strategie evolutive

ciò che non ci uccide ci lascia storpi e sanguinanti


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Narrativa di idee, narrativa d’immaginazione

Continuiamo sulla questione delle idee e della scrittura della fantascienza.
Mi muovo, qui, all’ombra di giganti.
Prima, Vittorio Catani ha dedicato sul suo blog due post (il secondo è qui) lunghi ed articolati all’argomento.
Poi, sul blog Uno Strano Attrattore, Giovanni De Matteo dà la propria versione dei fatti.

Le due versioni non coincidono esattamente, ma piuttosto sono complementari.
Né ciò deve sorprendere – se infatti come dice un macabro proverbio, esiste più di un modo per spelare un gatto, altrettanto esiste più di un modo per scrivere una storia.
Pur partendo dalle stesse idee – che sono, come ribadiscono sia Catani che De Matteo – la base di ogni buona storia di fantascienza, pur non costituendone l’unico elemento fondamentale.
Infiniti percorsi ci possono portare da A a B.
Lo scrittore è colui che seleziona il cammino che gli è più congeniale – che reputa più interessante, più bello o, perché no, più vendibile.

Questo (apro qui un inciso) cortocircuita tra l’altro certe affermazioni comparse recentemente in giro per la rete, che vorrebbero la recensione come qualcosa di puramente oggettivo.
Ammesso che esistano dei pezzi con i quali la storia viene costruita, non esiste tuttavia un manuale che insegni il modo giusto ed univoco di assemblare questi pezzi.
Ma se non esiste un criterio oggettivo per scrivere una storia, come si può postulare un criterio oggettivo di valutazione della storia?

Inciso chiuso, torniamo alle idee ed alla scrittura della fantascienza.
Vittorio Catani osserva

Un classico modo per ricavare le idee è chiedersi “cosa accadrebbe se…?”

Poi si tratta di applicare un metodo, come ci ricorda De Matteo

Il metodo, è bene saperlo, non lo si possiede fino a quando non lo si
acquisisce. Non si compra, non si ha per dote innata (salvo rarissimi
casi, non il mio). Ma lo si può apprendere con la giusta applicazione

In realtà, Catani e De Matteo mentono.
Oh, non per turpitudine morale, malizia o desiderio di fuorviare il principiante (in modo magari da limitare la concorrenza), bensì per un ovvio limite del nostro linguaggio da una parte e delle aspettative del pubblico dall’altra.
Esiste una verità che entrambi vorrebbero dire, ma un certo pudore, essendo galantuomini, li obbliga a mantenere la rivelazone in ombra, a preservare una sorta di ortodossia.
Ve lo fanno intuire, se leggete a fondo i loro pezzi, ma non lo esplicitano.
De Matteo chiude il proprio articolo con una frase sibillina…

La verità è che la mia scrittura è figlia di una sequenza di approssimazioni successive.

Già.
È tutto molto più… fuzzy, di come trovate sui manuali di scrittura (e credetemi, ne ho letti un sacco).

Concediamoci quindi un minimo di eterodossia.
Io non sono uno scrittore titolato, c’è chi osserva giustamente che non c’è in libreria un libro col mio nome sulla copertina. Sono un dannato parvenu che si dà delle arie da scrittore.
Beh, essere Arlecchino comporta dei privilegi che Capitani e Dottori non si possono più permettere.
Posso dire ciò che chi è migliore di mé può solo accennare (pudore? Moi? Ah!)

https://i0.wp.com/www.t-chest.co.uk/2005/images/HARD-WORK.jpgQuindi, segnatevelo: il metodo consiste essenzialmente nel continuare a ballare quando la musica si interrompe all’improvviso. Se non continuate a ballare, cascate per terra.

Con questo voglio dire che il metodo è quell’insieme di strumenti tecnici (sintassi, accorgimenti narrativi…) e di istinto che ci permettono di continuare a scrivere quando le idee che sfregavamo insieme non danno più scintille.
Quando il carburante si esaurisce.
Quando la musica si ferma.
Perché le idee (ci arriviamo fra un attimo) non sono la storia, e non vi portano poi così in là nello scrivere la storia.
Avviano le macchine, accendono il fuoco, vi danno la spinta.
Poi siete da soli.
Col metodo, con la pratica, con l’istinto.
Approssimazioni successive.

Il metodo si impara.
Lo si impara essenzialmente leggendo ed imitando o, quando si è un po’ grandicelli, leggendo consapevolmente – non per godersi la storia ma per godersi la struttura della storia.
Ma ci sono parti del metodo che on si imparano, ma si sviluppano – scrivendo (anche e soprattutto) porcherie illeggibili. In fondo, la fase di apprendimento è quella in cui è lecito (ed auspicabile) commetere errori.

Quanto alle idee, le idee non crescono sugli alberi.
Bisogna tenere gli occhi aperti.

Nella mia esperienza – ma attenti, ricordate che io non sono un artista – nella mia esperienza, dicevo, una sola idea non basta.
Ce ne vogliono almeno due, da sfregare assieme come bastoncini per accendere il fuoco.

E qui, detto fra noi, non fidatevi di Vittorio Catani – “Cosa succederebbe se…” non è l’inizio.
È il secondo passo.

Faccio un esempio preso dalla vita reale…

Ieri sera si discuteva con alcuni amici, attorno ad un paio di bottiglie di chinotto, sul trattamento inumano riservato da certe aziende torinesi ai dipendenti.
Il mio amico Giorgio, con un rigurgito di cinismo chandleriano, osserva

Devi capire che per questa gente tu non sei una persona, se i un nome du un foglio excel

E mio fratello

Già, e il tuo nome è alla riga 666

Risate.
Però, io me l’annoto
Ho un quadernetto che uso per annotarmi le buone idee.
E questa è una idea – non è una storia, non è neanche uno spunto, ma è una dannata idea.
Da sola non farà mai una storia, ma ci si può lavorare.
Questa mattina, rimuginando la discussione di ieri sera, ripenso a ciò che mi raccontava un amico che si occupava di manutenzione informatica. Di come molti impiegati (e molti dirigenti) abbiano dei rituali nell’utilizzare il computer.
Cose irrazionali tipo non accenderlo prima di una certa ora, o mettere e togliere un CD un paio di volte prima di spegnere…

  • Disumanità e arbitrarietà assoluta della direzione verso i dipendenti.
  • Nome del dipendente su foglio excel, riga 666
  • Rituali magici per l’avvio e l’uso del PC

E allora mi dico…

Cosa succederebbe se l’ambiente di lavoro diventasse talmente dominato dall’arbitrarietà dei superiori, talmente imprevedibile su base razionale, da portare i dipendenti a crearsi una mitologia, un folklore, una serie di rituali superstiziosi per venire a patti con l’assenza di regole logiche nella loro vita?

È ancora qualcosa di molto rozzo, ma è un inizio.
Ora posso cominciare – per dire – a segnarmi una serie di rituali ipotetici su un foglio, per futuro riferimento
E posso ripescare dalla mia esperienza un campionario di impiegati e quadri- non li voglio “strani”, li voglio perfettamente integrati..
Ma tutti questi elementi non sono ancora la mia storia.

E poi?
Come la scrivo?
Il nostro eroe viene assunto nell’ufficio, scopre i rituali, ne ride, poi però capisce che funzionano e ci si adegua.
Non male, ma l’ha già usato Leiber negli anni ’50.
E mi sto lusingando – sto dicendo che io oggi ho le idee che Fritz aveva cinquant’anni or sono.

Ciò che mi serve è un punto di vista.
Chi raconta la storia?
In che forma?
Un mio amico scrisse anni addietro un racconto sotto forma di signature in una e-mail – una sorta di messaggio in bottiglia lanciato da un dipendente senza volto, che si vuole sfogare contro la direzione e sà benissimo che tanto i file sig non li legge nessuno.
Potrei rubargli l’idea.
O usare qualcosa di simile.

Approssimazioni successive.

Non voglio un fantasy, non voglio un horror – voglio una storia di fantascienza.
Vediamo…
Crescente primitivismo sul posto di lavoro.
Involuzione culturale (controllare i testi sui Neanderthal per trovare idee).
Emerge una sorta di cultura sciamanica dell’ufficio.
E poi cosa?
Cannibalismo rituale…?

Ecco, stiamo cominciando a cucinare.
E se fosse, strutturalmente, un giallo?
Una indagine su un gruppo di “normali impiegati” di una grossa azienda che si sono mangiati un pony express?
Non chi ha fatto cosa, ma perché.

[ormai la storia ha una sua forma… se la scriverò, la pubblicherò su questo blog. O forse no.]

https://i0.wp.com/enterthelaughter.com/cat-juggling.jpgÈ in questa fase, mentre si rimescolano i pezzi e si aggiungono ingredienti a casaccio, che come dicevo in un post precedente, divento scorbutico ed intrattabile e mi sposto ai margini della società umana.
Un po’ è la frustrazione di avere una storia lì che non vuol venire fuori – o peggio, che vorrebbe venir fuori ma non ho iltempo per scriverla!
Un po’ è la necessità di allontanarci dal rumore fatto dai nostri simili per restare soli con le idee, e giocarci liberamente.

Scrivere è così.
È una via di mezzo fra fare il giocoliere con animali vivi e leggere i tarocchi.
È impreciso.
Azzardato.
Ha dei ritorni minimi.
Ed è meglio che fare un lavoro onesto, ogni singolo giorno della settimana.

[PS – l’autore vuole in questa sede ribadire il proprio rispetto e la propria ammirazione per Vittorio Catani e per Giovanni De Matteo, scrittori e gentiluomini. Le frecciate contenute nel post hanno naturalmente solo un significato ironico.
NO, davvero, non volevo darvi sul serio dei bugiardi…]

[immagini da entherthelaugther.com e da T-chest.uk]


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Le cose lunghe diventano serpi

O per lo meno così dice un proverbio di queste terre.https://i0.wp.com/www.branchhome.com/images/large/dwel_snake_LRG.jpg

Ho appena consegnato le traduzioni per il prossimo Alia Anglosfera e mi sento più giovane di cinque anni.
È stato un percorso lungo e travagliato.
Prima c’è stata la caccia all’autore, come ogni anno.
I contatti, le richieste.
Quest’annoper la prima volta un autore anglosassone ci ha rifiutato una storia dopo una esosa richiesta di pagamento.
Non farò nomi.
In cinque anni di Alia ho visto di tutto – dagli autori che per passione ti regalano anche la camicia a quelli che fanno i duri ma poi accettano di concedere racconti in cambio di bottiglie di vino D.O.C.
Quelli che ti dicono “Ho questo eccellente racconto di hard SF ma poi ho anche dei fantasy che nessuno mi fila…”
Gente che tratta direttamente.
Gente che manda avanti l’agente.
Chi si complimenta per l’iniziativa.
Chi lo fa per l’avventura.

Anche quest’anno sono stato fortunato ad incontrare degli autori che sono anche e soprattutto eccelenti esseri umani.

Ma poi….poi i disastri.
Il superlavoro.
La salute incerta.
Gli amici e i parenti finiti all’ospedale.
I corsi preparati e saltati all’ultimo minuto…

In cinque anni di Alia, è la prima volta che arrivo clamorosamente in ritardo sulla tabella di marcia.
E in cinque anni di Alia credo di non avere mai avuto una selezione potente come quella che uscirà fra qualche settimana.

  • Lillian Csernica – Il Sentiero del Sole
  • Tim Pratt – Barbablù e il Bufalo Bianco
  • Ellen Cushner – Lo Spadaccino il cui nome non era Morte
  • Ted Chiang – Cosa ci si aspetta da noi
  • Delia Sherman – Miss Carstairs e il Tritone
  • Karl Schroeder – Corona
  • Michael Moorcock – Sherlock Holmes e l’avventura dell’Affittuario di Dorset Street

Sette storie, che coprono tutto lo spettro del possibile – dalla fabulazione di Lillian Csernica al falso Holmes di Moorcock, dal fantasy of manners della Cushner alla hard science fiction di Schroeder.

Temi comuni?
L’inganno.
Il falso.
La mistificazione.

Ma anche il sacrificio.
E il mare.

Sono stanchissimo e maledettamente soddisfatto.
Ma non posso chiudere senza citare – per lo meno collettivamente – gli artisti le cui tavole abbelliranno il volume.
È anche grazie a loro se Alia rimane di una tacca o due sopra alla concorrenza.
Con tutto il rispetto per la concorrenza.

Ed ora via – la prossima scadenza per una consegna è fra settantadue ore!


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Il Dinosauro muore ma non si arrende

Bene.
Sembra confermato che la serata annunciata per il 19 di gennaio e poi sospesa per crisi climatica si terrà – salvo nuove catastrofi – il 16 febbraio, sempre a Torino, sempre presso la Società di Mutuo Soccorso d’ambo i sessi De Amicis, (Corso Casale 134, Torino).

Si comincerà dopo le otto e si proseguirà a lungo nella notte, dibattendo di argomenti diversi quali

  • perché tutti i primi paleontologi fossero medici o sacerdoti
  • la vera origine di Indiana Jones
  • quanto pagò Lord Byron per il suo Grand Tour dell’Europa
  • cosa succede quando un produttore di film dell’orrore chiede una bella storia d’amore a due registi di documentari
  • se siano più appetibili le talpe o i mosconi
  • la tragedia dell’Iguanodonte
  • perché il Brontosauro non esiste
  • cavernicole in bikini e l’Undici di Setembre
  • dinosauri e benzina
  • come farsi finanziare un dottorato in paleontologia da Hollywood
  • e come vada davvero a finire Reptilicus

Più tutti gli argomenti segnalati nell’annuncio precedente.
E molto altro ancora.
E dinosauri, come se piovesse.

Tutti gli interessati sono naturalmente invitati a partecipare.

Il Ritorno del Dinosauro 3

quando la paleontologia morde

Seguirà dibattito.

[immagine di Joe Chiodo]


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Memorie

È la Giornata della Memoria.
La giornata che ogni anno si dedica a preservare ilricordo di una delle azioni più inumane della storia (ed il campionario è riccoe variegato), affinché non possa ripetersi.

Ci sono modi diversi per onorare (celebrare mi pare o troppo festaiolo o troppo liturgico) la Giornata della Memoria.

  • Si possono portare composizioni floreali più o meno stravaganti sui diversi monumenti che costellano l’Europa ed il bacino del Mediterraneo.
  • Si possono martellare i telespettatori con documentari o con vecchi e nuovi film – e Schindler’s List pare sulla strada per diventare, per il Giornata della Memoria, ciò che Una Poltrona per Due è diventato per Santo Stefano.
  • Si possono organizzare incontri nelle scuole con i sopravvissuti – sempre meno, il trascorrere del tempo è inesorabile – affinché raccontino le proprie esperienze di prima mano ai giovinastri, risvegliando magari in loro un refolo di umanità
  • Si possono pubblicare riflessioni sulla crudeltà insita nel cuore degli uomini sul proprio blog.
  • Si può far rientrare nell’ortodossia cattolica un gruppo ultraconservatore e reazionario con tendenze negazioniste scomunicato da più di vent’anni
  • Si possono bombardare i propri vicini.

Io il mio vicino lo bombarderei volentieri – lui ed il suo maledetto basso elettrico suonato alle ore meno opportune.
Ma sarebeb un po’ mancare l’intero punto del Giorno della Memoria, vi pare?

Quindi credo che guarderò un vecchio film.
 

Che sagoma, quel Victor Lazlo…


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Creatività, Taoismo e narrativa d’immaginazione

La prima parte di un interessante articolo sull’annosa questione di cosa pensino gli autori di fantascienza, dove trovino le proprie idee e cosa ne facciano, è comparsa sul blog di Vittorio Catani.
Una lettura interessante, che promette ulteriori spunti nei prossimi episodi.

Il caso vuole che, mentre Vittorio inizia a pubblicare i propri pensieri, io stia leggendo una raccolta di articoli su creatività e immaginazione scritti da Stephen Russell, autore taoista britannico da qualche anno responsabile di un interessante adattamento delle basi del pensiero filosofico cinese alla realtà occidentale del ventunesimo secolo.
E se da unaparte mi sorge il dubbio che il Caso e la Necessità vogliano dirmi qualcosa, dall’altra mi viene voglia di dire la mia sull’intera faccenda.
Non tanto su come funzionino le idee della fantascienza -a quello ci sta pensando Vittorio – quanto su come funzioni il cervello di chi la fantascienza la pratica.
Con riferimento al pensiero taoista.
Dopotutto, Composizione e Presentazione sono due delle Cinque Eccellenze taoiste.

Vediamo.
In prima battuta, è importante ricordare che chi scrive fantascienza o fantasy non necessariamente crede a ciò che sta scrivendo.
Pare che, anni addietro, alcuni rapaci parenti del fantasista americano Piers Anthony cercarono di far internare il proprio non ancora famosissimo parente sulla scorta dei libri che scriveva.
Uno che scrive storie con astronavi, stregoneria e quant’altro, sostenevano costoro, dev’essere pazzo.

Di fatto, vale la descrizione fatta da Cory Doctorow e Karl Schroeder nel loro Compete Idiot’s Guide to Publishing Science Fiction (pagina 60, traduzione mia)

La verità è che gli autori di SF sono scettici. Non credono a nulla di ciò che viene detto loro, ed è questo scetticismo che porta a pensare in maniera innovativa. Un talento basilare per questo mestiere è l’abilità di immergersi completamente in un’area di pensiero – che sia la fisica, la paleontologia, o la storiadella dinastia Romanov – mentre si pensa a come le cose potrebbero andare diversamente.

Ed anche questo potrebbe essere considerato un sintomo di follia.
È invece semplicemente un indice di creatività.

Ora, ne abbiamo discusso in passato, la creatività è soggetta ad un trattamento schizofrenico nella nostra società.
Da una parte viene vista come un dono di Dio a pochi eletti, e come tale ammirata ed invidiata, fatta soggetto di dubbi programmi televisivi.
Per contro, viene considerata superflua o addirittura dannosa in molte sedi – prime fra tutte la scuola ed il lavoro.
Questo è particolarmente triste se consideriamo che di fatto la creatività non è un dono di Dio a pochi eletti, ma piuttosto un carattere selezionato evolutivamente  e compilato nel nostro DNA.
Tutti ce l’hanno.
Alcuni riescono ad attivarla prima – e li trasformiamo in emarginati a scuola, dove di solito gli insegnanti hanno ben chiara quale sia la maniera giusta di svolgere un tema, risolvere un problema matematico o disegnare un gatto, e perciò chi fa diversamente prende tre.
Ne abbiamo già parlato.
Attivare la creatività e imparare a tenerla sotto controllo senza imbrigliarla è questione di pratica.
Scrivere scrivere scrivere.
Disegnare disegnare disegnare.
Suonare suonare suonare.

I taoisti dicono che anche massaggiarsi l’incavo tra la spalla e il collo, sotto alla clavicola, aiuta a sviluppare la creatività. Quello, ed applicare una pressione stabile, per circa tre minuti, al centro dei lobi delle orecchie.
Più interessante è invece il discorso sulla necessità di zittire le voci che ciarlano nel nostro cervello mentre cerchiamo di fare ciò che vorremmo fare.
Oltre al chiacchiericcio costante dei pensieri, sono in particolare l’impazienza (la voce che ci sprona a fare più in fretta, a fare di più, o piuttosto a mollare tutto) ed il nostro critico interno (che ci sprona a mollare tutto, o al limite a fare di più, e meglio) che vanno zittite in fase compositiva.
Come si fà?
Meditazione,c erto.
Ma anche solo lasciare che la mente razionale si concentri su una partita a Freecell mentre il resto della nostra mente riordina le pagine del nostro racconto potrebbe essere sufficiente.
Non a caso uno dei migliori software per scrittori in circolazione – Writer’s Café – includeva a suo tempo un solitario.
Per staccare.

Più interessante è l’idea mutuata dal Taoismo secondo la quale l’esercizio della creatività avrebbe effetti positivi sulla salute.
Da una parte, per via dele affinità dell’atto creativo con la meditazione.
Dall’altra per l’azione di raffinazione alchemica – per così dire – delle nostre scorie mentali.
In fondo non è poi diverso da ciò che afferma Freud, citato da Vittorio Catani nel suo pezzo…

“…l’uomo felice non fantastica, solo l’insoddisfatto lo fa (…) e ogni
singola fantasia è un appagamento di un desiderio, una correzione della
realtà che ci lascia insoddisfatti”. Chi scrive, insomma, rielabora
materiale emergente dal profondo e che dovrà ovviamente subire un
adeguato procedimento di razionalizzazione per essere “tradotto” in
narrativa (in ciò giocheranno i valori formali, i codici linguistici,
la presunta destinazione del “prodotto” e così via).

E davvero il riferimento ad un canale che collega le profondità del nostro essere con i principi informatori della realtà si trova anche neiriferimenti taoisti, che suggeriscono di visualizzare ed affermare questo condotto, sincronizzandone i flussi con la respirazione (carburante della fornace interiore dell’uomo).
Non è detto che funzioni, ma i  taoisti ci credono.

Fa davvero bene alla salute?
È davvero, come sostiene Russell, rilassante?
In verità, io quando scrivo sono intrattabile, insoddisfatto e infastidito dai miei simili e desideroso solo di finire questa cosa in sospeso che ho salvata sul desktop – che sia un articolo accademico, un racconto, una recensione…
Mi trascinoc ome un derelitto, campo di succo d’arancia té bollente e riso bollito, non dormo la notte.
Non mi rado.
Non mi pettino.
Un animale.
Se mai dovessi metter mano a un volume-mastodonte da mille pagine, sprofonderei probabilmente in un abisso senza fondo di umor nero e paranoia dal quale potrei riemergere solo con tre mesi su una spiaggia della Costa Azzura, a bere chinotto e intrattenermi con avvenenti bagnanti.
Comunque improbabile, visti i pochi soldi che gli editori scuciono abitualmente ai romanzieri…
https://i0.wp.com/www.sandowplus.co.uk/Competition/Atlas/NewMan/NewMan-01-small.jpg
È però vero che a lavoro finito, stampato, inviato all’editore, la tensione si scarica.
Si torna a dormire senza problemi di insonnia.
Si ritrova il piacere di sperimentare con spezie e codimenti in cucina.
Gli amici non appaiono più inadeguati a portare il titolo di Homo sapiens.
Il compimento dell’atto creativo porta ad un certo benessere.
Ma a ben pensarci, questo alternarsi stress-rilassamento ricorda di più il metodo della tensione dinamica di Mister Atlas, pubblicizzato su tanti pulp degli anni ’50, che non l’insegnamento di qualche antico eremita cinese.

Devo anche ammettere che lo stress connesso alla scrittura non è forse uno stress creativo, ma uno stress operativo.
È la tastiera del computer che è inadeguata, l’impaginazione, i font.
La storia, complici lunghe partite a Freecell o a SameGnome, lunghe passeggiate e tanta buona musica,si compone senza fatica nel nostro cervello.
È portarla da lì alla pagina che è una fonte di patimento.
Devìessere per questoche i precetti taoisti raccomandano di scegliere con cura i propri strumenti, eperché si enfatizzi tanto l’esercizio che porta a trascendere la tecnica.
Per andare oltre lo strumento, rendere la parte operativa inconsapevole, non creare sforzi nel trasferire le note dallo spartito all’etere passando per il cervello, i muscoli, il materiale vile dello strumento musicale.
Niente deve frapporsi fra pensiero e azione.


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Chet & Dick

Credo di averne già parlato… col progressivo deteriorarsi della musica contemporanea, ormai infestata di donne più o meno giovani con voci stridule e intubate ed arrangiamenti da sixties pre-Beatles, accoppiato a prezzi che non accennano a calare, una buona incisione jazz è una sicurezza.
Alta qualità.
Scarso rischio di fregature.
Spesso un prezzo competitivo (è “roba vecchia”, come mi disse la sconvolta commessa di un megastore torinese, ruminando il suo chewingum).

Quelli che se ne intendono – categoria nella quale non credo di rientrare – indicano le sessioni in coppia con il pianista Dick Twardzik come fondamentali nella produzione musicale di Chet Baker, il trombettista e cantante jazz scomparso nell’86 e forse troppo popolare oggidì – al punto che alcuni lo idolatrano ma non l’hanno mai ascoltato oltre la colonna sonora del noto documentario sulla sua vita, Let’s Get Lost.
Bello e dannato, letteralmente marinato nell’eroina, Baker è il Jimmy Dean del jazz.
Elegantly wasted, come direbbero gli inglesi.
O forse neanche tanto elegantemente.
https://i0.wp.com/www.freshsoundrecords.com/cp_images/c3733.jpgIcona Jazz.
Ma Baker fu anche un dannato trombettista – e se io continuo a preferire i sax di Gerry Mulligan o Paul Desmond – non si può negare l’evidenza: Baker, per tutti i suoi stravizi, la sua scarsa intelligenza (a detta di chi loconobbe) e le sue debolezze, fu grande.
Lo è ancora, spettro intrappolato in decine di dischi, nastri, CD.
E affiancato da Twardzik – che morì malamente a 24 anni – negli anni ’50 mise l’europa a ferro e fuoco.
Rimangono svariate incisioni più o meno live (il quadruplo Chet Baker in Paris) ed ora mi capita fra le mani l’apparentemente innocuo Complete Studio Sessions with Dick Twardzik, inciso nel ’55 fra Parigi e Stuttgart e recentemente ristampato da LoneHillJazz.
Tredici pezzi perfetti, di una pulizia e di una grazia incredibili, bop senza fronzoli e senza sbavature.
E davvero è forse il piano del giovane Twardzik a “tirarmi dentro” più ancora della tromba di Baker.
O della voce di Caterina Valente che compare, ahimé, su un solo brano.

Un buon colpo, una degna colonna sonora per un pomeriggio in cui pare la pioggia non riesca a decidersi a cadere.

E per i surfisti… niente Baker/Twardzik su YouTube, accontentiamoci di Baker & Desmond


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E noi pensiamo di avere dei problemi…

Non vi sarà sfuggito, credo, che un nuovo presidente eletto siede nello Studio Ovale a Washington.
L’uomo più potente del mondo – se non altro perché ha sotto al dito quel famoso bottone rosso – è per la prima volta un afroamericano.

All’elezione di Barak Obama sono state collegate una quantità di aspettative.
Non solo da parte degli americani – che sarebbe anche ragionevole – ma anche da tutto il resto dei cittadini del mondo.
Non siamo qui per discutere se sia lecito o illecito.
Non siamo qui per dire se le aspettative verranno soddisfatte o disattese.

C’è però anche una serie di problemi, connessi con l’elezione del Presidente Obama, che nessuno, io credo, aveva anticipato.
Come la proposta di John Foley, un insegnante statunitense.

The time has arrived to update the literature we use in high school
classrooms. Barack Obama is president-elect of the United States, and
novels that use the “N-word” repeatedly need to go.

To a certain extent, this saddens me, because I love “To Kill a
Mockingbird,” “Of Mice and Men” and “The Adventures of Huckleberry
Finn.” All are American classics, and my students read them as part of
approved sophomore and junior units, as do millions of students across
the nation.

They all must go.

Già.
Sono classici, ma usano la-parola-con-la-enne – negro.
E con Obama alla casa bianca, non è il caso far circolare certi libri fra i giovani.
Come spiegar loro che la-parola-con-la-enne è male, ma quei libri sono capolavori?
Come spiegar loro che Twain, Steinbeck e tutti gli altri non erano uomini malvagi ma solo prodotti del proprio tempo?
Troppo difficile, troppo complicato.
E allora, via Huckleberry Finn, via Uomini e Topi.
Che diavolo, via Tarzan (che non è citato, pur essendo un classico, ma lo sappiamo che sarà il primo a fare una brutta fine).

Potremmo sostituirli…

I think a good substitute for “Mice” would be Tim O’Brien’s Vietnam
novel “Going After Cacciato.” Like George and Lennie in Steinbeck’s
novel, Cacciato dreams of peace and a better world. And the Vietnam War
is a more recent — and arguably more painful — era in American
history than the Depression, and one of more interest to teens.

Già.
A chi volete che freghi qualcosa di un romanzo su una colossale crisi economica…

E mettiamo Colomba Solitaria al posto del romanzo di Twain.
Perché il western di McMurtry ha più ritmo, e poi mostra il modo bestiale in cui venivano trattate le donne nel vecchio West.

Rimpiazziamoli tutti, ‘sti vecchi romanzacci razzisti, con libri nuovi, recenti, magari nella lista dei best-seller, magari certificati col Pulitzer, con temi più vicini a noi, con un ritmo più accattivante, con meno zone oscure e meno ambiguità.
Con un bel messaggio positivo.

A cosa serve il passato, dopotutto, se non a vergognarsene senza più ricordarsi il perché?

Some might call this apostasy; I call it common sense. Obama’s victory
signals that Americans are ready for change. Let’s follow his lead and
make a change that removes the N-word from the high school curriculum.

Povero Twain, povero Steinbeck, povero Lee, poveri tutti i grandi, colpevoli di aver vissuto e descritto il proprio tempo.
E poveri David Guterson, Tim O’Brien e Larry McMurtry, tirati in ballo da un imbecille non per le loro riconosciute qualità letterarie ma per il fatto che è più semplice incasellarli in un universo politically correct…
E povero Barak Obama, a dover guidare un paese popolato da certi elementi.

Pensate solo cosa capiterà sugli scaffali delle biblioteche (e nelle edicole! e nella pubblicità!) quando eleggeranno una donna alla Casa Bianca…