’inizio della nostra fine. Già
ci si son spalancate le porte dell’universo, lo scrutiamo,
e la polverosa luna è solo un sogno caro a romantici.
Lontani, i mondi lassù, ma non scorderemo il fine
che ci avrà spinto nell’oltre. E quel dì saremo come uno
strenuo fior del deserto, e bello agli occhi del dio Logos.