Continuiamo sulla questione delle idee e della scrittura della fantascienza.
Mi muovo, qui, all’ombra di giganti.
Prima, Vittorio Catani ha dedicato sul suo blog due post (il secondo è qui) lunghi ed articolati all’argomento.
Poi, sul blog Uno Strano Attrattore, Giovanni De Matteo dà la propria versione dei fatti.
Le due versioni non coincidono esattamente, ma piuttosto sono complementari.
Né ciò deve sorprendere – se infatti come dice un macabro proverbio, esiste più di un modo per spelare un gatto, altrettanto esiste più di un modo per scrivere una storia.
Pur partendo dalle stesse idee – che sono, come ribadiscono sia Catani che De Matteo – la base di ogni buona storia di fantascienza, pur non costituendone l’unico elemento fondamentale.
Infiniti percorsi ci possono portare da A a B.
Lo scrittore è colui che seleziona il cammino che gli è più congeniale – che reputa più interessante, più bello o, perché no, più vendibile.
Questo (apro qui un inciso) cortocircuita tra l’altro certe affermazioni comparse recentemente in giro per la rete, che vorrebbero la recensione come qualcosa di puramente oggettivo.
Ammesso che esistano dei pezzi con i quali la storia viene costruita, non esiste tuttavia un manuale che insegni il modo giusto ed univoco di assemblare questi pezzi.
Ma se non esiste un criterio oggettivo per scrivere una storia, come si può postulare un criterio oggettivo di valutazione della storia?
Inciso chiuso, torniamo alle idee ed alla scrittura della fantascienza.
Vittorio Catani osserva
Un classico modo per ricavare le idee è chiedersi “cosa accadrebbe se…?”
Poi si tratta di applicare un metodo, come ci ricorda De Matteo
Il metodo, è bene saperlo, non lo si possiede fino a quando non lo si
acquisisce. Non si compra, non si ha per dote innata (salvo rarissimi
casi, non il mio). Ma lo si può apprendere con la giusta applicazione
In realtà, Catani e De Matteo mentono.
Oh, non per turpitudine morale, malizia o desiderio di fuorviare il principiante (in modo magari da limitare la concorrenza), bensì per un ovvio limite del nostro linguaggio da una parte e delle aspettative del pubblico dall’altra.
Esiste una verità che entrambi vorrebbero dire, ma un certo pudore, essendo galantuomini, li obbliga a mantenere la rivelazone in ombra, a preservare una sorta di ortodossia.
Ve lo fanno intuire, se leggete a fondo i loro pezzi, ma non lo esplicitano.
De Matteo chiude il proprio articolo con una frase sibillina…
La verità è che la mia scrittura è figlia di una sequenza di approssimazioni successive.
Già.
È tutto molto più… fuzzy, di come trovate sui manuali di scrittura (e credetemi, ne ho letti un sacco).
Concediamoci quindi un minimo di eterodossia.
Io non sono uno scrittore titolato, c’è chi osserva giustamente che non c’è in libreria un libro col mio nome sulla copertina. Sono un dannato parvenu che si dà delle arie da scrittore.
Beh, essere Arlecchino comporta dei privilegi che Capitani e Dottori non si possono più permettere.
Posso dire ciò che chi è migliore di mé può solo accennare (pudore? Moi? Ah!)
Quindi, segnatevelo: il metodo consiste essenzialmente nel continuare a ballare quando la musica si interrompe all’improvviso. Se non continuate a ballare, cascate per terra.
Con questo voglio dire che il metodo è quell’insieme di strumenti tecnici (sintassi, accorgimenti narrativi…) e di istinto che ci permettono di continuare a scrivere quando le idee che sfregavamo insieme non danno più scintille.
Quando il carburante si esaurisce.
Quando la musica si ferma.
Perché le idee (ci arriviamo fra un attimo) non sono la storia, e non vi portano poi così in là nello scrivere la storia.
Avviano le macchine, accendono il fuoco, vi danno la spinta.
Poi siete da soli.
Col metodo, con la pratica, con l’istinto.
Approssimazioni successive.
Il metodo si impara.
Lo si impara essenzialmente leggendo ed imitando o, quando si è un po’ grandicelli, leggendo consapevolmente – non per godersi la storia ma per godersi la struttura della storia.
Ma ci sono parti del metodo che on si imparano, ma si sviluppano – scrivendo (anche e soprattutto) porcherie illeggibili. In fondo, la fase di apprendimento è quella in cui è lecito (ed auspicabile) commetere errori.
Quanto alle idee, le idee non crescono sugli alberi.
Bisogna tenere gli occhi aperti.
Nella mia esperienza – ma attenti, ricordate che io non sono un artista – nella mia esperienza, dicevo, una sola idea non basta.
Ce ne vogliono almeno due, da sfregare assieme come bastoncini per accendere il fuoco.
E qui, detto fra noi, non fidatevi di Vittorio Catani – “Cosa succederebbe se…” non è l’inizio.
È il secondo passo.
Faccio un esempio preso dalla vita reale…
Ieri sera si discuteva con alcuni amici, attorno ad un paio di bottiglie di chinotto, sul trattamento inumano riservato da certe aziende torinesi ai dipendenti.
Il mio amico Giorgio, con un rigurgito di cinismo chandleriano, osserva
Devi capire che per questa gente tu non sei una persona, se i un nome du un foglio excel
E mio fratello
Già, e il tuo nome è alla riga 666
Risate.
Però, io me l’annoto
Ho un quadernetto che uso per annotarmi le buone idee.
E questa è una idea – non è una storia, non è neanche uno spunto, ma è una dannata idea.
Da sola non farà mai una storia, ma ci si può lavorare.
Questa mattina, rimuginando la discussione di ieri sera, ripenso a ciò che mi raccontava un amico che si occupava di manutenzione informatica. Di come molti impiegati (e molti dirigenti) abbiano dei rituali nell’utilizzare il computer.
Cose irrazionali tipo non accenderlo prima di una certa ora, o mettere e togliere un CD un paio di volte prima di spegnere…
- Disumanità e arbitrarietà assoluta della direzione verso i dipendenti.
- Nome del dipendente su foglio excel, riga 666
- Rituali magici per l’avvio e l’uso del PC
E allora mi dico…
Cosa succederebbe se l’ambiente di lavoro diventasse talmente dominato dall’arbitrarietà dei superiori, talmente imprevedibile su base razionale, da portare i dipendenti a crearsi una mitologia, un folklore, una serie di rituali superstiziosi per venire a patti con l’assenza di regole logiche nella loro vita?
È ancora qualcosa di molto rozzo, ma è un inizio.
Ora posso cominciare – per dire – a segnarmi una serie di rituali ipotetici su un foglio, per futuro riferimento
E posso ripescare dalla mia esperienza un campionario di impiegati e quadri- non li voglio “strani”, li voglio perfettamente integrati..
Ma tutti questi elementi non sono ancora la mia storia.
E poi?
Come la scrivo?
Il nostro eroe viene assunto nell’ufficio, scopre i rituali, ne ride, poi però capisce che funzionano e ci si adegua.
Non male, ma l’ha già usato Leiber negli anni ’50.
E mi sto lusingando – sto dicendo che io oggi ho le idee che Fritz aveva cinquant’anni or sono.
Ciò che mi serve è un punto di vista.
Chi raconta la storia?
In che forma?
Un mio amico scrisse anni addietro un racconto sotto forma di signature in una e-mail – una sorta di messaggio in bottiglia lanciato da un dipendente senza volto, che si vuole sfogare contro la direzione e sà benissimo che tanto i file sig non li legge nessuno.
Potrei rubargli l’idea.
O usare qualcosa di simile.
Approssimazioni successive.
Non voglio un fantasy, non voglio un horror – voglio una storia di fantascienza.
Vediamo…
Crescente primitivismo sul posto di lavoro.
Involuzione culturale (controllare i testi sui Neanderthal per trovare idee).
Emerge una sorta di cultura sciamanica dell’ufficio.
E poi cosa?
Cannibalismo rituale…?
Ecco, stiamo cominciando a cucinare.
E se fosse, strutturalmente, un giallo?
Una indagine su un gruppo di “normali impiegati” di una grossa azienda che si sono mangiati un pony express?
Non chi ha fatto cosa, ma perché.
[ormai la storia ha una sua forma… se la scriverò, la pubblicherò su questo blog. O forse no.]
È in questa fase, mentre si rimescolano i pezzi e si aggiungono ingredienti a casaccio, che come dicevo in un post precedente, divento scorbutico ed intrattabile e mi sposto ai margini della società umana.
Un po’ è la frustrazione di avere una storia lì che non vuol venire fuori – o peggio, che vorrebbe venir fuori ma non ho iltempo per scriverla!
Un po’ è la necessità di allontanarci dal rumore fatto dai nostri simili per restare soli con le idee, e giocarci liberamente.
Scrivere è così.
È una via di mezzo fra fare il giocoliere con animali vivi e leggere i tarocchi.
È impreciso.
Azzardato.
Ha dei ritorni minimi.
Ed è meglio che fare un lavoro onesto, ogni singolo giorno della settimana.
[PS – l’autore vuole in questa sede ribadire il proprio rispetto e la propria ammirazione per Vittorio Catani e per Giovanni De Matteo, scrittori e gentiluomini. Le frecciate contenute nel post hanno naturalmente solo un significato ironico.
NO, davvero, non volevo darvi sul serio dei bugiardi…]
[immagini da entherthelaugther.com e da T-chest.uk]